Psychodream Review Rubrica diretta da Viviana Vacca e Francesco Panizzo
|
Rivista d'arte diretta da
F. Panizzo e V. Vacca |
Presento qui di seguito la persona di Renata Biserni, figura tra le più illustri del panorama psicoterapeutico odierno. Tiene corsi di psicodramma, con Ottavio Rosati, all’Istituto Plays, sito a Roma; forse, la realtà più celebre e concreta d’Italia, ancor prima che di Roma. Un istituto che non si è ancora prodigato per coprire un’ampia offerta di servizi, per quanto riguarda il terapeutico o l’educativo, nei riguardi di persone migranti da culture altre. Rassicurando però sull’alta preparazione delle figure professionali dell’Istituto, Renata Biserni[1] garantisce l’apertura a questa offerta formativa in un futuro prossimo. Mi riceve, Biserni, in uno studio davvero accogliente, nel cuore della capitale. Ecco l’intervista:
Renata, mi fai un piccolo excursus sull’impostazione del sociodramma?
Il sociodramma dipende dall’ambito nel quale viene fatto: prende di mira il gruppo e non il singolo individuo. Quindi, non è un lavoro terapeutico, ma un lavoro che si esercita sui gruppi, esperienzialmente, mentre lo psicodramma ha funzione terapeutica o educativa. Il sociodramma ha funzione piuttosto educativa e tende a sensibilizzare le persone di un gruppo che hanno lo stesso problema. Jacob Levi Moreno negli Stati Uniti lo praticava con persone di etnie diverse, mettendo insieme problemi di contrasto, di tipo religioso o razziale. Ponendo insieme tali persone, i problemi venivano elaborati. Qui, invece, noi lo facciamo non come lo faceva Moreno, ma lo facciamo in moltissimi ambiti. Io appartengo all'ETNA,“Etnopsicologia analitica”: un gruppo di psicologi analitici seguaci del pensiero di Jung, appartenenti all’ AIPA (Associazione Italiana Psicologie Analitiche), che ha fondato questo gruppo per lavorare con persone di altre culture – rifugiati politici, immigrati in genere. All’interno di questo gruppo io faccio lo psicodramma ma se dovessi proporre un sociodramma, potrei lavorare sul rito; mia intenzione è quella di lavorare sui riti “nostri” e i “loro”, visto che anche “loro” devono imparare i “nostri” riti. Io faccio vari tipi di sociodrammi, anche se io lavoro più come psicoterapeuta. Ottavio Rosati ne fa molti di più. L’ultimo sociodramma, da me svolto, è una riscrittura di un testo di una didatta dell’ AIPA che ha come spunto Shakespeare: l’Amleto in rapporto a Edipo dove Amleto e Edipo si incontrano e si parlano. Quello che ne risulta è che il vecchio tema di Edipo poteva funzionare nella vecchia famiglia; oggi, nella famiglia allargata le problematiche Edipiche si manifestano come un di più. Alcuni personaggi che non hanno voce vengono fuori in questo confronto. Abbiamo fatto così: aldilà del reading della scrittura, a un certo punto abbiamo chiesto al pubblico di dire, a un determinato punto dell’ opera, cosa avrebbero detto i personaggi. Alla fine c’è stata una condivisione da parte del gruppo, che si è manifestata nel fare delle domande al personaggio che aveva interpretato Ofelia, piuttosto che Gertrude. Il pubblico chiedeva loro alcune cose, oppure si identificava parlando come quel personaggio. La cosa è un po’ complessa, ma diciamo che si attiva in questo senso. L’altro sociodramma che ho fatto è attinente a una raccolta di sogni in cui compaiono piante vegetali – io ne sono una grande stimatrice –. Ne sto scrivendo un libro, che si intitola Le piante del sogno: dieci o più persone di un gruppo raccontano i loro sogni, legati al mondo vegetale. Poi, li mettiamo in scena, come si fa con la tecnica psicodrammatica, oppure andiamo in un giardino pubblico, orto botanico, comunque nel verde e facciamo lavori, anche sul corpo, legati al mondo vegetale. Anche se le piante compaiono poco nel mondo onirico.
Vi sono delle differenze metodologiche, fra lei e Ottavio Rosati, nell’approccio allo psico-dramma?
Nella nostra scuola no, siamo tutti uniformi. Ci sono però altri approcci differenti, nel mondo esterno. La nostra scuola si rifà allo psicodramma moreniano, con l’integrazione di elementi di psicodinamica, che si richiamano in particolare al pensiero di Jung.
Io faccio qualcosa di più perché faccio anche psicodramma dell’infanzia, essendomi formata con Claude Lorin. Lo svolgo marginalmente, in un centro che si chiama Ortofonologia, in cui lavoro anche con le mamme di bambini autistici.
L’approccio resta uniforme, lo psicodramma dell’infanzia è una tecnica che unisce assunti di base di lavoro di Moreno e della psicanalisi, messa a punto da alcuni psicanalisti francesi degli anni Cinquanta.
C’è spazio anche per Milton Erickson nel vostro approccio?
Direi di sì! Io ho fatto delle esperienze di ipnosi ericksoniane con Ernest Rossi, suo allievo. Ma non sento di avere un trasporto così alto, mentre Rosati ce l’ha molto di più. Può però rientrare nell’ambito.
Gli attori sono più professionisti in azioni teatrali o più pazienti in cura?
Nel sociodramma i partecipanti non sono attori, sono persone che mettono in scena non un testo, ma se stessi, i propri copioni, le proprie patologie, mancanze e bisogni.
Renata, mi fai un piccolo excursus sull’impostazione del sociodramma?
Il sociodramma dipende dall’ambito nel quale viene fatto: prende di mira il gruppo e non il singolo individuo. Quindi, non è un lavoro terapeutico, ma un lavoro che si esercita sui gruppi, esperienzialmente, mentre lo psicodramma ha funzione terapeutica o educativa. Il sociodramma ha funzione piuttosto educativa e tende a sensibilizzare le persone di un gruppo che hanno lo stesso problema. Jacob Levi Moreno negli Stati Uniti lo praticava con persone di etnie diverse, mettendo insieme problemi di contrasto, di tipo religioso o razziale. Ponendo insieme tali persone, i problemi venivano elaborati. Qui, invece, noi lo facciamo non come lo faceva Moreno, ma lo facciamo in moltissimi ambiti. Io appartengo all'ETNA,“Etnopsicologia analitica”: un gruppo di psicologi analitici seguaci del pensiero di Jung, appartenenti all’ AIPA (Associazione Italiana Psicologie Analitiche), che ha fondato questo gruppo per lavorare con persone di altre culture – rifugiati politici, immigrati in genere. All’interno di questo gruppo io faccio lo psicodramma ma se dovessi proporre un sociodramma, potrei lavorare sul rito; mia intenzione è quella di lavorare sui riti “nostri” e i “loro”, visto che anche “loro” devono imparare i “nostri” riti. Io faccio vari tipi di sociodrammi, anche se io lavoro più come psicoterapeuta. Ottavio Rosati ne fa molti di più. L’ultimo sociodramma, da me svolto, è una riscrittura di un testo di una didatta dell’ AIPA che ha come spunto Shakespeare: l’Amleto in rapporto a Edipo dove Amleto e Edipo si incontrano e si parlano. Quello che ne risulta è che il vecchio tema di Edipo poteva funzionare nella vecchia famiglia; oggi, nella famiglia allargata le problematiche Edipiche si manifestano come un di più. Alcuni personaggi che non hanno voce vengono fuori in questo confronto. Abbiamo fatto così: aldilà del reading della scrittura, a un certo punto abbiamo chiesto al pubblico di dire, a un determinato punto dell’ opera, cosa avrebbero detto i personaggi. Alla fine c’è stata una condivisione da parte del gruppo, che si è manifestata nel fare delle domande al personaggio che aveva interpretato Ofelia, piuttosto che Gertrude. Il pubblico chiedeva loro alcune cose, oppure si identificava parlando come quel personaggio. La cosa è un po’ complessa, ma diciamo che si attiva in questo senso. L’altro sociodramma che ho fatto è attinente a una raccolta di sogni in cui compaiono piante vegetali – io ne sono una grande stimatrice –. Ne sto scrivendo un libro, che si intitola Le piante del sogno: dieci o più persone di un gruppo raccontano i loro sogni, legati al mondo vegetale. Poi, li mettiamo in scena, come si fa con la tecnica psicodrammatica, oppure andiamo in un giardino pubblico, orto botanico, comunque nel verde e facciamo lavori, anche sul corpo, legati al mondo vegetale. Anche se le piante compaiono poco nel mondo onirico.
Vi sono delle differenze metodologiche, fra lei e Ottavio Rosati, nell’approccio allo psico-dramma?
Nella nostra scuola no, siamo tutti uniformi. Ci sono però altri approcci differenti, nel mondo esterno. La nostra scuola si rifà allo psicodramma moreniano, con l’integrazione di elementi di psicodinamica, che si richiamano in particolare al pensiero di Jung.
Io faccio qualcosa di più perché faccio anche psicodramma dell’infanzia, essendomi formata con Claude Lorin. Lo svolgo marginalmente, in un centro che si chiama Ortofonologia, in cui lavoro anche con le mamme di bambini autistici.
L’approccio resta uniforme, lo psicodramma dell’infanzia è una tecnica che unisce assunti di base di lavoro di Moreno e della psicanalisi, messa a punto da alcuni psicanalisti francesi degli anni Cinquanta.
C’è spazio anche per Milton Erickson nel vostro approccio?
Direi di sì! Io ho fatto delle esperienze di ipnosi ericksoniane con Ernest Rossi, suo allievo. Ma non sento di avere un trasporto così alto, mentre Rosati ce l’ha molto di più. Può però rientrare nell’ambito.
Gli attori sono più professionisti in azioni teatrali o più pazienti in cura?
Nel sociodramma i partecipanti non sono attori, sono persone che mettono in scena non un testo, ma se stessi, i propri copioni, le proprie patologie, mancanze e bisogni.
Dunque, in uno psicodramma i nomi di Edipo e Amleto sono, allora, più delle vesti usate come simboli, piuttosto che divenire personaggi di una performance teatrale?
Sì. Sono più pretesti per mettere in gioco se stessi. Poi, un paziente può identificarsi, ma i personaggi del teatro non c’entrano niente, assolutamente. Fa parte di un gioco questa scelta? |
Sì, difatti “to play” è uguale a giocare.
Nello psicodramma non c’è un testo teatrale che si mette in scena bensì, in scena, vi sono i frammenti della vita delle persone, che possono essere reali o immaginari, avvenuti nel passato, nel presente o hanno da accadere nel futuro.
Il pubblico ha una parte attiva?
Sì. Ma c’è solo nel sociodramma, non nello psicodramma. Il pubblico è protagonista con il gruppo ma non si può parlare di testo, semmai di pretesto per arrivare alla verità di ognuno. Nella psicoterapia non c’è niente di stabilito, di fisso. Ci sono solo le storie che un paziente porta, come i sogni che possono essere messi in scena, in maniera molto semplice.
L’estetica della performance investe molti ambiti, però non c’entra nulla nel setting terapeutico che è, ripeto, una cura.
Una scenografia o un’oggettistica rituale molto curata potrebbe essere importante per la cura?
Nello psicodramma non sono previste, anche se qualche oggetto si può usare, se capita. Spesso, una stanza con delle sedie basta e avanza. Anche con i bambini non si usano oggetti; anzi è lui, il bambino, che li deve inventare, immaginare o, addirittura, può diventare lui l’oggetto, mettersi nei suoi panni.
Questo ha a che fare con l’immaginazione attiva di Jung?
No, questa è un’altra cosa, molto più complessa: un piano dove si incontrano la coscienza e l’inconscio, dove dialogano tra loro.
Per quanto riguarda l’aspetto gestionale di voi psicodrammisti, c’è un agire, una sorta di training come metodologia prefissata, che possa essere utilizzata su una buona moltitudine di persone o pazienti? Esistono metodologie a prescindere dall’individualità, personalità, identità del paziente?
Sì, ci sono tecniche fisse che lo psicodrammista vede di volta in volta. Per esempio, una famosissima tecnica è quella della “bottega magica”, usata quando si vede che nel gruppo non viene fuori nulla: allora si applicano queste tecniche che sono aperte, con possibilità di essere destrutturate o di inventarne delle nuove. Nella “bottega magica” lo psicodrammista fa quello che “vende” e i pazienti vanno a “comperare” qualcosa che non è materiale ovviamente, l’amore, la felicità, ecc.
I pazienti devono essere disposti a dare in cambio qualcosa. Di solito lì si tocca subito il punto dolente.
In genere il training, o riscaldamento, si fa lasciando parlare le persone liberamente, nella speranza che venga fuori un tema.
Stamani con le madri è venuto fuori da una donna, il tema della legge 104, che riguarda chi assiste persone invalide. L’invalidità dà anche un sussidio economico, come nel caso delle madri di bambini autistici, che affrontano il problema di riuscire ad ammettere che il proprio figlio ha questa patologia. Una patologia difficile da definire e per questo alcune madri non ce la fanno. Dopo aver stato estrapolato il tema, abbiamo tutti lavorato su quello.
In che modo?
Beh! Invece di parlare della legge 104, una persona ha psicodrammaticamente interpretato il ruolo della legge in sé e le persone si sono confrontate con lei, “la legge”, interpretata da una persona che la conosceva bene. Così, abbiamo elaborato quello che ne veniva fuori: elementi di rifiuto, di negazione, ecc. Perché se tu accetti di avere i vantaggi di una legge, vuol dire che devi ammettere che tuo figlio è malato e non tutte le madri ci riescono. Non solo si lavora sui problemi legati alle malattie ma anche su questioni più comuni, quali quelli di essere donne o persone, visto che poi si rischia di annullarsi nella malattia del figlio. I gruppi si creano sia del volere dei pazienti stessi, che scelgono la strada della terapia di gruppo, sia su mio suggerimento, come nel caso di quei singoli a cui consiglio di iniziare, dopo una terapia personale, ad aprirsi alle potenzialità del gruppo.
Ci sono dei pazienti che non sono riusciti a risolvere i propri problemi con lo psicodramma?
Penso proprio di sì. Lo psicodramma è una tecnica attiva che mette in gioco l’azione, stimola particolarmente problematiche che, nell’analisi individuale, ci metterebbero molto tempo a emergere. Certo, però, i fallimenti ci sono, non c’è dubbio. La psicoterapia non è avere la bacchetta magica, come tutte le tecniche ci dicono.
Ti sei mai trovata in situazioni imbarazzanti da gestire all’interno di un socioplay?
No. In linea di massima no. Ci sono situazioni difficili, ma gestibili: c’è un collega, Gianpaolo Mazzara, che lavora in una comu- nità terapeutica e lavora con pazienti psichiatrici, lui potrebbe esserti più d’aiuto in questo senso.
Nello psicodramma non c’è un testo teatrale che si mette in scena bensì, in scena, vi sono i frammenti della vita delle persone, che possono essere reali o immaginari, avvenuti nel passato, nel presente o hanno da accadere nel futuro.
Il pubblico ha una parte attiva?
Sì. Ma c’è solo nel sociodramma, non nello psicodramma. Il pubblico è protagonista con il gruppo ma non si può parlare di testo, semmai di pretesto per arrivare alla verità di ognuno. Nella psicoterapia non c’è niente di stabilito, di fisso. Ci sono solo le storie che un paziente porta, come i sogni che possono essere messi in scena, in maniera molto semplice.
L’estetica della performance investe molti ambiti, però non c’entra nulla nel setting terapeutico che è, ripeto, una cura.
Una scenografia o un’oggettistica rituale molto curata potrebbe essere importante per la cura?
Nello psicodramma non sono previste, anche se qualche oggetto si può usare, se capita. Spesso, una stanza con delle sedie basta e avanza. Anche con i bambini non si usano oggetti; anzi è lui, il bambino, che li deve inventare, immaginare o, addirittura, può diventare lui l’oggetto, mettersi nei suoi panni.
Questo ha a che fare con l’immaginazione attiva di Jung?
No, questa è un’altra cosa, molto più complessa: un piano dove si incontrano la coscienza e l’inconscio, dove dialogano tra loro.
Per quanto riguarda l’aspetto gestionale di voi psicodrammisti, c’è un agire, una sorta di training come metodologia prefissata, che possa essere utilizzata su una buona moltitudine di persone o pazienti? Esistono metodologie a prescindere dall’individualità, personalità, identità del paziente?
Sì, ci sono tecniche fisse che lo psicodrammista vede di volta in volta. Per esempio, una famosissima tecnica è quella della “bottega magica”, usata quando si vede che nel gruppo non viene fuori nulla: allora si applicano queste tecniche che sono aperte, con possibilità di essere destrutturate o di inventarne delle nuove. Nella “bottega magica” lo psicodrammista fa quello che “vende” e i pazienti vanno a “comperare” qualcosa che non è materiale ovviamente, l’amore, la felicità, ecc.
I pazienti devono essere disposti a dare in cambio qualcosa. Di solito lì si tocca subito il punto dolente.
In genere il training, o riscaldamento, si fa lasciando parlare le persone liberamente, nella speranza che venga fuori un tema.
Stamani con le madri è venuto fuori da una donna, il tema della legge 104, che riguarda chi assiste persone invalide. L’invalidità dà anche un sussidio economico, come nel caso delle madri di bambini autistici, che affrontano il problema di riuscire ad ammettere che il proprio figlio ha questa patologia. Una patologia difficile da definire e per questo alcune madri non ce la fanno. Dopo aver stato estrapolato il tema, abbiamo tutti lavorato su quello.
In che modo?
Beh! Invece di parlare della legge 104, una persona ha psicodrammaticamente interpretato il ruolo della legge in sé e le persone si sono confrontate con lei, “la legge”, interpretata da una persona che la conosceva bene. Così, abbiamo elaborato quello che ne veniva fuori: elementi di rifiuto, di negazione, ecc. Perché se tu accetti di avere i vantaggi di una legge, vuol dire che devi ammettere che tuo figlio è malato e non tutte le madri ci riescono. Non solo si lavora sui problemi legati alle malattie ma anche su questioni più comuni, quali quelli di essere donne o persone, visto che poi si rischia di annullarsi nella malattia del figlio. I gruppi si creano sia del volere dei pazienti stessi, che scelgono la strada della terapia di gruppo, sia su mio suggerimento, come nel caso di quei singoli a cui consiglio di iniziare, dopo una terapia personale, ad aprirsi alle potenzialità del gruppo.
Ci sono dei pazienti che non sono riusciti a risolvere i propri problemi con lo psicodramma?
Penso proprio di sì. Lo psicodramma è una tecnica attiva che mette in gioco l’azione, stimola particolarmente problematiche che, nell’analisi individuale, ci metterebbero molto tempo a emergere. Certo, però, i fallimenti ci sono, non c’è dubbio. La psicoterapia non è avere la bacchetta magica, come tutte le tecniche ci dicono.
Ti sei mai trovata in situazioni imbarazzanti da gestire all’interno di un socioplay?
No. In linea di massima no. Ci sono situazioni difficili, ma gestibili: c’è un collega, Gianpaolo Mazzara, che lavora in una comu- nità terapeutica e lavora con pazienti psichiatrici, lui potrebbe esserti più d’aiuto in questo senso.
0
Premesso che non è un lavoro che produce opere d’arte o simili, la permanenza di alcuni blocchi psicologici nel paziente, diviene accumulo di impedimenti concreti per la realizzazione di un socioplay? Mah, sai, nel gruppo tutto risuona, ma in linea di massima no, poiché il gruppocompensa gli elementi che hanno dei blocchi. Se questi blocchi sono forti il paziente rinuncia a tornare alle sessioni oppure il gruppo scioglie certi blocchi attraverso le proprie capacità compensatorie. Tutto dipende dallo psicodrammista e dalle sue qualità: deve avere sempre tutto sotto controllo. |
|
Mi dai una tua breve differenza tra psicodramma e teatro?
Moreno ha portato la catarsi che anticamente era preposta al pubblico, agli attori. Jung dice che il teatro è l’elaborazione pub- blica dei complessi.
Ti sembra che questo possa essere un punto di comunanza con il teatro di Grotowski?
Certo che sì. Partendo dalle direttive di Stanislavskij, il teatro di Grotowski è stato importantissimo e fondamentale. Però, certe tecniche possono esserepericolose, perché non avendo degli strumenti psicoterapeutici, come li ha, invece, lo psicoterapeuta, vi è un grosso rischio: ci si può trovare davanti a situazioni emotive piuttosto forti e difficili da gestire. Esempio: Orazio Costa, mio insegnante di teatro, ha ideato un metodo mimico in cui gli elementi della natura dovevano essere, non imitati, ma vissuti: l'albero, vento, la tempesta che noi, a un certo punto, diventavamo. Un modo di entrare in contatto con questi elementi è sentirli dentro, cosa, a volte, piuttosto inquietante, perché puoi rimanerne anche con dei contenuti psichici che, una volta emersi, non verranno elaborati.
Tornando al training e alle tecniche fisse, credi che la struttura in quanto corazza psichica – presentata all’atto- re anche dal Workcenter, – possa far da scudo a qualsiasi eventuale problema che è solito risolvere invece, lo psicodrammista, che non educe strutture o tecniche fisse al paziente?
Per rispondere a questo, credo dobbiamo interrogarci su quale sia il fine dei due approcci al training. Quello dello psicodramma è la terapia, aperta a tutti coloro che ne sentono la necessità, e ccessibile a tutti. Qual è invece il fine del teatro di Grotowski?
Potremo pensare che è un teatro d’élite, di fronte a un pubblico che pubblico non è, poiché è selezionato da coloro che propongo- no il lavoro (Thomas Richards e Mario Biagini). Una proposta, la loro, che può essere una cosa straordinaria: è teatro e il teatro è sempre straordinario, ma resta molto d’élite. Lo psicodramma non è d’élite. Lo psicodramma è una proposta già diversa dalla psicoterapia tradizionale, alla quale non tutti possono accedere, poiché devi avere culturalmente un certo livello. Lo psicodramma è aperto anche alla progettualità del futuro, al “come potremmo”.
Quanto rischio c’è che possa creare degli scompensi psichici l’approccio alla performance di Grotowski?
Mah, non credo che ci possa essere pericolo, essendo loro persone molto motivate e in un circolo chiuso, con il fine di perseguire il bene e non il male. Per questo non credo possa creare danni ai partecipanti; l’unica critica che gli posso fare è che è un teatro molto d’èlite. In un mondo in cui conta ciò che si ha piuttosto di ciò che si è... caspita!
Ce ne fossero di teatri alla Grotowski. Con la sua via d'eremitaggio. Ciò non toglie, però, la pecca d’essere d’èlite.
Nello psicodramma tu sei incazzato perché devi pagare le tasse o per altri motivi di tutti i giorni; si lavora sulla “vita vera” nonché sull'immaginazione o su traumi passati. È “luogo da cui si vede”, l’oggi; lo psicodramma è in mezzo alla gente.
Il teatro di Grotowski è allora più attinente a un’impiantistica rituale che non fa più parte della vita di oggi?
No. Non credo che facciano del male, ma non capisco dove sia socialmente l’utilità che aveva il teatro una volta.
Forse non ce l’ha. Perché se la cantano e se la suonano, forse, eh?!? Poi, riflettici tu su questo: il teatro ha una grandissima autorità nel mondo reale. Ma se tu fai teatro in quattro, chiusi nella tua cantina, inviti quattro spettatori che scegli tu, questo non è più teatro, è una sorta di sacerdozio, non è né psicodramma, né teatro, perché il teatro, per me, è un’altra cosa.
Credi che l’inconscio possa utilizzare azioni, oggetti di rito o linguaggi che non appartengono alle consuetudini della cultura di partenza di un paziente? E, così facendo, credi che possa eventualmente raggiungere un equilibrio?
Certo che sì. Da buona jungiana so che esiste l'inconscio collettivo, cosa che nei sogni appare molto frequentemente e che si manifesta in elementi che non ci appartengono.
Si può “installare” una cultura in un paziente che appartiene a una cultura altra?
Sì, ma si deve tenere conto delle variabili e delle differenze, anche se ci sono delle cose comuni al nostro appartenere all’umanità, però, non si può escludere il fatto di essere nati, per esempio, in Africa o al Polo Nord, sarebbe ingenuo, no? Diciamo che l’australiano, l’eschimese o l’americano possono sognare lo stesso simbolo.
C’è una popolazione, in Africa, che ha per usanza quella di rivelare un proprio segreto nel buco di un albero; in realtà, c’è in molte culture. Se io prendessi il simbolo dell’albero, che chiunque conosce, come pretesto per proporre a chiunque la catarsi, data da questo atto liberatorio, credi che avrei successo?
Non così alla lettera, perché se tu lo proponi a una popolazione dove non ci sono alberi o dove la mitologia degli alberi non è sentita, questa operazione non ha un grande senso fare.
Scusi, ma che fine fa, dunque, l’immaginazione di cui mi hai accennato essere una delle peculiarità dello psicodramma?
Mah... L’inconscio collettivo lo vedi nei sogni che possono essere comuni, ma tu, materialmente, non puoi fare la stessa cosa con un eschimese o un australiano.
Moreno ha portato la catarsi che anticamente era preposta al pubblico, agli attori. Jung dice che il teatro è l’elaborazione pub- blica dei complessi.
Ti sembra che questo possa essere un punto di comunanza con il teatro di Grotowski?
Certo che sì. Partendo dalle direttive di Stanislavskij, il teatro di Grotowski è stato importantissimo e fondamentale. Però, certe tecniche possono esserepericolose, perché non avendo degli strumenti psicoterapeutici, come li ha, invece, lo psicoterapeuta, vi è un grosso rischio: ci si può trovare davanti a situazioni emotive piuttosto forti e difficili da gestire. Esempio: Orazio Costa, mio insegnante di teatro, ha ideato un metodo mimico in cui gli elementi della natura dovevano essere, non imitati, ma vissuti: l'albero, vento, la tempesta che noi, a un certo punto, diventavamo. Un modo di entrare in contatto con questi elementi è sentirli dentro, cosa, a volte, piuttosto inquietante, perché puoi rimanerne anche con dei contenuti psichici che, una volta emersi, non verranno elaborati.
Tornando al training e alle tecniche fisse, credi che la struttura in quanto corazza psichica – presentata all’atto- re anche dal Workcenter, – possa far da scudo a qualsiasi eventuale problema che è solito risolvere invece, lo psicodrammista, che non educe strutture o tecniche fisse al paziente?
Per rispondere a questo, credo dobbiamo interrogarci su quale sia il fine dei due approcci al training. Quello dello psicodramma è la terapia, aperta a tutti coloro che ne sentono la necessità, e ccessibile a tutti. Qual è invece il fine del teatro di Grotowski?
Potremo pensare che è un teatro d’élite, di fronte a un pubblico che pubblico non è, poiché è selezionato da coloro che propongo- no il lavoro (Thomas Richards e Mario Biagini). Una proposta, la loro, che può essere una cosa straordinaria: è teatro e il teatro è sempre straordinario, ma resta molto d’élite. Lo psicodramma non è d’élite. Lo psicodramma è una proposta già diversa dalla psicoterapia tradizionale, alla quale non tutti possono accedere, poiché devi avere culturalmente un certo livello. Lo psicodramma è aperto anche alla progettualità del futuro, al “come potremmo”.
Quanto rischio c’è che possa creare degli scompensi psichici l’approccio alla performance di Grotowski?
Mah, non credo che ci possa essere pericolo, essendo loro persone molto motivate e in un circolo chiuso, con il fine di perseguire il bene e non il male. Per questo non credo possa creare danni ai partecipanti; l’unica critica che gli posso fare è che è un teatro molto d’èlite. In un mondo in cui conta ciò che si ha piuttosto di ciò che si è... caspita!
Ce ne fossero di teatri alla Grotowski. Con la sua via d'eremitaggio. Ciò non toglie, però, la pecca d’essere d’èlite.
Nello psicodramma tu sei incazzato perché devi pagare le tasse o per altri motivi di tutti i giorni; si lavora sulla “vita vera” nonché sull'immaginazione o su traumi passati. È “luogo da cui si vede”, l’oggi; lo psicodramma è in mezzo alla gente.
Il teatro di Grotowski è allora più attinente a un’impiantistica rituale che non fa più parte della vita di oggi?
No. Non credo che facciano del male, ma non capisco dove sia socialmente l’utilità che aveva il teatro una volta.
Forse non ce l’ha. Perché se la cantano e se la suonano, forse, eh?!? Poi, riflettici tu su questo: il teatro ha una grandissima autorità nel mondo reale. Ma se tu fai teatro in quattro, chiusi nella tua cantina, inviti quattro spettatori che scegli tu, questo non è più teatro, è una sorta di sacerdozio, non è né psicodramma, né teatro, perché il teatro, per me, è un’altra cosa.
Credi che l’inconscio possa utilizzare azioni, oggetti di rito o linguaggi che non appartengono alle consuetudini della cultura di partenza di un paziente? E, così facendo, credi che possa eventualmente raggiungere un equilibrio?
Certo che sì. Da buona jungiana so che esiste l'inconscio collettivo, cosa che nei sogni appare molto frequentemente e che si manifesta in elementi che non ci appartengono.
Si può “installare” una cultura in un paziente che appartiene a una cultura altra?
Sì, ma si deve tenere conto delle variabili e delle differenze, anche se ci sono delle cose comuni al nostro appartenere all’umanità, però, non si può escludere il fatto di essere nati, per esempio, in Africa o al Polo Nord, sarebbe ingenuo, no? Diciamo che l’australiano, l’eschimese o l’americano possono sognare lo stesso simbolo.
C’è una popolazione, in Africa, che ha per usanza quella di rivelare un proprio segreto nel buco di un albero; in realtà, c’è in molte culture. Se io prendessi il simbolo dell’albero, che chiunque conosce, come pretesto per proporre a chiunque la catarsi, data da questo atto liberatorio, credi che avrei successo?
Non così alla lettera, perché se tu lo proponi a una popolazione dove non ci sono alberi o dove la mitologia degli alberi non è sentita, questa operazione non ha un grande senso fare.
Scusi, ma che fine fa, dunque, l’immaginazione di cui mi hai accennato essere una delle peculiarità dello psicodramma?
Mah... L’inconscio collettivo lo vedi nei sogni che possono essere comuni, ma tu, materialmente, non puoi fare la stessa cosa con un eschimese o un australiano.
Qualche sventurato potrebbe pensare che, se lo “psicodramma è per tutti”, come tu affermi, è altrettanto vero che “non tutti pos- sono essere per lo psicodramma”. Ovvero, non tutti hanno atti- tudini per praticarlo. Un paradigma da via iniziatica insomma, come il Workcenter, “per tutti e per nessuno”.
Ma passiamo alla prossima domanda: Si possono fare pres- crizioni paradossali nello psicodramma? |
Sì. Se, per esempio, uno deve dimagrire, gli si può prescrivere di ingrassare, ma sono più giochi simbolici che prescrizioni. Il paradosso può rompere qualcosa che è duro a muoversi. Nella “bottega magica” io posso vendere qualcosa di materiale e chiedere, come prezzo, l’ira del paziente poiché il paziente può essere particolarmente attaccato a questo sentimento e, attribuendone un grande valore, la vende come se fosse qualcosa di buono, cosa che è in sé un paradosso.
Direi un transfert paradossale più che una prescrizione, questa. Quindi, vi è mancanza di utilizzo dell’induzi- one?
Sì. Non si induce nulla, si aiuta in modo maieutico, anche se possono esserci momenti in cui ci può essere il bisogno di far vedere un momento del racconto del paziente con una piccola induzione.
Parlami della cosa più bella che per te è attinente a nuove scoperte nell’ambito dello psico o sociodramma.
Beh, intanto la possibilità di lavorare con persone di altre culture, cosa che per ora non ho sperimentato se non nei gruppi di madri dove vi eranopersone straniere. Ho scoperto che con lo psicodramma è più facile entrare in relazione e si ottengono contenuti che arricchiscono il gruppo. Vorrei imparare a lavorare con persone di altre culture, che hanno anche problematiche gravi: rifugiati politici, immigranti con problemi legati alla perdita della propria casa, della propria identità.
La cosa più bella di questo lavoro è vedere quando le persone raggiungono delle prese di coscienza così forti anche in breve tempo, in fretta. La possibilità di mettersi nei panni dell’altro, di fare il gioco di ruolo: non interpretare il ruolo dell’altro, ma mettersi nei suoi panni. La possibilità di vedere, con una certa rapidità, qualcosa di utile, vedere che le persone possono crescere, possono trovare speranza, possono ristrutturare la loro negatività. In Inghilterra, alla clinica Tavistock, ci sono centri in cui si lavora con extracomunitari, persone che escono da catastrofi, quali guerre o genocidi tipo Rwanda. Noi stiamo ancora imparando, ma la nostra Associazione diventerà molto importante, spero. Abbiamo personale molto in gamba.
Direi un transfert paradossale più che una prescrizione, questa. Quindi, vi è mancanza di utilizzo dell’induzi- one?
Sì. Non si induce nulla, si aiuta in modo maieutico, anche se possono esserci momenti in cui ci può essere il bisogno di far vedere un momento del racconto del paziente con una piccola induzione.
Parlami della cosa più bella che per te è attinente a nuove scoperte nell’ambito dello psico o sociodramma.
Beh, intanto la possibilità di lavorare con persone di altre culture, cosa che per ora non ho sperimentato se non nei gruppi di madri dove vi eranopersone straniere. Ho scoperto che con lo psicodramma è più facile entrare in relazione e si ottengono contenuti che arricchiscono il gruppo. Vorrei imparare a lavorare con persone di altre culture, che hanno anche problematiche gravi: rifugiati politici, immigranti con problemi legati alla perdita della propria casa, della propria identità.
La cosa più bella di questo lavoro è vedere quando le persone raggiungono delle prese di coscienza così forti anche in breve tempo, in fretta. La possibilità di mettersi nei panni dell’altro, di fare il gioco di ruolo: non interpretare il ruolo dell’altro, ma mettersi nei suoi panni. La possibilità di vedere, con una certa rapidità, qualcosa di utile, vedere che le persone possono crescere, possono trovare speranza, possono ristrutturare la loro negatività. In Inghilterra, alla clinica Tavistock, ci sono centri in cui si lavora con extracomunitari, persone che escono da catastrofi, quali guerre o genocidi tipo Rwanda. Noi stiamo ancora imparando, ma la nostra Associazione diventerà molto importante, spero. Abbiamo personale molto in gamba.
Mi congedo dallo studio di Renata Biserni ma solo dopo alcuni rinfrancamenti: Renata mi confessa di avere un figlio, della mia età, che studia all'Università proprio come me. Mi son sentito a casa e con una nuova madre. Renata è una persona molto materna; al contrario, io non sono mai stato molto filiale...
Uscito dal palazzo signorile, traggo le mie consuete somme sull’in-tervista. |
Punti forti dell’intervista: grande duttilità di Renata Biserni che ho trovata preparata anche in relazione a realtà che esulano dai suoi studi di settore. Non dimentichiamoci che fu la doppiatrice della madre di Brenda e Brandon Walsh in Beverly Hill 90210 e della sigla di «Grattachecca e Fichetto Show» in The Simpson.
Punti deboli: Renata si contraddice, quando asserisce che al Workcenter «certe tecniche possono essere pericolose perché, non avendo degli strumenti psicoterapeutici, come li ha invece lo psicoterapeuta, vi è un grosso rischio: ci si può trovare davanti a situazioni emotive piuttosto forti e difficili da gestire». Successivamente, invece, afferma: «[…] non credo possa creare danni ai partecipanti; l’unica critica che gli posso fare è che è un teatro molto d’élite».
In seguito la questione dell’immaginazione junghiana presso il suo inconscio collettivo non trova inerenza con le differenze sulle tecniche terapeutiche da utilizzare presso popolazioni di diversa derivazione: «Mah... L’inconscio collettivo lo vedi nei sogni che possono essere comuni, ma tu materialmente non puoi fare la stessa cosa con un eschimese o un australiano”. Jung non attingeva solo ai sogni quando parlava di inconscio collettivo. Parlava, più specificamente, di pulsione alla simbolizzazione dell’inconscio collettivo e, addirittura, di inconscio collettivo prenatale.
Se un eschimese non ha mai visto un albero ha inconsciamente elaborato la funzione che questo assume presso altri oggetti che, il paziente, in uno stato di abbandono alla terapia, deve poter far riemergere elaborati dal proprio inconscio e adattati a un nuovo simbolo o a un nuovo oggetto, qualsiasi sia la provenienza culturale del paziente, quanto dell’oggetto.
Punti deboli: Renata si contraddice, quando asserisce che al Workcenter «certe tecniche possono essere pericolose perché, non avendo degli strumenti psicoterapeutici, come li ha invece lo psicoterapeuta, vi è un grosso rischio: ci si può trovare davanti a situazioni emotive piuttosto forti e difficili da gestire». Successivamente, invece, afferma: «[…] non credo possa creare danni ai partecipanti; l’unica critica che gli posso fare è che è un teatro molto d’élite».
In seguito la questione dell’immaginazione junghiana presso il suo inconscio collettivo non trova inerenza con le differenze sulle tecniche terapeutiche da utilizzare presso popolazioni di diversa derivazione: «Mah... L’inconscio collettivo lo vedi nei sogni che possono essere comuni, ma tu materialmente non puoi fare la stessa cosa con un eschimese o un australiano”. Jung non attingeva solo ai sogni quando parlava di inconscio collettivo. Parlava, più specificamente, di pulsione alla simbolizzazione dell’inconscio collettivo e, addirittura, di inconscio collettivo prenatale.
Se un eschimese non ha mai visto un albero ha inconsciamente elaborato la funzione che questo assume presso altri oggetti che, il paziente, in uno stato di abbandono alla terapia, deve poter far riemergere elaborati dal proprio inconscio e adattati a un nuovo simbolo o a un nuovo oggetto, qualsiasi sia la provenienza culturale del paziente, quanto dell’oggetto.
Francesco Luigi Panizzo
Note:
[1] - Esperienze e vita professionale di Renata Biserni:
Analisi personali – sei anni di analisi junghiana col prof. Aldo Carotenuto, cinque anni di psicodramma analitico presso l’Istituto Plays di Roma. Due anni di analisi freudiana con la Dr.ssa Bianucci; Training e supervisioni – training in psicodramma analitico col Dr. Ottavio Rosati, fino al conseguimento della membership presso l’Istituto Plays. Seminari sulle tecniche di ipnosi ericksoniana con Ernest Rossi. Supervisione delle esperienze cliniche di psicodramma con il prof. Antonio Vitolo (AIPA). Setting aperti – dal 2003 dirige il gruppo di sensibilizzazione e formazione alle tecniche psicodrammatiche presso l’Istituto di Specializzazione in Psicoterapia dell’età evolutiva “Ortofonologia” di Roma, diretto da Magda di Renzo. Dal gennaio 2006 tiene settimanalmente, nel suo studio, un gruppo di psicodramma terapeutico.
Vuoi entrare nella redazione di Edizioni Psychodream,
o collaborare con Psychodream Theater?
Direttore: Francesco Luigi Panizzo | [email protected]
Condirettrice: Viviana Vacca | [email protected]
Responsabili di redazione: Fabio Treppiedi | Massimo Acciai | Anna Novello | Gaia Grassi | Alessandro Rizzo | Daniel Montigiani
Per affiliazioni pubblicitarie | [email protected]
Per collaborazioni e progetti | [email protected]
Tutti i contenuti di questo sito possono essere utilizzati da altri media e siti internet, giornali o televisioni con la clausola
di esporre a citazione, tramite il seguente link, la Edizioni Psychodream oppure la pagina di riferimento.
Per info:
[email protected]
[email protected]
Psychodream Theater - © 2012 Tutti i diritti riservati