Esiste un lato poetico e narrativo nella storia di una città e solo la fotografia può renderne omaggio, elevandolo a ispirazione artistica, linguaggio universale di alfabeti correnti e visivi. La muta dignità vuole essere rivelazione lirica, quasi come quella successione di versi ripresi dalla poesia dell’intramontabile Maurizio Cucchi: ma la poeticità che promana da una simile asserzione che diventa onnicomprensiva si può realizzare solamente attraverso l’epifania di immagini che, se poste insieme in una serialità magica e comprensiva, possono narrare un passato che fu, ma che si invera in un presente silente, pregno di potenzialità comunicative e umane.
Si apre, così, una successione quasi filmica nella collettiva ospitata a Milano dalla libreria Scaldapensieri, La muta dignità, narrazione di narrazioni, storia di storie e nelle storie, umane e di ambienti che oggi possono definirsi spettri di qualcosa che fu, ma ricchi di suggestioni tali da invitarci a riflettere e a provare emozioni e sensazioni interiori al solo pensiero di un passato, di un presente che è e di un futuro ancora inimmaginabile. Il destino dell’umanità si riscontra, così, nel dettaglio dei particolari ripresi tali da disegnare, come fossero tratti definiti con la leggerezza di una matita, panorami esistenziali infiniti, illimitati nel loro spazio temporale di esplicazione. Oggetti, ambienti urbani e naturali e figure umane diventano elementi portanti di una storia senza tempo, senza collocazione, senza appartenenza, universali nella loro portata perché riproponibili e rinnovabili in contesti altri, alfabeti visivi e compositivi non categorizzabili. “La muta dignità” è, così, quella di una clochard che vive il presente, la città nella sua crudezza e nella sua esclusione, spesso disumana e implacabile, ma che narra storie precedenti di un passato umano e personale ricco di esperienze, di vissuti, di racconti che solo tramite lo scatto di Ivano Boselli divengono narrative poetiche di un’intensità estetica senza precedenti. La muta dignità è la successione di fotografie, fotogrammi di un presente apparentemente tacito e ammutolito, ma che riportano alla memoria nella loro capacità evocativa di un passato fatto di umanità pulsante, di viaggiatori e viandanti, di avventori e di personalità che si sono incontrati all’interno di quel paesaggio industriale oggi dismesso, nelle prossimità di quelle ciminiere, oggi resti archeologici di ambienti trasudanti lavoro, ben immortalati nella serie di Rossana Baroni. La muta dignità è quell’osservatore di oggi immerso in un ambiente quasi visionario e onirico di un presente, punto d’incontro spazio temporale di esistenze precedenti che si intrecciano come fantasmi, che solo la forza evocativa dell’arte fotografica di Kim Talacay li può inverare, distacco quasi metafisico e surreale, iperreale, che si definisce attraverso una grata che ci distanzia dall’immagine della persona seduta su una gradinata e mirante l’infinito vuoto. Ci immergiamo nella collettiva dei tre autori in un ritorno del bianco e nero che ci apporta verso panorami che si aprono da una fotografia che non vuole essere puro reportage ma, bensì, una visione profonda e quasi irreale, intensità di punti di vista e di ottiche diverse che si riassumono nel sapore di una visione inconscia di un nero di seppia, di tonalità cromatiche che sole descrivono le forme di spazi e di strutture, elementi sempiterni quasi fiabeschi dell’opera. La fotografia diventa forma d’arte autonoma e autorevole, non semplice definizione del reale ma, bensì, rappresentazione che parte dal reale e dall’oggettivo per procedere verso immaginazioni che vanno oltre allo stesso reale. Contrasti che si calibrano e si confondono in prospettive fatte di una saturazione quasi indefinita tale da dare un contorno estetico immaginario, narrativa di sintesi esistenziali che ci conducono verso liriche nuove e messaggi esistenziali interiori, si fanno, cosi, espressioni vive e tangibili, eterne nella loro portata. Le tonalità cromatiche si evidenziano attraverso un’assenza di calore e utile a donare alla fotografia una caratteristica quasi idealista, fantastica, magica, chimerica narrazione di percorsi umani, realizzata tramite la forza rievocativa che, come leggenda pulsante, si propone nelle visuali e ottiche urbane, rese vere e dirette grazie alla capacità degli artisti. Si può assaporare, così, un’arte fatta ed elaborata da tre punti di vista differenti, quelli degli autori, appartenenti a percorsi esperienziali vari, e da tre ottiche diverse, chi parte con il presupposto di evidenziare la caducità di un presente da un passato vivo, chi, invece, parte dal presupposto di riprendere il filo narrativo ed evidente della nostra contemporaneità fatta di contraddizioni e di celeri mutamenti, oggettivi quanto interiori, utili a dare un caleidoscopio di narrative di una muta dignità, di un silente racconto di vissuti quotidiani che si inverano in scenari quasi lunari, metafisici e iperreali nella loro portata, metaempirici e ricchi di simboli e di messaggi reconditi, forti e incisivi. In questa dimensione il solo scatto e la sola ripresa hanno garantito la possibilità di elevare a forma artistica di un’armonia compositiva senza filtri e diretta, un canale immediato, di espressione di sentimenti e sensazioni che promanano dallo stesso autore e che precedono quest’ultimo qualche minuto prima dello scatto, anticipando la situazione immaginata, ideata e idealizzata dal fotografo. Alessandro Rizzo
Scrivono in PASSPARnous: k
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Fotografia
Un pittorialismo fotografico: l’arte di Francesco Ragno tra forme e geometrie. di Alessandro Rizzo L’art brut diventa arte grezza e
flusso di coscienza tempestoso nelle cromaticità visionarie di Marie-Claire Guyot. di Alessandro Rizzo Georg Schrimpf:
da un espressionismo di un nuovo realismo alla dimensione magica di una nuova oggettività. di Alessandro Rizzo L’immateriale nel blu immenso e universale
di Yves Klein. di Alessandro Rizzo Un esempio di architettura integrata: la Fondazione Maeght.
di Alessandro Rizzo |
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