Un sapore di ruggine e ossa
Un film di Jacques Audiard
Un film di Jacques Audiard
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Stéphanie (Marion Cotillard), addestratrice di orche, rimane mutilata in un incidente proprio durante un momento del suo lavoro. Alì (Matthias Schoenaerts), con un figlio a carico, inizialmente occupato come buttafuori in una discoteca (dove, tra l'altro, prima dell'incidente aveva per caso incontrato Stéphanie), continua poi a guadagnarsi da vivere come partecipante attivo a pericolosi combattimenti clandestini. |
I loro mondi, in particolar modo dopo l'incidente della donna, cominciano a intrecciarsi, dando così vita a un rapporto intenso e problematico. Un film che, al di là delle tematiche, delle presenze, degli attori e dei luoghi sembra concentrarsi principalmente per la maggior parte del tempo (e delle inquadrature e delle scene, sequenze) sul corpo, sul corpo umano, sulla fin troppo marcata “corporalità” dell’essere umano.
Difatti, le riprese effettuate da Audiard sembrano concentrarsi sui corpi – in particolar modo quelli dei due protagonisti – non solo quasi per ricordarne l’esistenza, ma, soprattutto, per evidenziarne la trepidante finitezza. Il corpo umano mostrato quasi come fosse un errore, un ostacolo. Un trattamento della figura umana, insomma, quasi come se questa fosse un thriller. |
Ma in questa pellicola il corpo umano viene come mostrato e analizzato nella sua finitezza non soltanto, prima di tutto, per la storia che viene narrata (e, in particolare, ovviamente, per la perdita delle gambe da parte della protagonista), ma anche (e forse soprattutto) per il “valore aggiunto” (e a dir poco crudele, sfacciatamente realistico) della macchina da presa, per la capacità e l’insistenza di questa di osservarli, di scrutarli, quasi come se desiderasse entrarci (e quasi come se, di conseguenza, ci riuscisse, ci potesse riuscire).
Sì, perché il soffermarsi a dir poco concitato (si potrebbe dire più che morboso) dell’occhio del regista, della macchina da presa su queste presenze umane (sia quando sono vestite che nude o seminude) non sembra affatto una sorta di operazione-esplorazione poetica del “paesaggio corporale umano”, ma, uno sguardo fin troppo viscerale, anche nell’uso, spesso movimentato, del dettaglio (si pensi ad esempio, durante una delle prime sequenze, alla ripresa dettagliata dall’alto del volto del figlio del co-protagonista in treno mentre mangia rapidamente alcuni avanzi trovati lì per caso).
Sì, perché il soffermarsi a dir poco concitato (si potrebbe dire più che morboso) dell’occhio del regista, della macchina da presa su queste presenze umane (sia quando sono vestite che nude o seminude) non sembra affatto una sorta di operazione-esplorazione poetica del “paesaggio corporale umano”, ma, uno sguardo fin troppo viscerale, anche nell’uso, spesso movimentato, del dettaglio (si pensi ad esempio, durante una delle prime sequenze, alla ripresa dettagliata dall’alto del volto del figlio del co-protagonista in treno mentre mangia rapidamente alcuni avanzi trovati lì per caso).
D’altronde, l’uso indubbiamente notevole della macchina da presa è visibile anche quando il regista non necessariamente si sofferma sull’essere umano come corpo: la prima sequenza, ad esempio, con riprese subacquee e soprattutto con la sovrimpressione del volto in primissimo piano della protagonista su una porzione di distesa d’acqua – un momento visivo durante il quale sembra vagamente di assistere a del cinema astratto - mostra visibili “segni di talento”.
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In quest’opera non viene mostrato appunto soltanto il corpo in sé, ma anche e soprattutto i vari usi che questo può fare di se stesso, generalmente con connotazioni quasi sempre non esattamente positive: l’uso atletico e movimentato del corpo (il lavoro di entrambi i protagonisti, infatti, si basa sull’uso e sulla conoscenza precisa delle proprie capacità fisiche), l’“uso” (cioè, in definitiva, il non uso) mutilato del corpo (rappresentato principalmente dall’amputazione delle gambe della protagonista), l’uso “grottesco” dei corpi e anche delle loro unioni (di fronte ai due protagonisti, ripresi in campo totale immersi in un rapporto sessuale, essendo la donna priva di buona parte delle gambe, sembra quasi di assistere a una versione personale e più secca di Crash di David Cronenberg), l’uso in parte recuperato del corpo (quando Stéphanie ricomincia a camminare grazie alle gambe artificiali), l’uso sessuale del corpo (non soltanto nei già citati momenti in cui i due hanno rapporti ma anche nella scena in cui il protagonista, in palestra, in maniera quasi grottesca, risponde al cellulare mentre sta avendo un rapido, animalesco rapporto sessuale con una donna da poco incontrata), l’uso perfino politico del corpo (Alì tatua in nero sulla parte superiore delle gambe ormai mutilate di Stéphanie le scritte “droite” e “gauche”).
Tuttavia, alla fine, nonostante tutti questi corpi così ingombranti e così tumultuosamente presenti, altrettanto “ingombrante” è un’inaspettata chiusura positiva, che tuttavia non fa certo dimenticare il vorticoso (e talvolta traumatico) resto del film.
Tuttavia, alla fine, nonostante tutti questi corpi così ingombranti e così tumultuosamente presenti, altrettanto “ingombrante” è un’inaspettata chiusura positiva, che tuttavia non fa certo dimenticare il vorticoso (e talvolta traumatico) resto del film.
Daniel Montigiani
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