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Teatro e la sconfitta Articolo di Enrico Pastore :«Non posso che cercare di spiegare il mio disagio, non altro, non posso dare appuntamenti con il reale, con l’ovvio, il logico, il razionale.
Il buio, spegniamo le luci». Carmelo Bene :«Non è il mio modo di pensare che ha creato la mia disgrazia, ma il modo di pensare degli altri» D.A.F. De Sade Lettera alla moglie, 1783 |
Ho sempre amato gli sconfitti. Oggi più che mai. La grandiosità di coloro che provano e provando cadono mi ha sempre affascinato. Forse è per questo che amo il teatro, arte degli sconfitti. Non si parte forse dalla tragedia, da quegli eroi sconfitti dal fato per aver infranto l’ordine, per aver offeso gli uomini e gli dei, testimoni del fatto che la natura umana mal sopporta le eccezioni?
Ma ora non penso ai greci, penso più ad Artaud che il 4 marzo 1948 è trovato morto ai piedi del letto nella sua camera a Ivry. Chissà quali larve e quali ombre avranno assillato gli ultimi suoi momenti? Perché: “non si muore mai soli, ma sempre davanti a una specie di atroce concilio, voglio dire un consorzio di bassezze, di recriminazioni, di acrimonie”. Penso dunque ad Artaud morto per terra solitario e malato, in compagnia solo dei fantasmi che l’hanno assillato e degli affatturamenti che l’hanno legato e crocifisso. Quanta disperazione e quanto dolore nel più grande ribelle e rivoluzionario, - in progetto, per dirla alla Carmelo – del teatro del Novecento, ribelle affatturato, recluso, represso, incarcerato. Quell’Artaud che urlava al mondo il suicidio di Van Gogh “suicidato dalla società” che mal digeriva le sue fondamentali rivelazioni sull’essere. Ma non solo Van Gogh, c’è per Artaud tutta una genia di sconfitti e suicidati: “Gerard de Nerval, Edgar Allan Poe, Baudelaire, Lautréamont, Nietzsche, Arthur Rimbaud non sono morti di rabbia, di malattia, di disperazione, o di miseria, sono morti perché li si voleva uccidere - e la massa sacrosanta dei coglioni che li considerava come dei guastafeste ha fatto blocco a un dato momento contro di loro.” Antonin Artaud il rivoluzionario in potenza, colui che tentò di mettere in seria crisi il modo di fare il teatro, muore solo e pazzo perché: “tutto ciò che insorge viene dichiarato pazzo, avvelenato, incarcerato, spinto al suicidio, paralizzato”. Penso anche a Carmelo Bene. Certo si solleveranno subito le obbiezioni. Mal si adatta la figura titanica del più grande e misconosciuto Bene culturale italiano, eppure basta guardare dieci minuti di lui, solo contro tutti, da Maurizio Costanzo, per notare il fuoco di sbarramento dell’idiozia del buon senso comune, dell’aurea mediocritas, di quel pubblico ottuso di finti intellettuali, di giornalisti da riviste per la sala d’aspetto del dottore per comprendere quanto fosse sconfitto dall’imperante apatia dell’italietta. Lui che continuamente spronava a depensare l’opera, a sprogettare, come può non essere stato sconfitto dall’epoca che costringe tutti al progetto per procurarsi quel poco di denaro destinato alla sopravvivenza? Ma lui, il più grande sconfitto ed ignorato del teatro italiano, l’aveva già capito che quel dipendere dal soldo pubblico non avrebbe generato una ribellione ma un fabbrica del consenso per distrarre i dopolavoristi e quelli che il lavoro non ce l’hanno. E poi come si fa a mordere la mano che porge munifica un poco di becchime? In fondo: “Tutta l’arte è di Stato. È uno stato che si assiste. Sennò alla mediocrità chi ci pensa?”. La ricerca non sai dove porta in arte, spesso è una sconfitta, e non è accettabile nell’era del progetto. Devi già sapere dove ti porta, quali risultati otterrai, quanto ci guadagni, quanto denaro mobiliti, quanto pubblico, quanto privato, quanti biglietti: e questa precisione finanziaria l’ente pubblico e la munifica e mecenatistica fondazione bancaria la richiedono all’arte, la più improbabile delle economie, perché appunto non è economia, ma dispendio di energia oltre il limite e senza reti, come funamboli. Queste cose vengono richieste alle arti, tutta questa precisione preventiva di costi e ricavi, questa attenzione all’antiriciclaggio, questa sorveglianza che fa un po’ ridere, se non fosse tragica, quanto ogni altra branchia della spesa pubblica è un colabrodo di clientele, bustarelle, sprechi e rimborsi pazzi! Agli artisti si chiede precisione nei conti, ma che è? una presa per il culo? E così anziché sprogettare per ricercare, per trovare nuovi linguaggi, eccoci tutti schiavi del progetto tutti a costruire un teatro italiano fatto di commediole, di divi televisivi e zelighiani, di polverosi teatri stabili, di vetuste convenzioni, vuotezze intellettualistiche e celebrazioni d’anniversario. Povero Carmelo aveva già predetto tutto. :«Se in questo santo cesso quotidiano depensassimo tutto, ma proprio tutto […] Penso il pensiero che se ne va. Penso a sbrigarmi, a liberare il “bagno” dal lezzo del “creato”». Penso a Marinetti, un altro frainteso, bollato fascista e così archiviato senza studiarlo né capirlo, lui che per primo aveva capito i gravami che impedivano il sorgere del nuovo, lui che è stato a capo dell’unica avanguardia italiana. Ironia della sorte però i musei li abbiamo abbattuti, abbiamo sepolto Venezia, allagato le biblioteche, fatto crollare le rovine di Pompei. Peccato che sia mancata un’edificazione futurista. C’è stato solo lo sfascio, ma fatto senza coscienza, solo per cialtronaggine, incuria, stupidità. Che ne sarebbe di un Marinetti oggi sulle scene? Scusi egregio funzionario vorrei assaltare un teatro, scuotere il pubblico, creare delle risse da stadio, demolire tutto ciò che è tradizione perché ci strangola, mi concede una serata nel suo teatrino? E il pubblico si prenderebbe a cazzotti? Ma va! Applaudirebbe, perché: “ormai a teatro il pubblico applaude solo per pietà”. :«Caro amico, mi scusi di averla disturbata […] ma arrivato davanti al pubblico e pronto a cominciare mi è parso che non fosse il caso, che fosse inefficace dire certe cose davanti a un pubblico che non voleva ascoltarle e appassionarsi fino in fondo. Pensi alle tossi, ai fazzoletti, agli starnuti [...]». Così Artaud a Breton l’anno prima di morire. Ma potrebbe essere stato scritto ieri sera, ogni sera a teatro. Ma che dire di Cage, colui che più di tutti si adoperò per togliere terreno alla certezza, svuotando il progetto al fine di svuotare l’io che progetta. Togliere di mezzo l’autore, il significato, il desiderio di comunicare: “Io ho da dire niente e lo sto dicendo e questa è la poesia che mi serve”. Cage anche lui è uno sconfitto. Lui che ha cercato di tendere all’informe perché apparissero tutte le forme oggi vedrebbe nient’altro che forme fin troppo piene, autori che dicono la loro pur non avendo niente da dire, il teatro pieno di maestri e guru. Altro che silenzio! Tutto un chiacchiericcio petulante di neo santoni che tutto hanno da insegnare tranne l’unica cosa che potrebbero: il togliersi di mezzo! Lui aveva capito come l’aveva capito Carmelo Bene che: “scomparire è tuttora la sola, paradossale formula d’apparizione all’altrui orecchio”. Il niente è ciò che lascia apparire le cose e le parole. Ma come fai a spiegarlo al funzionario che dovrebbe finanziare la tua ricerca: scusi signor funzionario io cerco il niente, cerco di togliere il mio io d’autore perché appaia l’essere, mi finanzia? E che dire di Copeau, lui che si sposta sempre un po’ più in là quando il successo lo viene a visitare, perché capiva che quando l’ordine ti applaude ti ha già ucciso e quindi l’unica è fuggire: sulla rive gauche prima, e poi in campagna, sempre alla ricerca. Mossa insensata pensando all’oggi dove per un minimo raggio di sole, seppur su facebook per qualche secondo si sarebbe disposti a far prostituire la mamma. E che dire di Kantor, sconfitto dalla santità ipocrita di Grotowsky, dalla sua povertà da divo, dalle sue rinunce farisee, dai suoi ritiri dorati di fronte a turbe di discepoli osannanti. Kantor che poveramente lavora e si sporca le mani, fino a salire sul palco con le sue opere, agendo su e con la realtà dal rango più basso come colui che guarda in faccia la morte. Kantor che scriveva: Crepino gli artisti! Oggi sarebbe preso alla lettera. A lui sì si darebbe ragione, ma per le più sbagliate delle ragioni. Enrico Pastore
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