Edoardo II,
film del 1991, di Derek Jarman
film del 1991, di Derek Jarman
|
Con Edoardo II Jarman sembra consolidarsi in assoluto come uno dei registi più importanti del Regno Unito; ad ogni modo, al di là delle opinioni, è innegabile l’importanza e il fascino di tale opera, per la sua originalità e struttura dai tratti spiazzanti, sorprendenti. |
Questo penultimo gradino della scala della filmografia del regista inglese rappresenta allo stesso tempo uno dei film più importanti, coraggiosi e visivamente arditi del cinema a tematica omosessuale di sempre. Buona parte della storia e dell’intreccio, del resto, si basa sulla passione e sull’amore fra due uomini, ma – aspetto, anche questo, assolutamente rilevante – non due uomini a caso.
Qui Jarman infatti attua una sorprendente rivisitazione della celebre opera teatrale – Edoardo II, appunto – di Cristopher Marlowe, uno dei più importanti drammaturghi del teatro inglese del Seicento (e non solo). Nel 1325, in Inghilterra, il giovane Edoardo II, sovrano da poco, non esita a portarsi a corte l’amante Gaveston. Tale comportamento genera conflitti e astio all’interno della corte, il mondo ecclesiastico e, soprattutto, suscita l’odio della moglie Isabella, con la quale, tra l’altro, condivide un bambino. La fredda, altera ma in realtà passionale Isabella, dopo aver tentato senza successo di riconquistare lo “sfacciato” sovrano, trasforma ben presto la propria alterigia in spietatezza e, con l’aiuto del suo amante –Roger De Mortimer – si prefigge lo scopo di detronizzarlo e di allontanarlo da Gaveston…
|
Nonostante alcune modifiche apportate al testo di Marlowe, Jarman se ne appropria e ripropone la stessa storia, gli stessi personaggi, la stessa violenza. Tuttavia, si tratta, appunto, di una rivisitazione, una delle caratteristiche-madri, questa, a rendere a dir poco notevole tale opera: in più di un'occasione infatti, e spesso in maniera improvvisa, con assoluta nonchalance, in una storia ambientata nel Medioevo inglese, vengono inseriti elementi appartenenti alla contemporaneità (ben presenti ad esempio nella scena in cui Edoardo e Gaveston, in giacca e cravatta, ballano uno swing illuminati da luci quasi da musical provenienti da fuori campo) e, addirittura, appartenenti alla cultura di massa (scatti di macchine fotografiche, il lettore portatile di cd con tanto di cuffie del figlio dei due reali presente nell’ultima sequenza).
Ma, ancora prima delle intrusioni dell’età contemporanea come lettori di cd, macchine fotografiche e giacca e cravatta in una storia ambientata nel 1300, la sorpresa e la bizzarria stanno anche e soprattutto nella scenografia così irrealisticamente scarna che tocca l’irrealismo se non addirittura l’astrattezza, e dove sembra ben pulsare l’ispirazione del teatro di Brecht: i reali, Gaveston, il figlio, i personaggi dello Stato e del Clero agiscono e si aggirano attraverso enormi luoghi, stanze e corridoi quasi vuoti, spogli che danno addirittura l’idea di zone distrutte, ormai fattesi passato, di “luoghi-post”, di archeologie e scheletri architettonici di un qualcosa che adesso non c’è più, dove lo scintillante trono di Edoardo è uno dei pochissimi elementi (insieme alle mises di Isabella/Tilda Swinton) a distinguersi per lusso e fasto.
Tuttavia, nonostante la secchezza della scenografia, Jarman, mettendo in atto una sorta di dinamica degli opposti, riesce a mostrare allo stesso tempo il suo interesse per la qualità pittorica dell’immagine (già comunque ampiamente mostrato nel 1986 con Caravaggio), non soltanto per l’uso denso, scuro e scintillante allo stesso tempo, dei colori e dei possibili contrasti che possono venire a crearsi fra questi e lo sfondo, ma anche per il trattamento talvolta denso, ricco dei corpi, soprattutto maschili (si pensi a tal proposito ad una delle prime inquadrature, quella in cui un uomo dal corpo scultoreo tiene in mano una sorta di boa).
E, a proposito di corpi, è possibile associare, almeno a grandi linee, il cinema di Jarman a un altro importante film maker britannico degli anni Ottanta, Peter Greenaway. Nonostante alcune differenze di fondo fra i due, tale associazione può essere attivabile almeno da due punti di vista: il primo, appunto, per il desiderio che la macchina da presa esprime nei confronti dei corpi, la sua aderenza a questi; il desiderio della macchina da presa di rendere il corpo – specialmente quello maschile – il punto centrale e pulsante dell’inquadratura. Il secondo, per la capacità di creare, fondare, sistemare e dirigere la bellezza, la raffinatezza colta, artistica, anche in contesti secchi, diretti, scabri, talvolta persino cupi, violenti e volgari. Ma l’importanza assegnata da Jarman – in particolare in questo film – ai corpi e alle possibili scenografie, architetture e “trovate artistiche” non investe soltanto il visivo, la bellezza di osservare tali inquadrature.
Ma, ancora prima delle intrusioni dell’età contemporanea come lettori di cd, macchine fotografiche e giacca e cravatta in una storia ambientata nel 1300, la sorpresa e la bizzarria stanno anche e soprattutto nella scenografia così irrealisticamente scarna che tocca l’irrealismo se non addirittura l’astrattezza, e dove sembra ben pulsare l’ispirazione del teatro di Brecht: i reali, Gaveston, il figlio, i personaggi dello Stato e del Clero agiscono e si aggirano attraverso enormi luoghi, stanze e corridoi quasi vuoti, spogli che danno addirittura l’idea di zone distrutte, ormai fattesi passato, di “luoghi-post”, di archeologie e scheletri architettonici di un qualcosa che adesso non c’è più, dove lo scintillante trono di Edoardo è uno dei pochissimi elementi (insieme alle mises di Isabella/Tilda Swinton) a distinguersi per lusso e fasto.
Tuttavia, nonostante la secchezza della scenografia, Jarman, mettendo in atto una sorta di dinamica degli opposti, riesce a mostrare allo stesso tempo il suo interesse per la qualità pittorica dell’immagine (già comunque ampiamente mostrato nel 1986 con Caravaggio), non soltanto per l’uso denso, scuro e scintillante allo stesso tempo, dei colori e dei possibili contrasti che possono venire a crearsi fra questi e lo sfondo, ma anche per il trattamento talvolta denso, ricco dei corpi, soprattutto maschili (si pensi a tal proposito ad una delle prime inquadrature, quella in cui un uomo dal corpo scultoreo tiene in mano una sorta di boa).
E, a proposito di corpi, è possibile associare, almeno a grandi linee, il cinema di Jarman a un altro importante film maker britannico degli anni Ottanta, Peter Greenaway. Nonostante alcune differenze di fondo fra i due, tale associazione può essere attivabile almeno da due punti di vista: il primo, appunto, per il desiderio che la macchina da presa esprime nei confronti dei corpi, la sua aderenza a questi; il desiderio della macchina da presa di rendere il corpo – specialmente quello maschile – il punto centrale e pulsante dell’inquadratura. Il secondo, per la capacità di creare, fondare, sistemare e dirigere la bellezza, la raffinatezza colta, artistica, anche in contesti secchi, diretti, scabri, talvolta persino cupi, violenti e volgari. Ma l’importanza assegnata da Jarman – in particolare in questo film – ai corpi e alle possibili scenografie, architetture e “trovate artistiche” non investe soltanto il visivo, la bellezza di osservare tali inquadrature.
Il fascino di questa “scenografia-non-scenografia” e messa in mostra dei corpi rimanda ad altro, a zone che non hanno a che fare con l’estetica. Da questo punto di vista, può essere utile rimettere in campo – in maniera assolutamente rapida – alcune linee dei contributi critici e teorici di Roland Barthes all’immagine cinematografica.
|
Nel suo saggio Il terzo senso (1970), Barthes analizza un fotogramma di Ivan il terribile di Ejzenstejn assegnandogli tre distinti livelli: il livello informativo, il livello simbolico e il livello ottuso. In Edoardo II sembrano contare soprattutto i primi due: il primo (informativo) è quello più semplice, ovvero riguarda ciò che l’immagine contiene in sé, ciò che mostra, ciò che è, insomma, l’interno dell’inquadratura (il profilmico). Il secondo (simbolico) attinge al lessico generale dei simboli, alla simbologia. Un livello dell’inquadratura quest’ultimo che, insomma, rimanda a qualcos’altro. E in questo penultimo film di Jarman la scenografia così secca, brecthiana, esile nella sua severità sembra riflettere, rimandare alla severità/crudeltà/aridità della moglie di Edoardo, Isabella, dell’amante Mortimer, e di quasi tutti i personaggi dello Stato e del Clero, ma, allo stesso tempo, anche all’aridità del governo allora in carica (anche se ancora non per molto) nel Regno Unito, ovvero quello conservatore di Margaret Thatcher.
Dunque, allo stesso tempo, il senso di devastazione, di finito, di “dopo” emanato da questa scenografia, architettura quasi del tutto vuota, può benissimo rimandare al senso di devastazione provocato dalle multiple azioni della Iron Lady. Ma tale livello simbolico può essere applicato anche al già discusso concitato protagonismo dei corpi: la messa in mostra visivamente quasi “spudorata” dei corpi maschili, nudi, centrali, più che semoventi, talvolta aggrappati fra di loro in inizi di atti sessuali sembra venir usata da Jarman come “arma di carne” contro l’omofobia del Primo Ministro, come vitale punto esclamativo, metaforico indice puntato contro. Qui Jarman, dunque, utilizza l’ambientazione, la storia e l’intreccio di questa porzione di medioevo inglese anche e soprattutto per colpire aspetti del contemporaneo, in particolar modo del governo a lui contemporaneo.
Dunque, allo stesso tempo, il senso di devastazione, di finito, di “dopo” emanato da questa scenografia, architettura quasi del tutto vuota, può benissimo rimandare al senso di devastazione provocato dalle multiple azioni della Iron Lady. Ma tale livello simbolico può essere applicato anche al già discusso concitato protagonismo dei corpi: la messa in mostra visivamente quasi “spudorata” dei corpi maschili, nudi, centrali, più che semoventi, talvolta aggrappati fra di loro in inizi di atti sessuali sembra venir usata da Jarman come “arma di carne” contro l’omofobia del Primo Ministro, come vitale punto esclamativo, metaforico indice puntato contro. Qui Jarman, dunque, utilizza l’ambientazione, la storia e l’intreccio di questa porzione di medioevo inglese anche e soprattutto per colpire aspetti del contemporaneo, in particolar modo del governo a lui contemporaneo.
Del resto, dal punto di vista tematico e stilistico, gli interessi e gli strumenti di Jarman sono ben distanti da quelli di altri registi inglesi come Ken Loach e Mike Leigh, i quali, molte volte, all’interno delle loro opere attaccano o stuzzicano direttamente il governo conservatore (o, comunque, in generale, certa politica), facendo persino il nome dell’allora Primo Ministro. |
Jarman, infatti, risulta diegeticamente, stilisticamente/visivamente più denso e, convinto del proprio senso della visione e delle proprie idee, cammina (e attacca, appunto) a passi di metafora, di simboli, di rimandi. Un metodo che, per più aspetti, può rivelarsi assai più efficace e forte rispetto alle denunce dirette e realistiche.
Daniel Montigiani
|
|
|
Vuoi diventare pubblicista presso la nostra rivista?
sottoscrivi il bando. Accedi al link dall'immagine sottostante.
sottoscrivi il bando. Accedi al link dall'immagine sottostante.
Psychodream Theater - © 2012 Tutti i
diritti riservati