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Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
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DJANGO UNCHAINED
Un film di Quentin Tarantino Stati Uniti del Sud, due anni prima della guerra di secessione: lo
schiavo nero Django (Jamie Foxx) torna in libertà grazie all’in-tervento
del tedesco King Schultz (Christoph Waltz), un tempo dentista adesso
cacciatore di taglie.
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Django aspira a ritrovare la donna amata, anch’essa nera e schiava (del
perfido Calvin Candie/Leonardo Di Caprio, proprietario di alcune
piantagioni nel Mississippi), e sarà proprio King Schultz ad aiutarlo in
questa impresa apparentemente invalicabile. Con Django Unchained
Tarantino sembra mettere in campo un’ennesima, interessante operazione
di matrice postmoderna. Il segnale più vistoso di tale senso di
postmoderno è rappresentato dalla “copertina”, dal “coperchio” del film,
ovvero il titolo, Django appunto, nome della
pellicola del 1966 di Sergio Corbuc- ci, uno dei momenti cinematografici
più imponenti del cosiddetto western all’italiana. E Tarantino, difatti,
con questo suo Unchained, si ispira parzialmente
proprio al film cult di Corbucci (ma, più in generale, anche ai vari
western all’italiana che si sono imposti con virulenta e talvolta
disgustosa efficacia soprattutto nella seconda metà degli anni
Sessanta). La desolazione della primissima immagine del film – un campo
totale di un deserto con alcune rocce a ridosso dell’inquadratura –
sembra essere stata presa in prestito proprio dall’altrettanto secca
desolazione dei tanti campi lunghi e totali che vanno a formare alcuni
dei tasselli più importanti dei western all’italiana (soprattutto,
appunto, il Django di Corbucci).
Ma si è appunto parlato di un Tarantino che si è parzialmente
is- pirato alle atmosfere del western all’italiana: in molte altre
sequenze e iquadrature, infatti, quella che potrebbe essere definita
“filosofia visiva della desolazione”, nonostante i fatti anche
drammatici o comunque eccessivi, viene accantonata o comunque in buona
parte coperta dall’azione dei personaggi e dall’ironia grottesca dei
dialoghi, da una certa pulizia ammiccante dell’inquadratura (in molte
occasioni, infatti, all’interno del film di Tarantino non è minimamente
riscontrabile una visi- one apaticamente devastata del paesaggio che
invece è presente, ad esempio, nella sequenza ad alto tasso fangoso dei
titoli di testa del Django di Corbucci, un tipo di visività del paesaggio che invece viene continuamente riproposto, per fare un esempio, ne I compari, crepuscolare western di Robert Altman che sembra ispirarsi quasi esclusivamente a quelli all’italiana).
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Ma le differenze fra il Django tarantiniano e quello di Corbucci si manifestano anche nel campo del trattamento idella iviolenza: mentre, infatti, in genere, molti western all’italiana si caratterizzano per una brutalità talvolta non particolarmente sostenibile, in Django Unchained, ad eccezione dei flashback che mostrano con una certa insistita crudezza le angherie subite dalla moglie dello schiavo nero Django, la violenza sembra gommosa (dunque non esattamente, appunto, violenta), caratterizzata da un eccesso che per molti spettatori sfiora l’estasi e il divertimento, ponendosi dunque, per certi aspetti, forse, come violenza soltanto apparente (del resto, forse, in più occasioni, nei suoi film, Tarantino, nonostante la messa in campo di eccessi a base di sangue e morte, più che mostrare la violenza tout court, sembra più che altro ricordarci che esiste la violenza, ma che non si trova veramente nei suoi film con vivida profondità, poiché, in genere, le sue opere sono dei balocchi – magari anche di grande valore - ma pur sempre creazioni di un giocatore di citazioni, rivisitazioni e miti personali).
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Ma il rapporto che Tarantino instaura fra il colore rosso e quello bianco ricorda anche più sottilmente un altro film western di Corbucci, Il grande silenzio (1967), dove vi è un imponente intrecciarsi, appunto, di questi due colori (ad esempio nelle scene di duello in cui il sangue cade sulla neve e si confonde con questa): si veda, ad esempio, il rosso del sangue di un personaggio minore sul mantello bianco di un cavallo in fuga, o, ancora, il dettaglio del rosso del sangue che schizza sul fiore bianco appuntato sulla giacca di Calvin Candie/Leonardo Di Caprio.
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Come nel Grande silenzio di Corbucci, dunque, Tarantino mette in moto quello che può essere chiamato “smas-cheramento del colore bianco”, ovvero una sorta di metafora visiva attraverso la quale viene mostrata l’impossibilità (totale o parziale) della purezza, dove, appunto, anche il colore bianco non risulta essere veramente tale. Nel caso di Corbucci, infatti, è il bianco della neve a risultare tutt’altro che candido, anzi, devastante, ostacolante e mortifero, in Tarantino, la negatività del colore bianco può essere ad esempio riscontrabile non soltanto nella neve, ma anche, ad esempio, nel grottesco dente bianco collocato sopra la carrozza dell’ex dentista King Schultz/Christoph Waltz (cita- zione quest’ultima di Greed, 1925, di Eric Von Stroheim, film dove, tra l’altro, pulsa, soprattutto nella seconda parte, un’ambientazione a base di deserto dai tratti devastanti).
Daniel Montigiani
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