Psychodream Review Rubrica diretta da Viviana Vacca e Francesco Panizzo
La scrittura di Valere Novarina – drammaturgo, uomo di teatro, regista e pittore – conosce la parola di verità. Verità che con prepotenza è, di volta in volta, dell’attore, dell’atto di creazione sulla scena che non si interrompe nella “performance” ma si ricerca attraverso e negli attori oltre che nei testi che tende a incarnare.
La realtà del linguaggio – finite le epoche della raffigurazione mimetica e dei rapporti concilianti tra parola e mondo –, la sua espressione sintattica, il suo senso permettono l’eccedenza, il fare qualcos’altro. In nome di cosa? Di uno slancio, di un particolare istinto, di un doppio movimento di inspirazione-espirazione oltre-umano. Che le parole hanno per Novarina la semplicità di ciò che è troppo conosciuto. In nome di un Verbo – che surclassa tutti i nomi comuni e le parole – che diventa il principio di una Ur-significazione. Novarina si riconduce al parietale – alle prime cose. E ai primi nomi delle cose. Un paziente e speleologico esercizio linguistico apre, in maniera nuova e quasi evan- gelica, alla voce che riprende il suo corso in un “francese crepuscolare”1). Nella pregnanza materiale dei soffi che attraversano gli organi fonatori, è nella parola la nascita e il passaggio di ciascun essere umano. Questi gli atti di creazione teatrale di Novarina – non gli elementi scenici, le trame testuali, le modulazioni psicologiche dei perso-naggi. L’opera di Valere Novarina è in migliaia di pagine scritte. Questa sovrabbondanza non corrisponde alla soddis-fazione di un bisogno: quello, urgente, del linguaggio di raccontare e di far capire tra la comédie humaine e la Comedia dantesca. Questa sarebbe una storia ancora troppo trans-personale di nascite e di morti, di spazi da colmare o da abbandonare, di terre troppo lontane dal tempo.
Nell’opera di Novarina lavora il tempo, che è in maniera in- finitiva ripetizione di se stesso ed emergenza di parole, simili alle pietre in un torrente. E i personaggi del teatro di Novarina sono nelle parole che pronunciano, nella voce che marca un luogo-tempo e non si fa semplice tramite: la verità della parola in teatro non conosce una rap- presentazione nelle figure o nei personaggi, è piuttos-
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sto ciò che in maniera visibile
la memoria linguistica svolge davanti ai nostri occhi, tra il passato e
l’avvenire della lingua. In maniera indistinta, la voce attraverso i
personaggi ne ripete le parole e fonda un ambiente, un popolo-parole: ciascuno proferisce parola, impreca, si attarda in un lungo discorso. Non è necessario attendere una spiegazione, piuttosto un farsi-plurale delle parole. L’Origine Rouge, ad esempio, ha la strutturazione classica della divisione in atti: ciascun atto è atto di parola che potremmo in maniera semplicistica definire con un aggettivo che ne qualifica il contenuto ( di volta in volta “pronominale”, “catastrofico”, “insulare”, “folgorante”). Ma ciò che colpisce è la progettualità, il cadenzato numero di sentenze di un lavorio inesausto sulla lingua: il fiat lux dell’origine di tutte le parole negli scambi dialogici, nel soliloquio, nell’orazione, nella preghiera. Sottoporre Novarina a una sciatta operazione ermeneutica tradirebbe l‘impressionante polifonia di voci che ciascuno dei parlanti del suo teatro e dei suoi testi (altrettante variazioni nel piano del pronome personale Je/Moi) mette in scena intorno alla cristallina severità della Parola.
Ogni atto si divide in
scene in maniera del tutto irregolare fino all’atto di folgorazione, il
personale modo di entrare in uno spazio-tempo. L’erranza si sviluppa
secondo una processualità “allucinata” (l’accecamento, in fondo, è
previsto nel dominio dell’”ottico”) di personaggi spettrali e a favore
di punti di concentrazione luminosi in cui la parola si produce in
quanto spettacolo.
Sono le fasi di visibilità dei testi di Novarina che marcano l’appartenenza al teatro come luogo (spaziale e temporale) di un divenire-visibile delle parole: ogni corpo, attraversato e portato in scena, si conferma attraverso la parola-voce. |
La parola de l’Origine Rouge
prende la propria proporzione in certi nomi, ai quali, corrispondono
degli pseudonimi approssimati, che si impongono senza che lo spettatore
sia in grado di identificarli nello scambio mutevole di un teatro che
si vuole non-comunicativo. Le
parole sono atti d’interpellanza senza possibilità di replica: non si
usano, non servono per parlare, ma rispondono a un’esigenza
oltre-umana, non identitaria.
Sulla scena Novarina, di pièce in pièce, improvvisati calzoni di clown fanno la loro apparizione come gli ultimi Profeti ricordandone i Nomi: Isaia, Geremia, Ezechiele e soprattutto Panthée, l’Anthropoclaste, il Bonhomme Nihil e l’Evangelista. Di giorno in giorno, ciascuno declina sembianze identitarie, è nel proprio onomastico. Novarina è abile nella costruzione di biografie scalfite dal tempo che hanno effetti stranianti e sulla lingua e sugli utilizzi a cui noi siamo abituati. Bonhomme Nihil è corpo dis – individuato, avanzo transitorio di un Bardamu àpres les Bagatelles, corpo prossimo alle ossa e alla fine.[2]
Tale evanescenza è trattenuta dalle parole, come a un filo che contamina e tiene aggrappate queste figure da teatro del No giapponese. Ma in queste sembianze umane i corpi di Novarina ci fanno segno. Fabbricano parole e sono trasfigurati dalle parole, esseri della presenza locutoria che nella fonazione trovano salute e distruzione: nell’atto di folgorazione, questi parlanti sciorinano il proprio curriculum vitae accumulando assurdità che la risata trattiene.
Laddove Artaud viveva scandalosamente e con dolore la dicrasia dell’uomo in quanto Soggetto (la parole soufflée), Novarina la declina come un dramma comico in cui la parola ritorna alla radice di domanda iniziale e atto locutorio. Il non-sense delle frasi pronunciate (su tutte l’atto di Jean Terrier “ma mère n’a pas eu d’enfant”, mia madre non ha avuto figli) è affermazione della realtà linguistica nel suo infinito potenziale, inclusivo e disgiuntivo, creazione ex nihilo di ciò che è enunciabile. L’enunciabile conosce la forza di una legge nello spazio del teatro visto che è il risultato di ciò che appare come non necessario ma perfettamente sufficiente: l’uomo non abita un mondo, ma la parola che ne è la carne. Ogni emissione vocale, ogni parola del teatro di Novarina diventa verosimile, atto di parola di “une physique surnaturelle.”[3]
Portatore di istanze care alla tradizione dei grandi moralisti francesi, Novarina fa brillare i suoi motti d’autore sul fondo dell’incoerenza generale (il mondo è scemo in fondo), enunciati politicamente scorrette che definiscono la comica discesa di esseri inter faeces et urinam. D’altra parte uno slogan sembra chiudere la cronomachia di Novarina “Il tempo ci uccide per amore” , nella contraddizione tra fonetica e semiotica di un uomo che non contiene nulla, se non un po’ di polvere nell’occhio.
Sulla scena Novarina, di pièce in pièce, improvvisati calzoni di clown fanno la loro apparizione come gli ultimi Profeti ricordandone i Nomi: Isaia, Geremia, Ezechiele e soprattutto Panthée, l’Anthropoclaste, il Bonhomme Nihil e l’Evangelista. Di giorno in giorno, ciascuno declina sembianze identitarie, è nel proprio onomastico. Novarina è abile nella costruzione di biografie scalfite dal tempo che hanno effetti stranianti e sulla lingua e sugli utilizzi a cui noi siamo abituati. Bonhomme Nihil è corpo dis – individuato, avanzo transitorio di un Bardamu àpres les Bagatelles, corpo prossimo alle ossa e alla fine.[2]
Tale evanescenza è trattenuta dalle parole, come a un filo che contamina e tiene aggrappate queste figure da teatro del No giapponese. Ma in queste sembianze umane i corpi di Novarina ci fanno segno. Fabbricano parole e sono trasfigurati dalle parole, esseri della presenza locutoria che nella fonazione trovano salute e distruzione: nell’atto di folgorazione, questi parlanti sciorinano il proprio curriculum vitae accumulando assurdità che la risata trattiene.
Laddove Artaud viveva scandalosamente e con dolore la dicrasia dell’uomo in quanto Soggetto (la parole soufflée), Novarina la declina come un dramma comico in cui la parola ritorna alla radice di domanda iniziale e atto locutorio. Il non-sense delle frasi pronunciate (su tutte l’atto di Jean Terrier “ma mère n’a pas eu d’enfant”, mia madre non ha avuto figli) è affermazione della realtà linguistica nel suo infinito potenziale, inclusivo e disgiuntivo, creazione ex nihilo di ciò che è enunciabile. L’enunciabile conosce la forza di una legge nello spazio del teatro visto che è il risultato di ciò che appare come non necessario ma perfettamente sufficiente: l’uomo non abita un mondo, ma la parola che ne è la carne. Ogni emissione vocale, ogni parola del teatro di Novarina diventa verosimile, atto di parola di “une physique surnaturelle.”[3]
Portatore di istanze care alla tradizione dei grandi moralisti francesi, Novarina fa brillare i suoi motti d’autore sul fondo dell’incoerenza generale (il mondo è scemo in fondo), enunciati politicamente scorrette che definiscono la comica discesa di esseri inter faeces et urinam. D’altra parte uno slogan sembra chiudere la cronomachia di Novarina “Il tempo ci uccide per amore” , nella contraddizione tra fonetica e semiotica di un uomo che non contiene nulla, se non un po’ di polvere nell’occhio.
Le asserzioni non scalfiscono la visibilità della verità, un po’ di più di un mero effetto di persistenza retinica. Quest’ultima si espone laddove la contraddizione si an- nulla: la sola verità situata nella parola è quella in cui la parola stessa diventa un ef- fetto-verità, momento generativo e creativo del teatro. Rispondendo nel teatro all’in- significanza del mondo – come fa l’as- sassino davanti al proprio omicidio -, Novarina si moltiplica negli spazi creati dalla lingua, ben lontano da certi libri di scienze umane che pretenderebbero di risol-
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verne i misteri. D’altra parte, è operazione difficile se non impossibile arpionare la balena bianca. O l’origine rouge.
Note:
[1] V. Novarina, Le Théatre des paroles, POL 1989, p. 79. [2] “Le théatre est un lieu de retrait et de profond désengagement humain. L’acteur c’est l’homme moins l’homme. Un homme en moins.” Devant la parole, POL, 1999, pag. 80. [3] V. Novarina, Devant la parole, POL, 1999, pag. 176. |
Viviana Vacca
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