Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
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Rivista d'arte diretta da
F. Panizzo e V. Vacca |
Solo Dio
perdona Un film di Nicolas Winding Refn Recensione di Daniel Montigiani A Bangkok il giovane Julian (Ryan Gosling) si occupa di un club di thai boxe, soprattutto per nascondere un intenso traf- fico di stupefacenti, principale fonte dei suoi guadagni.
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Dopo che suo fratello è stato ucciso per aver stuprato e assassinato una prostituta, emerge dalla polizia l’anziano agente Chang (detto l’Angelo della Vendetta) e, in particolar modo, torna dagli Stati Uniti Crystal, la madre di Julian (Kristine Scott Thomas), con l’assetato fine di spingere il ragazzo a vendicare brutalmente la morte del fratello.
Violenza, stilizzazione, simbologie che evocano la castrazione talvolta tutt’altro che celate, potenti accenni di astrattismo appaiono come gli elementi principali e pulsanti di quest’ultima opera del danese Refn, indubbiamente uno dei registi più ammirati e seguiti degli ultimi anni. Ma, soprattutto, il regista, nonostante sembri talvolta indiriz- zarsi quasi spasmo-dicamente verso il desiderio fin troppo esibito e poco controllato di far risaltare la propria (innegabile) bravura, riesce sinteticamente a riunire, a far convivere questi elementi principali con abile compattezza: questo, dunque, può significare che i (non pochi) momenti violenti raramente non sono mostrati attraverso il denso filtro di una se non bellezza almeno finezza figurativa (sia per quanto riguarda la presentazione interna dell’in-quadratura che il colore) che talvolta sembra persino rendere la violenza un rituale maestosamente e pericolosamente riflessivo.
Violenza, stilizzazione, simbologie che evocano la castrazione talvolta tutt’altro che celate, potenti accenni di astrattismo appaiono come gli elementi principali e pulsanti di quest’ultima opera del danese Refn, indubbiamente uno dei registi più ammirati e seguiti degli ultimi anni. Ma, soprattutto, il regista, nonostante sembri talvolta indiriz- zarsi quasi spasmo-dicamente verso il desiderio fin troppo esibito e poco controllato di far risaltare la propria (innegabile) bravura, riesce sinteticamente a riunire, a far convivere questi elementi principali con abile compattezza: questo, dunque, può significare che i (non pochi) momenti violenti raramente non sono mostrati attraverso il denso filtro di una se non bellezza almeno finezza figurativa (sia per quanto riguarda la presentazione interna dell’in-quadratura che il colore) che talvolta sembra persino rendere la violenza un rituale maestosamente e pericolosamente riflessivo.
Del resto, in questo senso, potremmo azzardarci a dire che Refn pare proprio – volontariamente o meno – di- mostrarsi più che discretamente sadico nei confronti dello spettatore, costringendo più o meno quest’ultimo a provare sensazioni e riflessioni sgradevolmente contrastanti, poiché alcune delle scene-sequenze più belle (ovvero stilistica- mente impeccabili) risultano essere anche quelle più violen- te o, comunque, dall’atmosfera estrema.
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La prima “casella”, la prima inquadratura che dà via a questo serissimo, anche lugubre gioco con attenzione messo in funzione da Refn sembra voler avvertire lo spettatore: si tratta, infatti, di una sorta di inquadratura-emblema, che, con spietatezza stilistica è capace di racchiudere, di riassumere tutti i maggiori impulsi del film e, di conseguenza, di anticipare la furia quasi impossibile da controllare della maggior parte dei personaggi.
Al centro di questa inquadratura completamente sommersa in una monotona quanto potente e invadente luce rossa (colore che, tutt’altro che banalmente, pare aver fretta di annunciare la copiosa presenza di sangue che verrà attentamente distribuita nel corso della pellicola) è situato Julian che, immobile, guarda fuori campo. Alla sua sinistra, sullo sfondo, attaccato al muro si trova il pacchiano dipinto di un pugile, mentre alla sua destra una statua altrettanto grossolana, sempre di un pugile.
Al centro di questa inquadratura completamente sommersa in una monotona quanto potente e invadente luce rossa (colore che, tutt’altro che banalmente, pare aver fretta di annunciare la copiosa presenza di sangue che verrà attentamente distribuita nel corso della pellicola) è situato Julian che, immobile, guarda fuori campo. Alla sua sinistra, sullo sfondo, attaccato al muro si trova il pacchiano dipinto di un pugile, mentre alla sua destra una statua altrettanto grossolana, sempre di un pugile.
Tutti dettagli questi che, sin dall’inizio, rap- presentano una freccia espressiva atta a indicare come e quanto la violenza – nelle sue forme più svariate – rappresenti l’ingombrante organismo di tutto il film. In questa inquadratura di partenza, inoltre, il protagonista si trova proprio silenziosamente accerchiato in maniera oppri- mente da due “visioni”/espressioni di aggres-sività i(il quadro e la scultura del pugile), un sen-
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so di soffocamento che figurativamente sembra anche rappresentare un imponente prodromo del suo rapporto con la madre (una Kristine Scott Thomas insolitamente bionda, sorta di aggiornata e spietata versione di Donatella Ver- sace), dell’oppressione e persuasione soprattutto psicologica che la donna infligge al figlio.
Nonostante queste specie di gerarchie psicologiche e fisiche di potere, a causa dell’opprimente, precisa e studiata atmosfera delle ambientazioni, tutti i personaggi, anche il più spietatamente potente, sembrano soccombere sotto la morsa delle architetture che li circondano. Refn, infatti, to- glie perennemente e accuratamente ossigeno alle inqua-drature, facendo così in modo che tutti i personaggi, dal più debole ie i“inutile” ial ipiù ispocchiosamente i“forte”, vengano
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schiacciati e inglobati dai corridoi stretti e bui delle ambientazioni. In questo modo tutte le presenze umane vengono da Refn come racchiuse (o meglio dire rinchiuse) nel film, e sembrano formare un grande, insenato e in realtà debole mazzo di gesti, di corpi (e pezzi di questi…), di parole. Indubbiamente, dunque, Refn ci costringe a trovarci di fronte a un film assolutamente interessante, nonostante qualche esposta mania di manierismo e di voglia di mostrare la propria “movimentata” bravura che, paradossalmente, non permette a quest’opera di aprirsi e “sbocciare” in maniera assolutamente completa.
Daniel Montigiani
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