Chi è autodidatta può apportare con se una valenza incisiva nel definire una produzione artistica scevra da condizionamenti accademici e da necessarie citazioni di figure del passato, rendendosi autonomo e riconoscibile nel proprio tratto, nella propria capacità compositiva, nella propria poetica. Maxo della Rocca, Massimo Canato, nasce a San Maurizio Canavese (TO), e vede già nei primi anni di vita una propensione per l’arte visiva in tutti i suoi aspetti: sperimentazione e crescita lo portano, cosi, a elaborare messaggi estetici unici attraverso la pittura e la scultura, soffermandosi con grande attenzione su quest’ultima. L’impatto che la scultura di Maxo può dare è quello certamente di un genere appartenente a un figurativo classico, almeno così le sue prime opere, ma non una ripetizione pedissequa dello stile dei grandi autori italiani, quali, per esempio, Michelangelo e Bernini, i maggiori che verrebbero evocati da un approccio superficiale con le opere di Maxo, di certo espressioni di una letteratura artistica che trova nella sapienza dello scalpello il proprio tratto indistinguibile, utilizzando la materia come parte integrante di una ricerca e di una visione interiore dell’artista che va a scandagliare, scoprire possiamo dire, definendo e creando, la figura.
Non inoltriamoci nel solito dilemma che si pone davanti a opere scultoree, ossia se la figura realizzata sia stata elaborata, pensata, all’atto dello scolpire o fosse innata, già presente, nella materia grezza stessa, marmorea o petrosa, Maxo lavora con entrambi i materiali: il figurativo classico di Maxo non vuole essere inno semplice a un mero neoclassicismo, ma vuole narrare un divino che si fa umano, allegoria di condizioni di vita quotidiana, di sentimenti e di sensazioni che sono proprie del mondo finito, pur evocando immagini e protagonisti di un’epica e di una mitologia antica quanto sovrannaturale, immortale, universale, mistica e spirituale. Il marmo diventa plastico, dinamico, affida una certa vitalità ed energia all’immagine impressa, quel volto di Dio, che si arricchisce di dettagli anatomici, che descrivono in modo inconfondibile, testimonianza dell’abilità e della confidenza dell’autore non solo con la materia, che non permette e ammette errori di composizione, ma anche con la sua mano che va a scoprire, realizzandola, la figura che gradualmente va a prendere forma. Dio diventa umano, volto quasi preoccupato, attento e molto premuroso, inflessibile nel suo sguardo, impenetrabile e, soprattutto, giudice impassibile, incorruttibile ed equo, una sintesi di significanti che si realizzano, e che si materializzano, in una scultura. Ego amor sum, un’altra scultura, ci porta a contemplare in una valenza di sensualità e di plasticità attraente quanto coinvolgente, donando attraverso delicate linee scolpite come texture reali e tangibili, leggeri solchi che si ripetono in modo seriale descrivendone la superficie della monumentalità mastodontica e massiccia del petto e del torso, rievocando sculture di atleti dell’Antica Grecia, quasi un lanciatore di discobolo, i giochi che si realizzano con la luce, l’illuminazione, fonti reali e naturali che donano una struttura e un volume all’opera, mai statica, sempre mobile, sia per le varie angolazioni attraverso cui poterla osservare, sia per la sua struttura complessiva. La texture, che ci dona quasi una sensazione di non diretta trasparenza della materia scolpita, quasi fosse avvolta da una patina indefinita, viene totalmente non considerata in altre opere, soprattutto in quelle realizzate con la pietra: una piastra su cui andare e delineare un’immagine in rilievo, una presenza figurativa che sobbalza dal fondo, sprigionandosi dal suo involucro per, poi, prendere vita. Anatomo è un’opera che appartiene al figurativo classico, chiamando lo spettatore a un’immancabile contemplazione di una fisicità convincente quanto ponderata, realizzazione di un’opera in cui prevale il dettaglio e il particolare dei lineamenti anatomici, di quei fasci muscolari che, insieme, danno concretezza e tangibilità alla scultura, in una dimensione cromatica naturale, quella della pietra, quindi più scura e, pertanto, densa di quella portata concettuale che promana da una visione reale e materica. Si passa, così, a indagare la proposta artistica di Maxo attraverso quella si fa, pertanto, contenuto, messaggio metatestuale da invenire attraverso la prevalenza della forma che semplice contemplazione e osservazione dell’opera. Maxo va, cosi, a fondare, pensare, ipotizzare un movimento poetico compositivo della scultura che può essere definito, cosi come lui stesso lo considera, “suturismo”Il termine non nasce senza una base analitica della produzione che Maxo va a delineare attraverso non solo il suo scalpello ma, soprattutto, attraverso la materia, il marmo a lui molto caro, quello di Carrara, suggestivo quanto prezioso come patrimonio naturale: la geometria, parlavamo delle forme come codici estetici ricchi di un metalinguaggio, diventa alfabeto di una narrazione di simboli e di cifrari utili a indagare, l’autore chiama in causa lo spettatore, quasi lo interpella, in un’ipotesi di lavoro e di collaborazione, che va oltre alla dimensione del puro apprezzamento visivo: questo per il semplice fatto che il puro apprezzamento visivo e contemplativo non soddisfa le domande e le questioni che andiamo a porci in totale naturalezza difronte alla visione dell’opera stessa. Maxo richiede uno sforzo interpretativo necessario quanto inevitabile: è quello sforzo interpretativo che ci addentra nei significanti concettuali intrisi di esperienza e di empirismo, di realtà e di ambiente che circonda, influisce sull’uomo, lo rende parte integrante e indefettibile, quasi costringendolo in quelle convenzioni e in quelle regole etero imposte e che ne determinano l’inevitabile alienazione, estraniazione dal se, dalla propria genuina natura e volontà. Maxo lavora anche con materiali quali metalli, accertando, ancora una volta, e confermandoci, la sapienza tecnica che si evidenzia dietro la sua produzione: vediamo, così, creare opere quali Ergastolo della mente, abbastanza evocativo nella sua portata, una testa in cui viene tenuto nel proprio interno, quasi fosse un recipiente, una catena, simbolo di frustrante condizione dell’essere umano di soggezione e di chiusura, di imprigionamento negli schemi predefiniti e imposti; oppure, maggiormente concettuale nella sua portata artistica, Eugenetica, un incastro, lo si vede dalla presenza descrittiva delle manopole e delle viti a lato dell’opera, marmo scuro di Carrara, che ci porta a fantasticare concettualmente, il genere è un figurativo fantastico puro, sul concetto di perfezione riportando alla memoria quegli innesti volti alla perfezione biologica realizzati al momento della nascita e del concepimento, la donna incinta si evidenzia nella sua portata plastica, forgiando e ostentando la propria maternità e, pertanto, anche la propria femminilità, totale e tradizionale, quasi giunonica, prosperosa. Maxo afferma una certa destrezza nel saper passare con la materia dal marmo alla pietra, al metallo, all’acciaio: è quella confidenza che celebra un rapporto simpatetico, di forte sinergia ed empatia, con la stessa e lo porta, cosi, a interpretarne quelle valenze che essa contiene e possiede, realizzando con destrezza e sapienza la scultura nella sua portata. Alessandro Rizzo
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