IN LUCE
Articolo intervista di Enrico Pastore La vita è questo: una scheggia di luce che finisce nella notte. - Celine, Viaggio al termine della notte. - |
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È molto che non vado a teatro perché mi annoio. Già dopo cinque minuti non ne posso più. Spero che tutto finisca presto come in una seduta dal dentista. Tutto scontato: visioni vecchie di duecento anni anche laddove si urla l’avanguardia; gente seduta nel buio in attesa di un’immagine per lei preconfezionata e alla fine l’applauso scontato anche quando non c’è nulla da applaudire. Forse, come diceva Carmelo Bene, a teatro si applaude solo per pietà. Per fortuna talvolta si viene smentiti. Nel vedere In luce di Francesca Cola mi sono ricreato. In poco più di venti minuti, con francescana semplicità, si viene investiti da una tale furia di idee da rimanerne storditi. Non a caso In luce ha vinto il premio Dante Cappelletti alle arti sceniche.
Innanzitutto la performance non viene eseguita in teatro, ma in uno spazio neutro. Quindici spettatori alla volta a cui viene affidata una torcia. Poi il buio. È il pubblico che sceglie cosa mettere in luce. L’azione si svolge senza voler mostrare nulla, nel buio, e il pubblico sceglie se mettere in luce e come mettere in luce. A volte pochi frame, a volte lunghi spezzoni. Ogni volta diverso. La torcia come un telecomando: si può scegliere di vedere o non vedere, comunque si deve operare una scelta. Niente è dato, tutto deve essere scoperto, cercato, trovato, sondato. Cosa traspare alla fine è frutto della somma delle decisioni prese dalle quindici persone convenute. Dall’ombra emergono le immagini: una mela da cui partono cuffie acustiche bianche appesa sopra un tavolo, una donna-corvo su un divano, una chitarra elettrica. Sono semplicemente cose che esistono nel momento che vengono messe in luce, non aggrediscono con l’ansia di voler comunicare anche se vi è chiaramente un universo simbolico sotteso, ma non importa, non è invadente, si può soprassedere e semplicemente vedere. Un’estrema povertà di mezzi, non ostentata né predicata, semplicemente si usa ciò che serve e che si ha a disposizione. Una lezione magistrale a tutti quei “piagnoni di Stato” che lamentano mancanze di fondi invece di scandalizzarsi per una cronica mancanza di idee. Le cose e le azioni che emergono dal buio sono semplicemente lì. E quel loro esserci sconvolge: che tutto esista anche nella notte e termini nella notte. Scegliere di far tornare il buio: inquieta. La semplice decisione di affidare le torce al pubblico scatena una guerra cosmica: venti minuti drammatici quasi oltre il sostenibile. L’azione si svolge invece serena, non toccata dalle scelte, eppure come un terremoto scuote l’essere con infinite e mute domande. Siamo oltre la rappresentazione. Non c’è dramma ma si scatena il dramma: quello dell’esistere, quello della fine, il venire alla luce, lo sprofondare nel buio. Con pochissime parole, solo una frase cesellata su un silenzio, perché non c’è bisogno di dire molto. Forse senza la musica, il suono, il dramma sarebbe stato insostenibile. Non c’è che dire: una performance che da consistenza e funzione al teatro. Filosofia in azione, prassi nel senso di operare, agire sull’essere. Funzione che manca sempre più al teatro che si lascia vivacchiare senza rifondarsi, assorto e assorbito nella progettualità bancaria e burocra- tica. La radicalità di questo lavoro mi ha convinto a dedicare all’autrice un’intervista EP: Francesca mi racconti genesi e intenzioni di In Luce? FC: In Luce nasce nel contesto di una residenza fatta in Svizzera per Performa Festival e nasce dalla necessità... Più che altro da un interrogativo sulla possibilità di essere guardati o non guardati da qualcuno. Nasce da un pensiero sulla presenza , sulla necessità di non darla per scontata. In Luce nasce dopo un periodo di investimento in un progetto indipendente (We Used To Be Lovers) per una ventina di danzatori praticato in spazi aperti, luoghi abbandonati, luoghi non di potere ufficiale ma con finale in una grande luogo di potere, le Officine Grandi Riparazioni, qua a Torino. Un lavoro in cui avevo la direzione e quindi uno sguardo molto esterno; la mia presenza effettiva in scena non era affatto scontata ed è capitato spesso di essere visibile solo in alcuni momenti. Uno degli obiettivi di questo complesso progetto su cui sto ancora lavorando era educare il corpo dei danzatori allo stare in presenza in luoghi non teatrali ma molto ampi e di forte impatto visivo. luoghi che non avevano confini e convenzioni prestabilite. L’urgenza successiva quindi è stata quella di poter abitare con il mio unico corpo un luogo confinato, uno spazio in cui il poter essere vista, guardata, non era dato per scontato. Contemporaneamente In luce nasce da un ragionamento scaturito circa un anno prima con il fotografo Enrico De Santis di Progetto Bifronte a partire da un libro di Roland Barthes La camera chiara, in cui Barthes dice che il corpo, gli oggetti, vengono espressi dalla luce. Volevo verificare questo assunto in un contesto drammaturgico. Altro intento era quello di mettere in relazione la mia presenza, la mia costruzione drammaturgica con una drammaturgia condivisa con il pubblico a cui non chiedevo però un’immersione violenta. È stata una richiesta più discreta: la possibilità di guardare. Da qui la scelta di dotare il pubblico una torcia, uno strumento per poter essere vista oppure no in questo spazio chiuso e buio. EP: Ciò che mi affascina del tuo lavoro è che il pubblico sceglie cosa vedere, cosa mettere in luce. Tu esisti semplicemente nella tua performance e non ti imponi. È il pubblico che si trova a dover decidere e a dover fare una scelta. FC: La cosa che sentivo come necessaria, innanzitutto per me come spettatrice critica che prova noia nell’andare a teatro, nei “vecchi” luoghi deputati alla visione, è proprio sganciarsi da questa imposizione di ciò che devo vedere. Devo per forza vedere? Io in questo periodo storico avrei tanta voglia di non vedere e di non sentire più parecchie cose. Non ho bisogno di tutti questi stimoli, di stare in questo magmatico conflitto di informazioni fuori controllo. Ho bisogno di una sottrazione. Quindi creare il tempo e lo spazio in In Luce stato un po’ proiettare il desiderio di questa sottrazione: io esisto, ci sono con tutta la complessità umana del caso e non ho bisogno di farti vedere se e quanto sono brava, di farti arrivare a tutti i costi un messaggio, di comunicare per forza di cose. Semplicemente quella permanenza in quel tempo e in quello spazio esiste in sé, il corpo esiste e le azioni che compie, le immagini che crea possono essere viste o non viste. Il pubblico non è abituato alla sottrazione, non lo è per niente. E ciò che avviene molto spesso è che sono tanto illuminata o cercata, inseguita nei particolari. Lo spazio è individuato da alcuni con ossessione chirurgica. C’è un’abitudine bulimica del pubblico nei confronti delle immagini e soprattutto una dimensione di profondissimo controllo. Il pubblico ti deve controllare. Ci sono poi anche gruppi che invece rispettano i tempi di buio e creano attraverso questa discrezione una possibilità di visione magica. EP: C’è quasi un terrore di fronte alla libertà? FC: Non solo della libertà. Anche del buio. Una sorta di vuoto, filosoficamente, in cui si può stare. C’è una disabitudine ad abitare il vuoto o forse proprio non c’è l’educazione a stare in sottrazione. Sono rare le situazioni in cui il pubblico si concede di stare in quell’assenza –, non sonora perché in questa performance la sonorità è costante – il pubblico fatica a stare con quel vuoto di immagini. C’è anche da considerare che entrano in gruppo di massimo quindici persone e sono subito immersi in una autonoma gestione di dinamiche di gruppo. Il pubblico comprende istintivamente di trovarsi in una in un sistema più o meno rituale, in cui deve imparare a trovarsi a gestire la torcia, quel testimone che ha in mano. Da qui si scatenano cose non da poco, gente che esce incazzata perché non è stata gestita bene la luce e loro l’avrebbero fatto meglio oppure, in rari casi, persone felici perché la dinamica ha funzionato. Per me dall’interno è tutto estremamente percepibile, non solo la gestione della torcia, paradossalmente anche i pensieri. Arriva tutto. Tutto. EP: Un’altra considerazione che mi viene da fare è che la tua performance si presenta di fatto come non riproducibile, che è sempre diverso, perché la scelta del pubblico è sempre diversa. E anche se lo stesso pubblico si ripresentasse due volte impara, in un certo senso, a usare la torcia modificando, affinando la sua percezione. FC: C’è da dire due cose. Io ho degli appuntamenti, delle azioni che so che devo fare. Sono momenti non narrativi. Sono semplicemente immagini e io esisto in quelle immagini, per cui io ho il mio range di azioni. Come queste vengono illuminate, questa drammaturgia creata dal pubblico, come dici tu, modifica di volta in volta la performance. È una scelta consapevole. L’altra questione che mi interessa è che non c’è niente di così scollato tra quel tempo, quello spazio convenzionalmente più teatrali da quello che avviene nella vita. Io posso fare una stessa strada venti volte, e in tutte quelle venti volte io sarò diversa, mi capiteranno cose diverse, magari non eclatanti ma ecco io vedrò cose diverse. EP: Dante scrive: non è sanza cagion l’andare al cupo” e nella tua performance l’ombra permette l’emersione della luce, permette all’occhio di vedere. Quanto è importante dunque l’ombra in un lavoro che si chiama In luce? FC: Hai toccato un punto profondissimo e non a caso questo lavoro nasce dopo almeno due anni di analisi, attraverso cui ho avuto a che fare con parecchie mie ombre. Per condensare tutto in modo semplice però ho voglia di raccontarti questa cosa. Insegnavo a un gruppo di bambini. Lavoravamo sul movimento, sui loro movimenti liberi che venivano poi trasposti graficamente su dei fogli. I fogli erano bianchi e una bambina arriva da me e mi chiede:”Mi porti un foglio nero?” e io le rispondo:”Sì certo. Te lo porto. Non ce l’ho qua ma te lo porto la prossima volta, ma perché?” e lei mi risponde:”Se io voglio far vedere la mia danza bianca, non posso farlo sul foglio bianco. Non si vedrebbe nulla. Ho bisogno di un foglio nero.” È questa cosa qua: le ombre permettono l’emersione della luce e viceversa. EP: La cosa che mi sorprende in questo lavoro è la semplicità dei mezzi. L’estrema semplicità e povertà dei mezzi e quando ancora ce ne fosse bisogno questo dimostra che all’arte servono più le idee che i danari. FC: Sì anche questa è stata una scelta non solo di necessità, perché è ovvio che ci sia una necessità non avendo una produzione, volontariamente non chiedo denari per la produzione. Faccio io con i mezzi che ho. Mi viene in mente, dal tempo in cui ancora studiavo all’università, quando leggevo di Romeo Castellucci e della genesi delle sue opere, - e sappiamo di quale budget abbiano bisogno le sue opere – eppure lui scriveva che il suo più grande stimolo era la realtà, le immagini esterne. Ecco quella in effetti è una cosa semplice. Non c’è budget in quello che vedi. Le immagini si danno con gratuità il più delle volte. Per esempio una cosa che ho visto ultimamente e che mi ha creato un piccolo cortocircuito: un vecchietto che attraversa la strada in pieno centro mentre porta in uno zaino rosa delle casse che spingono musica da balera a tutto volume. Ecco questa è un’immagine. Ecco e poi penso alla Street art che ha una comunicazione molto diretta, molto precisa. Penso a Banksy e all’incisività delle sue immagini. Gli street artists usano i muri, i muri della città. Che cosa costano? Poco…. La lattina di colore. E poi c’è l’’idea. Queste due cose per me sono fondamentali. Anche lì si verifica una sottrazione. Come nella questione della luce: io mi sottraggo allo sguardo. Sto in quel vuoto, che è un buio in cui mi è permesso di mettere in luce alcune cose, ecco allora anche nella possibilità di essere prodotta faccio un passo indietro. È tutto più semplice e i miei tempi vengono rispettati. Riguardo alla produzione poi penso che un grande supporto lo dia la capacità di entrare in relazione, una relazione virtuosa con altri artisti. In questo caso la possibilità di avere uno scambio come quello che c’è stato con il collettivo di designer BATNA con cui collaboro da anni (collaborazione basata sullo scambio) o con Marco Cazzato, che mi ha messo a disposizione alcune sue immagini. Alcune immagini del mio lavoro fanno proprio riferimento a sue opere. La stessa testa di corvo è un elemento che mi ha prestato lui e che gli appartiene profondamente. Sono anni che collaboro con Davide Tomat che ha curato la parte sonora ed è uno dei musicisti con cui condivido lo spazio indipendente Superbudda. Si percepiscono una ricchezza e una generosità difficilmente monetizzabili in questi scambi. Quindi dalla relazione, da quel tipo di relazione virtuosa nasce un arricchimento dell’opera senza ricchezza in denaro e senza doverne chiedere ad altri. Questo non significa comunque che il lavoro del creativo sia “impagabile”. Quando un lavoro è stato prodotto è di fatto sottoposto a delle leggi di mercato e quelle, nel caso, desidero che vengano rispettate il più possibile. EP: Ecco arriviamo alle dolenti note. Il tuo lavoro sta trovando distribuzione, soprattutto dopo che hai vinto il premio Cappelletti, quindi dopo che c’è stato un riconoscimento ufficiale nazionale alla bontà di questo lavoro. Il lavoro riesce a girare a essere visibile? FC: No. Assolutamente no. Sto dandomi del tempo. Ho elaborato negli anni una grande pazienza. Però qui in Italia (e non parliamo nemmeno di Torino!) non c’è risposta, e quando dico che non c’è risposta è proprio in senso letterale: la cosa più faticosa e frustrante è che non c’è neanche un no. Semplicemente i direttori artistici italiani, gli operatori culturali non ti rispondono nemmeno. Quindi tu come persona, non parlo neanche come artista, proprio come persona non hai paletti. Non sai se la cosa che stai proponendo può interessare oppure no. Semplicemente non sai. Ho più risposte dall’estero. So che si premurano di guardare i video perché mi rispondono se hanno problemi a visionarli e sono sinceramente interessati al lavoro. Invece qua in Italia no. Zero... Zero. Questa situazione mi lascia perplessa ovviamente ma di fatto credo mi possa servire da ulteriore stimolo. Non credo nei luoghi della visibilità (cfr la seduzione delle vetrine per “giovani artisti” mascherate da festival …), credo piuttosto nei nuovi luoghi della visione che sono rari e preziosi e, forse, da cercare con il “lanternino”. Enrico Pastore
_IN LUCE
-Di e con: Francesca Cola suoni: Davide Tomat, Utku Tavil, Paolo Spaccamonti. -Cura dell’immagine fotografica: Enrico De Santis - Progetto Bifronte elementi di scena: BATNA, Saulo Guarnaschelli. -Produzione: VOLVON, Superbudda, Progetto Bifronte, Performa Festival (CH) evento inserito nel Progetto PerCorpi Visionari del PO Transfrontaliero Italia Svizzera 2007-2013 liberamente ispirato ad alcune immagini dell’illustratore Marco Cazzato. FRANCESCA COLA Danzatrice, Performer e Danza Movimento Terapeuta, laureata in Teatro di Ricerca con una tesi sulla percezione dello spettatore si forma nell’ambito delle arti performative con i Teatri anni Novanta. Collabora stabilmente con il teatro del Lemming dal 2002 al 2005 e con il Laboratorio Operativo Sistemi Sensibili (Luigi Coppola) dal 2005 al 2008. Approfondisce gli studi con Nicola Hümpel (Berlino), Michele Abbondanza, Caden Manson and Jemma Nelson di Big Art Group (New York), Donata D’urso (Parigi), Virgilio Sieni, Frey Faust, Benjamin Verdonk (Anversa). Segue il percorso “Piccola scuola nomade” con Leonardo Delogu-Teatro Valdoca. Nel 2008 è cofondatrice dell’Associazione Fiorile delle Arti e delle Culture che opera nell’ambito della formazione delle arti performative e dell’organizzazione culturale a livello Nazionale ed Europeo. Vincitrice nel 2008 di IFA, borsa di studio per una residenza internazionale di giovani artisti presso Inteatro Polverigi, inizia a produrre lavori personali che ottengono risultati a livello Nazionale e Internazionale (Magmart Videoart Festival, MarteLive, BitFilm Festival di Amburgo patrocinato da MTV, Quadriennale di Arti Performative di Praga, Teatro Valle Occupato di Roma, Premio Dante Cappelletti 2013). Nel 2010 fonda il gruppo VOLVON. Nel 2012 e co-fondatrice dello Spazio torinese per le arti contemporanee “Superbudda”. I suoi lavori spaziano dalla ricerca di una nuova semiotica espressiva attraverso l’utilizzo integrato del linguaggio corporeo-gestuale e l’utilizzo del mezzo elettronico per l’elaborazione di mappe sonore, con un occhio sempre attento alla percezione dello spettatore e al vissuto esperienziale della performance. Francesca Cola CONTATTI: [email protected] cell: +393491620701 www.superbudda.com |
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