The Wolf
of Wall Street di Martin Scorsese Articolo di Daniel Montigani
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In qualsiasi punto, zona a caso del destino di Jordan Belfort (Leonardo Di Caprio) - americano medio(cre) che dal vendere gelati diviene ricchissimo capo di un ufficio di Stockbrocker tra attività poco pulite, droga e sesso sregolato - c’è profondamente scritto il concetto, la parola “eccesso”. Ma quello di Jordan Belfort non è certo un “andare oltre”, un debordare come lo intendeva William Blake, il quale sosteneva che “La via dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza”. L’eccesso del protagonista, casomai, conduce da subito allo squallore per poi finire al massimo al palazzo del carcere.
Si parte gettati dentro l’immagine inaspettata di un simbolo di un leone in bianco e nero, seguita dal fotomontaggio di un leone vero e proprio che con classe robusta e prepotente si aggira per le “vie” dell’ufficio di Wall Street di Belfort, visione alquanto peculiare e suggestiva accom- pagnata dalla voce fuori campo del protagonista: presto scopriremo che si tratterà di una pubblicità della sua azienda.
Con il breve scrigno di questa pre- ziosa sequenza d’apertura si viene forzatamente invitati a vedere il tutto come uno dei momenti più signi-ficativi del film, un ritrovo pregno di concetti. Viene infatti rappresentata nemmeno tanto ermeticamente la “non humanitas” del protagonista (e degli uomini in genere?) e di coloro – soprattutto colleghi – che gli stanno attorno.
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Questo, difatti, è un perfetto esempio visivamente forte di come un certo tipo di esagerato benessere – come quello del protagonista, appunto – possa trasformare il mondo, la visione del mondo in uno spettacolo pacchiano, rozzo, e fuori luogo. Qui, la volgarità della sua ricchezza e potenza trasformano un animale possentemente elegante come il leone in un momentaneo “oggetto” afflitto dal morbo carnevalesco del kitsch più improbabile. Ma questa “unione” del leone con gli uffici del protagonista fa comprender anche come i confini fra natura/bestialità e umanità siano spettacolarmente labili. Diremmo che proprio un “eccesso di civilizzazione”, di industrializzazione e di gente “fin troppo umana” porta naturalmente, inevitabilmente a non lodevoli “secrezioni bestiali”, proprio come nel caso del protagonista e viventi dintorni.
Alla voluta esagerazione del film corrisponde non poche volte quella dello stile, con movimenti di macchina di una sinuosità “volgare” che riecheggia perfettamente quella del protagonista e di molti altri abitanti di quest’opera, con improvvisi fermo immagine e con attimi sospesi di pura visionarietà (il primo piano allucinato del ragazzo che scuote i capelli bagnati seguito dal dettaglio di un tuono ricorda l’estetica di Bill Viola) . Insomma, tutto (o quasi) è eccesso, un vortice malandato, marcio eppur tristemente energico che ha come “simbolo” ufficiale l’“ufficio-impero” di Jordan, attraversato da sentite sgradevolezze (dis)umane piuttosto vicine al Freaks di Tod Browning (film quest’ultimo non a caso qui citato indirettamente con una battuta-esclamazione).
Alla voluta esagerazione del film corrisponde non poche volte quella dello stile, con movimenti di macchina di una sinuosità “volgare” che riecheggia perfettamente quella del protagonista e di molti altri abitanti di quest’opera, con improvvisi fermo immagine e con attimi sospesi di pura visionarietà (il primo piano allucinato del ragazzo che scuote i capelli bagnati seguito dal dettaglio di un tuono ricorda l’estetica di Bill Viola) . Insomma, tutto (o quasi) è eccesso, un vortice malandato, marcio eppur tristemente energico che ha come “simbolo” ufficiale l’“ufficio-impero” di Jordan, attraversato da sentite sgradevolezze (dis)umane piuttosto vicine al Freaks di Tod Browning (film quest’ultimo non a caso qui citato indirettamente con una battuta-esclamazione).
Lo “squallido” eccesso nel film c’è anche quando non è effettivamente presente: i pochi, rari momenti di “silenzio”, di mancanza di tram- busto e di delirante velocità sfociano comunque in una calma fatta di immobilità monca, frat- turata, castrata, particolarità questa ben presente nella scena in cui il protagonista, dopo aver assunto droghe scadute, cerca di raggiungere la sua macchina strisciando con una lentezza che angoscia.
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Il vasto, continuo collage di esagerazioni rende questa pellicola una delle maggiormente eccessive e debordanti di Scorsese, persino forse più di Fuori orario. Ma se in quest’ultimo film l’ufficio in cui lavora il personaggio principale era l’unica “zona logica” e “tranquilla”, in The wolf of wall street il suo grande ufficio rappresenta invece proprio l’“eccellenza” del delirio e della mancanza di qualsiasi decenza.
Purtroppo qualche difetto blocca il film e gli impedisce di aggirarsi nei dintorni della perfe-zione. Curiosamente, l’eccesso in Scorsese è da sempre sia una risorsa che un limite. In questo caso talvolta è anche un limite: l’interpretazione di Di Caprio, per quanto intrisa di bravura, sembra sfuggire dal suo volto, dalle sue espressioni saltando nello stagno di un incontrollato sfoggio di esagerazioni e versi. Ma sono presenti anche altri eccessi un po’ mal diretti da Scorsese, come la parte iniziale della sequenza del protagonista con la famiglia e amici intrappolati nello yacht in mezzo alla tempesta di mare, girata con un caos di riprese che lascia indifferenti, o come diverse scene che mostrano i conflitti fra il protagonista, la moglie e la piccola figlia, situazioni visivamente poco personali che potrebbero essere rintracciate in qualsiasi film drammatico di scarso interesse.
Purtroppo qualche difetto blocca il film e gli impedisce di aggirarsi nei dintorni della perfe-zione. Curiosamente, l’eccesso in Scorsese è da sempre sia una risorsa che un limite. In questo caso talvolta è anche un limite: l’interpretazione di Di Caprio, per quanto intrisa di bravura, sembra sfuggire dal suo volto, dalle sue espressioni saltando nello stagno di un incontrollato sfoggio di esagerazioni e versi. Ma sono presenti anche altri eccessi un po’ mal diretti da Scorsese, come la parte iniziale della sequenza del protagonista con la famiglia e amici intrappolati nello yacht in mezzo alla tempesta di mare, girata con un caos di riprese che lascia indifferenti, o come diverse scene che mostrano i conflitti fra il protagonista, la moglie e la piccola figlia, situazioni visivamente poco personali che potrebbero essere rintracciate in qualsiasi film drammatico di scarso interesse.
Inseribile nel repertorio poco lodevole del discretamente già visto anche la sequenza del protagonista nell’ufficio di Long Island poco prima dell’esplosione del suo enorme successo, girata col fine di mostrare la sua inaspettata e progressiva ascesa tramite un uso un po’ banale del montaggio ellittico, sintetico, riassuntivo scandito da un’ammiccante musica extra-diegetica che vorrebbe esprimere l’adre-nalina sempre più fitta dell’inizio della sua scalata. |
Insomma, un bel film indubbiamente questo di Scorsese, che risente però anche
del non esaltante fascino del mancato capolavoro, dell’occasione qua e là
persa.
Daniel Montigiani
Scrivono in PASSPARnous: k
Aldo Pardi, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Alessandro Rizzo, Fabio Treppiedi, Silverio Zanobetti, Sara Maddalena, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Alessia Messina, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Enrico Pastore, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Francesco Panizzo.
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