Una sera che si accorse di essere senza cibo si appresto’ ad immergersi nel suo cappotto e uscì di casa. Era tardi e il sole era tramontato da più di mezzora. Camminò per quelle strade rumorose che per anni aveva evitato, finchè a un tratto si immobilizzò; rimase fermo davanti a una lucida vetrina alla sua sinistra. La scritta al neon, a caratteri cubitali, diceva: “Galleria d’Arte”. Guardando bene si accorse che in vetrina c’era il suo dipinto. La sua coagulazione di colori scuri e ombre raffiguravano l’uomo che quella notte lo chiamò dalla strada. Allora ricordò tutto, ricordò quel- l’uomo e lo collegò a quel dipinto, inoltre, ricordò che qualcuno bussò alla porta e che qualcuno lo gettò dalle scale.
Ma chi poteva essere stato? Guardò meglio il dipinto e, in basso a destra, vi notò la firma dell’autore, autorevole e distinta, a caratteri bianchi: Stewart Lekower. Impietrì, quel nome era il nome dell’uomo che veniva, una volta ogni due settimane, a comprare i suoi dipinti. Ed ecco che lo vide: con la barba rasata e i capelli corti infilato in un vestito, da chissà qual prezzo, che parlava a delle giovani donne, mostrando i tetti color fiammingo del sole e tutti gli altri disegni. I suoi disegni, quelli che gli vennero rubati.
Ma chi poteva essere stato? Guardò meglio il dipinto e, in basso a destra, vi notò la firma dell’autore, autorevole e distinta, a caratteri bianchi: Stewart Lekower. Impietrì, quel nome era il nome dell’uomo che veniva, una volta ogni due settimane, a comprare i suoi dipinti. Ed ecco che lo vide: con la barba rasata e i capelli corti infilato in un vestito, da chissà qual prezzo, che parlava a delle giovani donne, mostrando i tetti color fiammingo del sole e tutti gli altri disegni. I suoi disegni, quelli che gli vennero rubati.
Il pittore lo osservava immobile dalla vetrina, mentre lui lontano parlava con in mano una coppa di champagne e mostrava i dipinti vantandosi della fattura con cui li aveva creati. Il pittore s’infuriò così tanto che prese il pomello della porta tra le mani ma, appena aprì pronto ad entrare, si fermò sulla soglia.
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Stewart era l’unica persona, non solo in tutta la città, ma nel mondo intero che sapesse che quei dipinti non erano i propri; il pittore non usciva di casa da più di otto anni ed era orfano di famiglia e privo di amici. Stewart era anche l’unico contatto con il mondo esterno in un certo senso, sarebbe stata la sua parola contro quella di Stewart, ormai apparentemente affermato pittore. Lui, Edgar Milakovic, vestito come un barbone che puzzava di sudore e vino, avrebbe irrotto in una Galleria d’Arte, nel bel mezzo di una presentazione di quadri e avrebbe con- dannato Stewart Lekower pulito, ben vestito e ormai ricco sfondato, denunciando pubblicamente di avergli rubato i quadri. Avrebbero riso di lui, esattamente come gli agenti di polizia che lo credevano un balordo ubriacone caduto dalle scale, non avrebbe potuto provare un bel niente, neanche se li avesse convinti a dimostrarglielo, non era ingrado di disegnare perchè le sue mani non funzionavano più e forse non avrebbero mai più funzionato.
Chiuse la porta e fece un passo indietro, si accostò alla vetrina e osservò ancora quell’infido uomo; in dissolvenza apparve il suo riflesso sulla superficie luccicante della vetrina e vide se stesso, Edgar Milakovic, grande pittore, che si era fatto rubare la sua Arte perchè temeva che gli venisse riconosciuta. D’altronde, Edgar Milakovic, agli occhi del mondo non era pittore prima e non lo è divenuto mai. I suoi dipinti da anni appartenevano ai nomi d’altri, e chi non avrebbe colto tale occasione che si offriva da sé.
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Stewart Lekower, non era altro che uno dei tanti avidi di gloria, potere, fasulli, ladri, impostori meschini. Beh, non c’era che dire: tanti avrebbero fatto lo stesso. Ma perché avrebbe dovuto gridare il suo nome quella sera? A ripensarci, Stewart sapeva benissimo che al pittore bastava una minima emozione, uno straneamento che immettesse il giovane in uno stato altro rispetto all’oziosità di molti giorni passati nell’apatia. Per questo l’affarista lo evocava, per dar modo alle emozioni del pittore di traslarsi in sulla sulla tela, nel migliore dei modi. Lo voleva spaventare quella sera affinché il pittore disegnasse delle meraviglie che di fatto disegnò, come il quadro ben esposto in vetrina. Non gli bastava derubarlo di tutti gli altri splendidi quadri, voleva anche chiudere in bellezza spronandolo perché creasse il suo più bel dipinto, per poi prendersene il merito e il guadagno. Il pittore sorrise lievemente, riconoscendo, oltre alla sua, anche quella forma d’arte, l’arte di manipolare la gente per il proprio tornaconto e senza scrupoli. L’arte dei deboli, dei codardi, ma pur sempre arte. Poi, dette un’ultima occhiata a quel suo ultimo e meraviglioso dipinto a colori scuri, quella figura contorta nel buio, così pensò che il titolo giusto per quel dipinto sarebbe stato Stewart Lekower: Autoritratto d’un Figlio di Puttana.
Tommaso Dati
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