EP: Come nasce il vostro progetto? Qual è lo stimolo che lo anima? AP: Un giorno (era il 2012 ndr.) una mia amica mi ha chiamato e mi ha detto che c’era un fondazione olandese (Global Art Affairs Foundation ndr.) che aveva preso dei palazzi a Venezia con lo scopo di restaurarli e gestirli durante le mostre d’arte della Biennale e che voleva riempire con un evento dedicato all’arte contemporanea i mesi invernali dove minore è l’offerta di arte contemporanea a Venezia. Ho incontrato il direttore della fondazione. Gli sono piaciuto, molto semplicemente. Poi mi ha chiesto se ero in grado di proporre e organizzare un evento dedicato alla performance di rilevanza internazionale. Io ho risposto che credevo di sì ma che non avevo soldi. Lui mi ha detto di non preoccuparmi e mi ha dato le chiavi dei palazzi (all’epoca era Palazzo Bembo, oggi sono palazzo Mora e Palazzo Michiel ndr.) invitandomi a fare ciò che credevo. Al che sono tornato a casa, ne ho parlato con Verena, che in principio era un po’ titubante. Alla fine abbiamo deciso di strutturarlo come se fosse un progetto nostro, di VestAndPage, quindi come se fosse una trilogia, a noi piace lavorare molto su cicli di performance pensate in forma di trilogia, e invitando le eccellenze che abbiamo incontrato nei nostri viaggi. Abbiamo deciso di affiancare grandi artisti e grandi nomi della performance a giovani promettenti e molto interessanti. E per dare un ossatura concettuale che uscisse fuori dal format del semplice festival abbiamo pensato di dare un tema che si declinasse in forma diversa in tre edizioni, un tema che ci sta molto a cuore da performers e da investigatori di quelle che sono le possibilità espressive del corpo, non solamente del corpo fisico, ma anche del corpo/mente e del corpo spirituale. Così la prima edizione è stata dedicata a corpo poetico e corpo ibrido, questa seconda a corpo rituale e corpo politico e, se sopravviveremo, la terza sarà dedicata a corpo fragile e corpo organico. Quando abbiamo iniziato, come detto, non avevamo soldi e così abbiamo chiesto ad alcuni amici di darci una mano dal punto di vista logistico a cominciare dalla copertura degli alberghi e dei ristoranti (il consorzio Concave fornisce all’organizzazione 250 notti in alberghi a Venezia in totale gratuità ndr.) ma anche prezzi di favore per le stampe dei materiali. Insomma abbiamo cercato di renderlo il più autosostenibile possibile non avendo fondi pubblici a cui attingere. Abbiamo deciso di lavorare senza cash flow, a costo zero, però cercando di fare un evento di altissima qualità. Abbiamo voluto quindi andare contro gli schemi soliti degli eventi di arte contemporanea a Venezia. Nel 2012 abbiamo iniziato con la prima edizione, che è andata al di là di ogni nostra più rosea previsione, anche perché si sono accostati alla manifestazione molti ragazzi giovani che hanno voluto darci una mano per condividere un progetto vicino a grandi artisti del calibro di Yoko Ono, Jan Fabre e Jon Hendricks. Ora siamo nel bel mezzo della seconda e, come vedi, a due giorni dalla fine, sono distrutto per l’energia che uno ci mette per fare un evento del genere, anche perché quest’anno abbiamo allungato un po’ il passo invitato cinquanta artisti. EP: Quali sono i criteri di selezione? Ci sono dei criteri di selezione? AP: C’è un’ossatura centrale formata da performer che fanno performance art in senso stretto e che con il loro lavoro aderiscono pienamente al tema dell’edizione, pur lasciando loro una grande libertà di interpretazione affinché non diventi una mostra del curatore. A questa ossatura affianchiamo degli esperimenti, ossia accostare degli artisti che provengono da altre arti, chiedendo a loro di sfidare il loro virtuosismo, di esprimere con il corpo anziché impressionare. Questi esperimenti sono sempre molto difficili in quanto è arduo superare i propri ambiti, mettere in discussione le proprie tecniche. EP: Parliamo di performance... Vi propongo un tema di discussione: gradualmente oggi l’oggetto estetico sta perdendo la sua centralità a causa del diffondersi del monopolio dell’estetico e, per contro, il processo, in arte, assume una maggiore rilevanza e centralità. Era ciò che auspicava John Cage all’alba dell’happening: Composition as a process. L’arte che si trasforma da oggetto in processo. AP: La pratica che risponde di più al termine poiesis è proprio: processo del fare. Credo che le nostre generazioni e sopratutto le nuove generazioni, siano stufe di oggettualità e di produrre supporti per altri supporti. L’immaterialità è diventata quasi un modo di vivere le cose del mondo. Cercare di essere immateriali per non dipendere troppo da materia e oggetti che continuamente creiamo. È una ribellione silenziosa al sistema capitalista. Quando cammini nelle grandi metropoli sei assillato dagli oggetti, chilometri e chilometri di grandi magazzini. Un’arte come la performance che instaura una sorta di processo per cui un concetto nasce, si rivela e poi muore nel momento stesso in cui la performance finisce ti fa restare una specie di ricordo, di flashback. È come quando vai a vedere un tramonto in una spiaggia: lo puoi condividere con chi ti sta vicino, lo puoi godere da solo, dura otto minuti e non di più, lo puoi raccontare a chi non c’era, puoi condividerne la memoria con qualcun altro. Un’altra cosa che ti da la performance è quella di dire: sì, c’ero anch’io! Soprattutto nelle performance molto partecipative, che si risolvono in collaborazioni istantanee fra performer e pubblico, o tra pubblico e pubblico. Credo che la performance stia diventando uno specchio dei tempi. Poi bisogna dire che il problema vero è che bisogna guardare i picchi e non i fondi valle, perché molti oggi si dedicano alla performance senza sapere bene che cos’è, senza ricongiungersi al valore etimologico della parola cioè per forma, per la forma. C’è un muoversi verso qualcosa, verso la forma. Questo muoversi dando forma è già quello che dici tu, è processo. Faccio un percorso cercando di dare forma a qualcosa e dal momento che il percorso è finito la cosa si esaurisce. E questo è anche processo di generare riflessione. VS: Io penso sia importante anche la parola: esaurimento. Penso che sia più adatta di risultato. Il risultato non esiste in questa forma o, per lo meno, non è l’obbiettivo. Sono azioni che vanno avanti, a volte anche dopo che tutto è finito. Per esempio Marilyn Arsem non fa nient’altro che mostrare lo stato in cui si trova in questo momento. E lei sarà così anche quando non ci sarà il pubblico a guardarla. O come Melissa Garcia Aguirre che macina i grani in quella sorta di mulino. Questo può durare un giorno, come cinque, come un mese. È la decisione dell’artista a darle una durata. Oppure è una questione di esaurimento fisico, nel senso che il fisico non ce la fa più a fare. A volte non si può nemmeno spiegare perché si è esaurita. Questa è la bellezza. EP: L’arte live, la performance art, propone un modo diverso di rapportarsi alle immagini e ai concetti. Propone l’esperienza diretta di un qualcosa, di un’istanza fondamentale ma anche di un processo comune che anima la società. Non è esperienza mediata, virtuale. È qualcosa che vivi davanti a te, a cui partecipi, con cui devi confrontarti. AP: Sì, è vero anche se non so ancora quanto pubblico si renda conto di quanto stai dicendo. Spero che in qualche modo percepisca che ci sono delle possibilità diverse. Credo che se si lavora bene e si creano le condizioni, credo che il pubblico alla fine si educhi da solo. Non credo nel pubblico stupido. Credo che ci sia una superaudience fatta dagli addetti ai lavori, dai critici, dagli artisti stessi, da gente che lavora ogni giorno in questo settore e che quindi ha già una sensibilità formata nonostante le differenze culturali, però credo anche che al pubblico quando gli dai una cosa che è nuova, sente a livello empatico, non occorre nemmeno spiegargli troppo. Nel tempo della performance o in un pomeriggio riesce a dialogare con delle immagini viventi, con coloro che vegliano sula carne vivente che sono gli artisti live. Sai non essendoci ancora artisti con nomi altisonanti che vengono mitizzati, a parte Marina Abramovich, è bello che la gente di fronte a questa persona che non sa chi è, che comunque sta offrendoti qualcosa, anche se questa offerta ti risulta incomprensibile, in qualche modo cerchi di coglierla, di rapportarti con lei. EP: In qualche modo questo è un ritorno all’origine, al senso greco del teatro, quando una comunità si incontrava di fronte a un problema mitico e in una certa forma la dibatteva, attraverso le immagini live, rielaborava e metabolizzavauna questione fondamentale. AP: io credo che se in una grande stanza buia radunassimo delle persone e accendessimo un falò e parliamo di questi argomenti crei un momento epifanico che è come quello delle tribù primitive che si radunavano e si raccontavano delle storie. EP: Quello che trovo affascinante è che la modernità in qualche modo guardando al presente riscopra modalità nascoste nell’origine, all’alba della nostra civiltà. Recupera in qualche modo le forme primarie di comunicazione. AP: Io credo, e magari azzardo, espongo solo una mia teoria, è che noi che siamo nati nel postmoderno e abbiamo vissuto la decadenza del postmoderno abbiamo vissuto in un epoca che prometteva tutto: un mondo migliore, la libertà, la fine della paura. In realtà non è vero un cazzo. Viviamo in un mondo molto più violento. EP: esatto! e se pensiamo alle immagini, ecco che ci troviamo in un territorio in cui queste sono di una violenza e di realismo estremo. AP: Le nostre generazioni sono state abituate a vedere le guerre come se fossero dei giochetti elettronici. Tipo nella prima guerra del golfo, con tutte quelle lucette verdi. Sembra Space invaders. E la gente guardava rapita senza pensare che quello voleva dire che stavano bombardando delle persone. Una cosa veramente perversa. Questo ci ha portato a rapportarci con le immagini dello schermo in maniera asettica. Le cose passano e chi se ne frega. Tanto è lì e io son qua. Anestetizzazione di fronte all’immagine mediata. È L’immagine mediata che sta all’origine della manipolazione. VS: Io penso anche che le immagini siano diventati così crudeli che la gente le guarda con terrore e panico. Non paralizzano ma traumatizzano. Così molti spengono lo schermo e non vogliono più guardare né sapere. Questo porta la gente a non voler più accedere a quel tipo di immagini perché ti fanno percepire il pericolo che sta fuori. Le immagini mediate hanno perso l’aura mitica da hi-tec e si sono trasformate in mezzo per la diffusione del panico. Ecco l’importanza delle performance live. Sono un modo di rapportarsi a temi fondamentali in maniera diretta. In un certo modo non è vedere l’atto ma è andare oltre l’atto. Raggiungere in qualche modo un certo tipo di catarsi. Di provocarla o di invocarla.
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