Apparizioni rubrica diretta da Francesco Panizzo
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Esiste un filo conduttore che lega Dio, la povertà espressiva del Logos e il linguaggio. Un filo che mostra come “perdersi nella melodia delle cose” non sia un atto semplice e immediato, bensì richieda mediazioni tecniche giocate in un lavorìo macchinico di sottrazione,
in un rituale di atti mancati. Cercherò di percorrere questo filo, in un breve susseguirsi di gesti ripiegati sul nascere, fino alla postura etica impossibile: nell’impossibilità di strozzarmici, troppo esausto per riuscirci. A chi gli chiedeva cosa intendesse per “musica” Luciano Berio rispondeva all’incirca così: «è un po’ come per Dio. Se io fossi credente e tu mi domandassi che cosa io intenda per Dio, ti risponderei che non lo so e che Dio deve necessariamente configurarsi negli uomini, ma quello che gli uomini fanno e pensano non è Dio»[1]. Esempio di intelligenza musicale che eccede la visione nella musicalità della voce ascolto.
Le reazioni entusiaste di fronte all’elezione del nuovo papa, il papa buono, si sono ormai smorzate. Con un tempismo comunicativo perfetto (visti i tempi) dichiara di essere il «paladino dei poveri», di scegliere la strada della povertà: così, per assicurarsi la nostra rassegnazione e la sua utilità a lungo termine. |
Basta poco per
riaccendere la “profonda religiosità” dei cattolici progressisti; gente
mise- rabile, di buoni sentimenti, che si commuove mentre mostra una
foto: «Guardate le scarpe, non sono firmate.
Non indossa più scarpe Prada! Ci sta indicando la “buona strada”». Volgarità cattolica secolarizzante. Qualcuno, giustamente, se ne è già lamentato: «Qui rischia di esistere anche Dio». Bisognerebbe informarli che «Dio sceglie sempre la mano sbagliata» e la “cattiva strada”: «non vi conviene venir con me dovunque vada», insisteva Dio, attraverso la penna di De Andrè. I cattolici progressisti non si rassegnano a sottrarre Dio alla scena. Berio denuncia implicitamente il pericolo insito nel potenziale di secolarizzazione presente nel cattolicesimo: sa che Dio non c’è, per questo ci crede. L’unica religiosità accettabile è quella legata alla nostalgia di Dio (il Dio assente, appunto). Come quella che Klossowki sembra attribuire a Sade. Sade farebbe dell’ateismo la religione della mostruosità integrale. E la religione comporta un’ascesi intesa come reiterazione apatica degli atti, in cui viene confermata l’insufficienza dell’ateismo. In Sade non è l’ateismo a condizionare e liberare la mostruosità sadiana, ma è quest’ultima a costringere Sade a derazionalizzare l’ateismo non appena tenta, per suo mezzo, di razionalizzare la propria mostruosità.
L’ateismo sadiano reintroduce il carattere divino della mostruosità: tale carattere «si attualizza sempre e soltanto attraverso dei riti – ossia degli atti reiterati»[2].
Non indossa più scarpe Prada! Ci sta indicando la “buona strada”». Volgarità cattolica secolarizzante. Qualcuno, giustamente, se ne è già lamentato: «Qui rischia di esistere anche Dio». Bisognerebbe informarli che «Dio sceglie sempre la mano sbagliata» e la “cattiva strada”: «non vi conviene venir con me dovunque vada», insisteva Dio, attraverso la penna di De Andrè. I cattolici progressisti non si rassegnano a sottrarre Dio alla scena. Berio denuncia implicitamente il pericolo insito nel potenziale di secolarizzazione presente nel cattolicesimo: sa che Dio non c’è, per questo ci crede. L’unica religiosità accettabile è quella legata alla nostalgia di Dio (il Dio assente, appunto). Come quella che Klossowki sembra attribuire a Sade. Sade farebbe dell’ateismo la religione della mostruosità integrale. E la religione comporta un’ascesi intesa come reiterazione apatica degli atti, in cui viene confermata l’insufficienza dell’ateismo. In Sade non è l’ateismo a condizionare e liberare la mostruosità sadiana, ma è quest’ultima a costringere Sade a derazionalizzare l’ateismo non appena tenta, per suo mezzo, di razionalizzare la propria mostruosità.
L’ateismo sadiano reintroduce il carattere divino della mostruosità: tale carattere «si attualizza sempre e soltanto attraverso dei riti – ossia degli atti reiterati»[2].
È vero che la mediazione linguistica ci «condanna alla perversione del significato, a una presunta oggettità altra rispetto al sedicente soggetto che la designa»[3]. Ma rito e ritmo sono due elementi legati al linguaggio, attraverso i quali sperimentare l’importanza di un’altra mediazione: quella tecnica. La mediazione in cui consiste la macchina attoriale di Carmelo Bene è quella della voce (phoné) che funge da mediazione tra il corpo dell’attore e lo sguardo dello spettatore.
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L’evento teatrale è una cerimonia: Combarieu[4] ritrova nel carmen l’elemento del rito incantatorio. I cerimoniali e i rituali religiosi condividono con la musica l’aspetto ripetitivo. L’esperienza spirituale come quella religiosa deve passare attraverso i corpi e la loro gestualità: solo in essi può trovare la possibilità di incarnarsi. Il ritmo è essenzialmente rito. Il rito non è esteriorizzazione della fede ma esercizio di fede: il libertino è il santo che saccheggia la propria chiesa. La parola ritmo è correlata al termine eryesthai, che significa proteggere e non, come rife- risce una certa concezione primonovecentesca di ritmo, flusso vivente e fluire continuo. Ritmo significa ostacolo, barriera imposta al moto. Il ritmo frena eticamente la variabilità del pathos. Il Nietzche contra Wagner a riguardo scrive: «L’ambiguità ritmica – tale che non si sa più che cosa volere e sapere, dove sia la coda e la testa – è senza dubbio un mezzo artistico col quale si possono ottenere effetti mirabili: il Tristano ne è ricco; ma come sintomo di tutta un’arte è e rimane il segno del dissolvimento. La parte predomina sul tutto, la frase sulla melodia, l’attimo sul tempo; il pathosethos, infine anche l’esprit sul “senso”»[5].
Si tratta, scrive Deleuze, di far balbettare il linguaggio e non la lingua, che è solo lo stadio finale in cui la facoltà del linguaggio si risolve una volta per tutte. Sperimentare il linguaggio partendo dal presupposto che «ha facoltà di linguaggio solo l’essere vivente che nasce afasico»[6] al fine di disertare l’azione come intenzione e rappresentazione. |
Ma solo l’infanzia bambina, come afasia del nominare, può riuscire in ciò: nel loro monologo collettivo esteriore[7] i bambini giocano con i vocaboli, assaporano la realtà materiale di sillabe e suoni. Le donne, come i bambini, «sono molto abili in quell’esercizio che consiste nel ripetere una parola di cui s’intuisce solo vagamente il senso, per farla vibrare su se stessa»[8]. La facoltà del linguaggio, generica, inattuale e amorfa, mai suscettibile di definitiva realizzazione, mostra così il suo carattere di cronica potenzialità: «la potenza-facoltà consiste e insiste continuamente con/nella lingua in atto». Far balbettare il linguaggio significa disertare il mondo come rappresentazione, significa mostrare ad un tempo la linguisticità del rito e la ritualità del linguaggio. L’atto di parole è prestazione fisiologica, ascetica (torna qui l’ascesi klossowskiana), scansione del respiro che mette la lingua in variabilità continua (qualunque sia la dimensione considerata: fonologica, sintattica, semantica, o anche stilistica»). Si prenda la dimensione semantica…basta poco per uscire dalla rappresentazione; quando Kafka descrive il suicidio di un K qualunque, annota: «sul ponte il traffico era intensissimo»[9]. Qui il pathos si dilegua, la carne senza concetto sostituisce i concetti come gusci vuoti senza presa sul mondo e l’uscita dalla rappresentazione esplicita la “non azione” che sta “dentro l’azione”. La fine di un’esistenza si sottrae al pathos tragico; nella parodia (che «funziona come cerimoniale della fine dell’ “espressione” e della forma»[10]) della fine il soggetto viene stanato dal mondo e dalla volontà attraverso una macchina antilinguaggio per innestarsi subito nella fredda cinetica del desiderio, il cui automatismo si coniuga con un’intima variante: l’inorganico. Farsi cosa, divenire organico, sono, in Deleuze, le mosse etiche per evitare la paranoia. L’amplificazione plasma moleco-larmente il corpo e l’attore diventa «parco lampade, scene e costumi»[11]. Alcune riflessioni di Virno[12] ci indicano l’importanza etico-politica del “farsi cosa” deleuziano. Il rapporto “tra” gli uomini dovrebbe essere valutato e pensato in un senso ben preciso: tale rapporto deve diventare cosa (res publica) e incarnarsi nelle cose del rapporto; il “tra” non definisce l’intersoggettività del rapporto. Il “tra” comprende ciò che in ogni animale umano è sovraindividuale. Dal preindividuale sorge l’esperienza collettiva che non nasce da un’esperienza intersoggettiva ma da ciò che in ogni mente non è suscettibile di individuazione. Il linguaggio, in quanto oggetto tecnico transindividuale, ne è la dimostrazione. In base alle considerazioni di Virno (ma non solo…) si mostra il carattere di politicità del transindividuale, che mette in crisi le categorie che stanno alla base delle pratiche politiche delle democrazie rappresentative (la questione politica è da tradurre oggi nel pericolo di riduzione e blocco dei circuiti di transindividuazione[13]). In questo modo la sperimentazione della ritualità del linguaggio (che niente ha a che vedere con la comunicazione intersoggettiva, bensì è un «dir la voce» perché «la voce non dice mai qualcosa»[14]) acquista una dimensione direttamente etico-politica.
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Silverio Zanobetti
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Note:
[1] L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 8-9.
[2] P. Klossoski, Sade prossimo mio, tr. it. di G. Amaducci, ES, Milano 2003, p. 14.
[3] C. Bene, Quattro momenti su tutto il Nulla, Secondo momento - Coscienza e Conoscenza, registrate per la Rai nel maggio del 2001.
[4] J. Combarieu, La musica e la magia, a cura di M. Papini, Mondadori, Milano 1982.
[5] Lettera di Nietzche e Carl Fuchs (Nizza, aprile 1886), in F. Nietzsche, R. Wagner, Carteggio, SE, Milano 2003, p. 116.
[6] P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
[7] J. Pjaget, Il linguaggio e il pensiero del fanciullo, Editrice Universitaria, Firenze 1966.
[8] G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, tr. it. di A. Serra, Einaudi, Torino 1975, p. 83.
[9] F. Kafka, Confessioni e Diari, Mondadori, Milano 1972, pp. 510-11.
[10] Così scrive Maurizio Grande in G. Dotto, C. Bene, Vita di Carmelo Bene, RCS, Milano 2002, p. 312.
[11] C. Bene, La voce di Narciso in C. Bene in Opere. Con l’autografia d’un ritratto, Milano Bompiani, 2002. p. 991.
[12] P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, cit., p. 118.
[13] B. Stiegler, La tèlècratie contre la dèmocratie, Flammarion 2006, p. 154.
[14] Carmelo Bene in Opere. Con l’autografia d’un ritratto, cit., p. 334.
[1] L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 8-9.
[2] P. Klossoski, Sade prossimo mio, tr. it. di G. Amaducci, ES, Milano 2003, p. 14.
[3] C. Bene, Quattro momenti su tutto il Nulla, Secondo momento - Coscienza e Conoscenza, registrate per la Rai nel maggio del 2001.
[4] J. Combarieu, La musica e la magia, a cura di M. Papini, Mondadori, Milano 1982.
[5] Lettera di Nietzche e Carl Fuchs (Nizza, aprile 1886), in F. Nietzsche, R. Wagner, Carteggio, SE, Milano 2003, p. 116.
[6] P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
[7] J. Pjaget, Il linguaggio e il pensiero del fanciullo, Editrice Universitaria, Firenze 1966.
[8] G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, tr. it. di A. Serra, Einaudi, Torino 1975, p. 83.
[9] F. Kafka, Confessioni e Diari, Mondadori, Milano 1972, pp. 510-11.
[10] Così scrive Maurizio Grande in G. Dotto, C. Bene, Vita di Carmelo Bene, RCS, Milano 2002, p. 312.
[11] C. Bene, La voce di Narciso in C. Bene in Opere. Con l’autografia d’un ritratto, Milano Bompiani, 2002. p. 991.
[12] P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, cit., p. 118.
[13] B. Stiegler, La tèlècratie contre la dèmocratie, Flammarion 2006, p. 154.
[14] Carmelo Bene in Opere. Con l’autografia d’un ritratto, cit., p. 334.
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