Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
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E la chiamano estate Un film di Paolo Franchi Anna (Isabella Ferrari) e Dino (Jean Marc-Barr) sono uniti da molto tempo, ma si tratta di un legame piuttosto sui generis: i rapporti sessuali sono del tutto assenti.
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Tale mancanza di approccio fisico comincia a destabilizzare Dino, il quale inizia a farsi spazio tra incontri con prostitute, visite a locali per scambisti, fino addirittura a cercare gli ex fidanzati di Anna per convincerli ad avere di nuovo rapporti sessuali con lei. Ma l’arrivo dell’estate potrebbe costituire l’inizio di una dimensione più ariosa e positiva. E la chiamano estate è un’ulteriore testimonianza della capacità di Paolo Franchi di essere uno dei pochi, severi e orgogliosi “ufo” nel panorama del cinema italiano degli ultimi anni. Come già era accaduto per il suo ottimo esordio (La spettatrice) e per la sua seconda opera (Nessuna qualità agli eroi), Franchi conferma di essere un autore di film capaci di fascino, anche visivo, e, soprattutto, mette ancora una volta in evidenza il proprio imprescindibile desiderio di mostrare le sue peculiarità filmiche, di differenziarsi in maniera naturale dalla maggior parte dei film italiani attuali nel raccontare per immagini una storia o una serie di storie. Tale messa in campo di queste sue peculiarità filmiche sembra manifestarsi principalmente attraverso tre principali modalità. La prima è un uso quasi ipnotico dei movimenti (talvolta impercettibili) della macchina da presa. Già la sorta di piano-sequenza d’apertura, infatti, che parte da una ripresa ravvicinata di un mare notturno dentro il quale è riflesso il disco lunare per poi spostarsi lievemente verso la sabbia sulla sinistra, può essere considerato un esempio significativo in tal senso. La seconda è rappresentata da un trattamento volutamente ambiguo, destabilizzante e depistante dello spazio e del tempo.
Anche in questo specifico caso, già con la seconda sequenza il regista sembra subito voler avvertire lo spettatore: assistiamo infatti a un campo totale della protagonista ripresa frontalmente, distesa sul letto della sua stanza di notte con il sesso scoperto (una sorta di citazione indiretta de L’origine du monde di Courbet?); e, pochi secondi dopo, notiamo che l’inquadratura successiva – un campo lungo della protagonista che, con fare da sonnambula, si aggira in vestaglia bianca sulla spiaggia di notte mentre sentiamo la voce over del marito – non è affatto una continuazione né spaziale né tempo- rale di quella precedente.
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Da
questo punto di vista, dunque, il regista, sembra voler mettere in atto
una sorta di confusione nella visione dello spettatore, non
permettendogli (in maniera assai suggestiva) di poter sempre veramente
collocare, appunto, nello spazio e nel tempo i personaggi, gli ambienti,
le azioni. Nel corso del film, infatti, sono più volte presenti improvvisi e inaspettati cambi di scena, scene brevissime e, soprattutto, mancano quasi completamente degli establishing shot, ovvero quelle inquadrature di chiarificazione narrativa in cui viene introdotto in maniera esplicita l’ambiente dove si stanno per svolgere le vicende. La terza modalità attraverso la quale Franchi manifesta le proprie peculiarità filmiche è quella forse più importante e più visibile, ovvero una sorta di astrattismo delle inquadrature, dato in particolar modo dal décor quasi esclusivamente bianco e asettico dei larghi spazi della abitazione della coppia, ma anche dal blu freddo delle discoteche e delle dark room in cui si avventura talvolta il marito della protagonista.
astratto e “ufo”, ovvero Chimera (2001) di Pappi Corsicato. Ma, del resto, tale vasta presenza di astrattezza all’interno del film si manifesta anche nei rapporti/non rapporti fra i personaggi: si pensi a quando la protagonista, ripresa in campo medio, parla allo psichiatra senza che quest’ultimo venga né sentito né visto dallo spettatore, quasi come se la donna stesse in realtà imbastendo un discorso più con se stessa, con la propria psiche che con uno specialista. Non a caso tale film è stato anche definito psicanalitico: lo stile di Franchi – sia per quanto riguarda i movimenti ipnotici della macchina da presa e i rapporti talvolta sconnessi fra le inquadrature, sia per la peculiarità delle ambientazioni – sembra infatti tradurre in immagini proprio il complesso lavoro di una mente, in particolar modo di quella della protagonista. L’astrattezza e freddezza, ad esempio, del décor bianco dell’abitazione della coppia sembra rappresentare l’ambiguità e, appunto, la distanza della protagonista talvolta capace di un volto così simile a una pagina bianca. Un film, insomma, che sembra appartenere più al codice della mente che non della realtà, un’opera che è più sguardo che parola, più silenzio che rumore.
Daniel Montigiani
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