Trickster Rubrica diretta da Alessandro Rizzo
Quando l’architettura
diventa poesia: il Mamac di Nizza
Descrivere
l’intensità estetica che promana dal Mamac, il Museo di Arte Moderna e
Contemporanea di Nizza, risulta alquanto difficile se a essere analizzati sono
lo stile e il disegno con il quale il progettista, il francese Yves Bavard, ha
ideato e strutturato la complessiva opera, quasi scultura architettonica e
cielo aperto.
È un segno intangibile di una fresca dinamicità plastica di una post contemporaneità che assapora di quella espressività quasi pittorica e figurativa, Bavard nasce come fumettista, ricordiamolo, dedicandosi successivamente e interamente all’architettura, per necessità, facendone virtù, rispecchiandosi pienamente nella frase espressa da uno dei riferimenti più vividi dell’artista e autore, Le Corbusier: «L’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi sotto la luce».
Il Mamac ha fatto ben discutere nella sua progettazione e, soprattutto, realizzazione: inaugurato nel 1989 da Jacques Medico, che ha sempre riconosciuto al Museo un’ottima definizione architettonica, il suo impatto poteva suscitare contrastanti pareri, chi lo amava e chi lo detestava, così come si evidenzia nel gioco tra pieni e vuoti, luci e ombre, visioni e coperture che si esplica in modo flessibile nell’intera costruzione. Si può giudicare il Mamac la quinta essenza di quel modernismo funzionale che tanto piaceva alla scuola di Bauhaus, dove si definiva l’architettura stessa «fine ultimo di ogni attività figurativa”.
Il Mamac è anche poesia: questo aspetto si celebra molto nella produzione dell’autore, tanto da considerare la sua attività artistica come un derivato di quel punto attento e quasi lirico di osservazione della natura, del reale, facendo rilevare gli opposti, violenza e pienezza, in un’ossessione quasi geometrica di assunzione del “collegamento da un punto a un altro”, celebrazione di una dimensione simbolica, che parte dal reale. Il concettualismo di Bavard non apparirà mai pedante e didascalico ma, bensì, fortemente armonioso in una visione integrata e integrale di un contesto urbano che non deve essere violentato, anzi, deve essere universalmente proposto.
È un segno intangibile di una fresca dinamicità plastica di una post contemporaneità che assapora di quella espressività quasi pittorica e figurativa, Bavard nasce come fumettista, ricordiamolo, dedicandosi successivamente e interamente all’architettura, per necessità, facendone virtù, rispecchiandosi pienamente nella frase espressa da uno dei riferimenti più vividi dell’artista e autore, Le Corbusier: «L’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi sotto la luce».
Il Mamac ha fatto ben discutere nella sua progettazione e, soprattutto, realizzazione: inaugurato nel 1989 da Jacques Medico, che ha sempre riconosciuto al Museo un’ottima definizione architettonica, il suo impatto poteva suscitare contrastanti pareri, chi lo amava e chi lo detestava, così come si evidenzia nel gioco tra pieni e vuoti, luci e ombre, visioni e coperture che si esplica in modo flessibile nell’intera costruzione. Si può giudicare il Mamac la quinta essenza di quel modernismo funzionale che tanto piaceva alla scuola di Bauhaus, dove si definiva l’architettura stessa «fine ultimo di ogni attività figurativa”.
Il Mamac è anche poesia: questo aspetto si celebra molto nella produzione dell’autore, tanto da considerare la sua attività artistica come un derivato di quel punto attento e quasi lirico di osservazione della natura, del reale, facendo rilevare gli opposti, violenza e pienezza, in un’ossessione quasi geometrica di assunzione del “collegamento da un punto a un altro”, celebrazione di una dimensione simbolica, che parte dal reale. Il concettualismo di Bavard non apparirà mai pedante e didascalico ma, bensì, fortemente armonioso in una visione integrata e integrale di un contesto urbano che non deve essere violentato, anzi, deve essere universalmente proposto.
Henri Vidal, grande ingegnere, diventa il suo punto di riferimento più vivo, tanto da determinarne quell’essenza protesa a fondere l’architettura con l’ambiente esterno, quello che lui definisce come “l’anima del paese”. La sua osservazione si rivelerà fortemente nella capacità di immortalare momenti vitali dell’esistenza: così come è successo nel 1967 quando si laurea con un progetto dal titolo “La Maréolien”, vera e propria ripresa di onde che si infrangono sulla costa frastagliata dell’isola di Ouessant.
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L’edificio si inerpica, così, quasi come se sorgesse da una roccaforte fatta di ponti e di punti di contatto, basandosi su delle fondamenta molto esili, pilastri che si contrappongono a delle sezioni di vuoto, costruendo una scogliera in marmo di Carrara, a cavallo di una strada principale della città, la N7. Tutto questo esprime una sensazione di totale assenza di sopraffazione, nonostante il complesso veda, come in un gioco di “totale opposizione tra
il freddo e il caldo Museo del Teatro, yin e yang”, l’altra struttura attigua,
il teatro, “parte del museo”, dove il museo diventa una “cava, mentre il teatro
assume la stessa forma in piena”. Vetro che si alterna al metallo, torri che si alternano ai ponti: si dimensiona in questo contesto una visione di insieme leggera e dinamica di un edificio complessivo molto forte e, allo stesso tempo, plastico. Gli edifici del complesso si uniscono attraverso un grande giardino rialzato, il toit terrasse, tetto a terrazza inerbito, all’ultimo piano dell’edificio, quasi delineando il dialogo esistente tra ambiti differenti, collegati dall’insanabile funzione sociale di un’architettura rivolta a ospitare opere imperiture e intramontabili di rilevanti figure del mondo dell’arte moderna. Il verde viene, così, visto come protagonista presente e attento nella vita dell’uomo, che si rimpossessa del medesimo, dandone quella valenza di parte integrante della struttura e non di mera realtà secondaria da abbellimento. L’architettura, così, si fonde con quelli che vengono definiti i bisogni sociali dell’uomo medio, diventando protagonista inconfondibile di un’arte moderna che esprime l’avvenirismo di un quotidiano vissuto e familiare.
La struttura esprime dinamicità e leggerezza proprio per
quella funzione di pianta libera che vive in uno scheletro in cemento
armato, eliminando le strutture totalizzanti che schiavizzano e
ingabbiano l’edificio. In questa ottica l’autore ha potuto realizzare un
edificio sotto un’ottica più libera e liberata. Bavard è un “geniale
pensatore della realtà del suo tempo”, tanto da darne un’interpretazione
non fittizia o edulcorata, ma lirica e poetica, vivace e geniale.
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Con lo scultore Sacha Sosno progetta, infine, l’utopia architettonica per antonomasia, l’impensabile che diventa reale: una scultura abitata. La realizzazione di questo prospetto inimmaginabile ha dettato la progettazione della biblioteca, parte integrante del complesso architettonico, sotto forma di vera e propria testa fatta da “pelle” in alluminio tesa su telai con una tinta grigio opaca, funzionale a fondere il tutto con le pareti di marmo. D'altronde è viva la rilevante portata di rottura nello stile da parte di un uomo che ha visto la propria formazione nei laboratori, vivi spazi di creazione artistica sempre innovativa e sperimentale, a discapito di quella rigida struttura che solo una visione troppo accademica e, quindi, didascalica, può tramandare. Il disordine rende creativo e induce a dare nuove prospettive alla propria arte.
Il Mamac diventa l’espressione dell’arte moderna e accoglie, quasi identificandosi con esse, grandi firme che hanno costellato, da Christo a Warholl, da Arman a César, da Tinguely a Niki de Saint-Phalle, tutta la rivisitazione dell’estetica pittorica e figurativa, dalla pop art al nuovo realismo, rendendola più popolare senza scadere nella banalità.
Il Mamac diventa l’espressione dell’arte moderna e accoglie, quasi identificandosi con esse, grandi firme che hanno costellato, da Christo a Warholl, da Arman a César, da Tinguely a Niki de Saint-Phalle, tutta la rivisitazione dell’estetica pittorica e figurativa, dalla pop art al nuovo realismo, rendendola più popolare senza scadere nella banalità.
Il 21 giugno 1990 il Mamac apre i battenti al pubblico,
ospitando i primi visitatori all’interno delle sue sale che si
dimensionano su quattro piani accessibili da scale mobili illuminate con
la delicatezza di un’ambientazione soffusa e leggera. È nato con il Mamac, così, un progetto che da tempo correva nei desideri dell’amministrazione comunale e statale, da una parte, e di diversi
artisti, ricordiamo a proposito come Giovanni Cassini, Henri Matisse e
Pierre Bonnard avessero già parlato di dare vita a un progetto simile,
dando a Yves Bayard, affiancato dal suo “maestro” e mecenate Henry
Vidal, il titolo di architetto di visioni figurative e pittoriche dalla
forte intensità pittorica.
Alessandro Rizzo
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