SPECIALE 42° FESTIVAL MONTPELLIER DANSE
Il festival di Montpellier Danse si conferma un imprescindibile appuntamento di rilevanza internazionale. L’edizione 2022, finalmente libera dalle difficoltà della pandemia, ritorna alla sua abituale magnificenza, come sempre sotto la direzione di Jean-Paul Montanari. Come ricorda anche l’apprezzata coreografa marocchina Bouchra Ouizguen, che apre il festival con il suo Eléphant, il festival regala l’opportunità di vedere artisti affermati e internazionalmente conosciuti, ma anche scoprirne di emergenti: permette così anche ai coreografi e danzatori stessi di interrogarsi, di crescere, in un ambiente accogliente e stimolante. Estetiche diverse si incontrano in un clima di effervescenza culturale; gli spettatori sono di provenienza eterogenea, ma tutti ugualmente curiosi delle molteplici intriganti proposte, di qualità. Molte sono invero le creazioni originali appositamente prodotte per Montpellier Danse, addirittura la maggioranza degli spettacoli, e che successivamente faranno fortuna in altre città e paesi.
Ecco dunque qualche appunto sugli spettacoli visti per voi da PASSPARnous. Pontus Lidberg presenta Les Sept Péchés capitaux e Roaring Twenties. Il coreografo, danzatore e regista d’origine svedese collabora in questo caso con il Danish Dance Theatre di Copenaghen, importante compagnia di danza contemporanea danese, di cui è direttore artistico, nonché con i cantanti della Royal Danish Opera e i musicisti della Opéra Orchestre national Montpellier Occitanie. Ciò che colpisce fin dall’entrata in sala è la scenografia del balletto cantato Les Sept Péchés capitaux, frutto della collaborazione con l’artista Patrick Kinmonth e il lighting designer Mathias Hersland: una marionetta attende che gli spettatori si accomodino, disciplinatamente seduta sul palco, inquadrata in una sorta di arco luminoso che la sovrasta dal fondo. Nella prima proposta di Pontus Lindberg campeggia una teatralità portata all’eccesso e che rasenta a volte, volutamente si spera, il kitsch, e che contribuisce, nonostante la serietà dell’opera brechtiana, a sottolinearne gli aspetti comici, evitando, anche se per poco, il rischio di emulare una sorta di musical un po’ trash. La seconda sembra meno definita, si ritrovano alcuni elementi, anche scenografici, della prima - tra cui delle sedie tipo cabaret o di bauschiana memoria e di cui ci si chiedono le reali ragioni di esistere -, ma risulta riuscito l’aspetto globalmente dinamico, che contribuisce a far emergere un sentimento di vitalità, represso dalla angosciante situazione degli anni ‘20, i nostri. Sottilmente inquietante – ma soprattutto poetica e impegnata – è anche la creazione del coreografo brasiliano Marcelo Evelin, Uirapuru, dal nome di un leggendario uccello brasiliano, cantore della foresta, che diviene qui immaginifico promotore di resistenza contro chi la foresta vuole distruggerla – e non solo quella. Frutta e verdura infilzate in una sorta di ombrello/albero appeso da un lato della scena, un grappolo di riflettori sospeso dall’altra, sono due elementi scenici imponenti, sotto i quali si svolge una danza estremamente ripetitiva che conduce a una sorta di ipnosi del pubblico, in un epilogo sonoro di Danilo Carvalho che rimanda al canto incantatore del mitico volatile. L’apparente semplicità di questo spettacolo ne permette una fruizione inerme, e in tal modo si radica in profondità nel sentire degli spettatori, che dopo alcuni giorni sostengono di subire ancora l’effetto del componimento creato da Evelin e dai suoi collaboratori. Passi ancestrali ritmano regolarmente il divenire, si combinano e ricombinano, senza sosta, disegnando una trama di relazioni tra i danzatori, a volte accompagnati da sguardi o parole, a volte in un silenzio di ineluttabile complicità, evidenziando rapporti ora semplici ora complessi, indice di interazioni tanto naturali quanto necessarie. E come sostiene Nacera Belaza - di cui non ci è stato purtroppo possibile gustare le proposte coreografiche, ma relativamente alla quale aleggiavano ovunque commenti positivi da parte degli spettatori, a conferma della serietà e autenticità del suo sempre molto interessante e personalissimo lavoro di ricerca - c’è una gran differenza tra dare allo spettatore quello che vuole, che già si aspetta, e invece avere il coraggio di prendere il rischio di non venire magari subito compresi, domandando uno sforzo allo spettatore al fine di portarlo altrove, rispetto a quello che chiede.
Ben altro canto è protagonista in Act II&III or The Unexpected Return Of Heaven And Earth di Emanuel Gat. Si tratta infatti della Tosca - registrazione del 1965 con interpretazione della Callas – che accompagna i danzatori in un’esperienza nuova per il coreografo israeliano, sia per quanto riguarda l’utilizzo della nudità sia per quanto riguarda il rapporto con l’Opera. Percepita come “musica popolare” essa si fa accogliente superficie su cui Emanuel Gat iscrive il suo modo di pensare la danza, che lascia grande libertà ai danzatori: si innesca così una interessante relazione dialogica tra il capolavoro pucciniano e la dinamica del movimento, spesso, ma non sempre, in contrappunto. La nudità, che intende essere una sfida, si palesa dunque come una necessità e non come una mera provocazione, benché possa risultare di difficile accettazione l’effetto di straniamento, per coloro che comprendono e conoscono il testo del libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. Il coreografo cura con grande attenzione anche l’utilizzo delle luci - che squarciano abilmente il nero -, e il risultato complessivo è evidentemente più minimalista rispetto al recente LOVETRAIN2020, spesso qualificato come barocco, a riprova che Emanuel Gat riesce, pur mantenendo uno stile riconoscibile nei suoi fondamenti e principi, a proporre lavori molto diversi.
E decisamente differenti tra loro sono anche i due spettacoli proposti da Robyn Orlin In a corner the sky surrenders…unplugging archival journeys…#1 (for Nadia) e we wear our wheels with pride and slap your streets with color… we said “bonjour” to satan in 1820. Dei due il primo riveste un particolare interesse per l’interpretazione da parte della danzatrice ivoriana Nadia Beugré di questa opera creata dalla coreografa sudafricana nel 1994. Ironica, provocatrice, intensa, straziante, seducente. Il rapporto con gli oggetti è qui parte fondamentale dell’azione performativa: primo tra tutti il cartone di un elettrodomestico, che rimanda a quelli utilizzati dai barboni, con cui viene creato dalla danzatrice un nuovo spazio - che si fa casa, quartiere, illuminato da luci da lettura che si fanno lampade, lampioni - quindi i vestiti, un trenino elettrico, la preziosa, sacra e folta chioma della Beugré, etc. La carismatica artista si appropria dello spettacolo interpretandolo in modo personale ma benché riesca ad affrontare temi seri in maniera leggera, la performance termina con una, non troppo efficace, presa di parola politica della danzatrice. Impegno politico che è presente anche nel secondo spettacolo proposto dalla Orlin, in una maniera che appare un po’ forzata, con un riferimento critico ai risciò di epoca coloniale, ma che si disperde in un trionfo di colori, costumi, musica, canto, ed effetti speciali grazie anche alla videocamera posta sul palco che riproietta il tutto in diretta: una parte del pubblico esulta allegramente come se si trattasse di un evento vacanziero organizzato dal Club Med, l’altra non sapendo cosa pensare si gode l’impegnativa, fantasiosa spettacolarità, sul presupposto che la coreografa sia degna di fiducia.
Trionfo assoluto e senza margini di dubbio, invece, per 2019, di Ohad Naharin e la Batsheva Dance Company. Lo spettacolo più atteso del Festival, si conferma semplicemente incredibile. Una passerella - dalle molteplici possibili letture - separa il pubblico posizionato specularmente, e si fa luogo di incontro di tante perfette diversità, quelle dei danzatori, un campione di un’umanità dal potere straordinario. Le musiche - tra cui anche alcuni brani tradizionali e di origine israeliana dove la guerra è tragicamente presente - accompagnano il movimento, che è capitale di energia gestita in modo impeccabile: ne risulta una vitalità prodigiosamente dinamica e al contempo drammatica, una sensualità e forza non comuni, miste a una fragilità imminente, con cui lo spettatore è chiamato a confrontarsi personalmente, in modo quasi imbarazzante, nell’incontro di sguardi con i danzatori, molto vicini al pubblico, o addirittura nel forzato contatto con gli stessi. L’insieme permette quindi di coniugare il piacere estetico dell’eccezionale bravura degli artisti e del capolavoro coreografico, con una dimensione umana e profondamente emozionante. Impossibile assistere imperturbati a questo spettacolo.
Tra tradizione e attualità si situa Sacrificing while lost in salted earth di Hooman Sharifi, coreografo e danzatore iraniano installato in Norvegia. Su ispirazione de Le sacre du printemps di Stravinsky, il tema del sacrificio si riversa in un rituale individuale e collettivo. Sacrificio e dono sono propri alla cultura iraniana e toccano tanto ciascun individuo che la collettività nel suo insieme: i danzatori, tutti iraniani - tra cui il coreografo stesso - e la musica meravigliosamente suonata in scena con strumenti tradizionali, si fanno tramite di una spiritualità che va oltre le frontiere, raccontando di una doppia cultura, una traduzione, anche nel senso etimologico del termine. Le sorgenti di luce sono interlocutori attivi di un dialogo efficace. Le azioni, quali battute di uno spartito a più voci, espressione di una intima individualità, si assomigliano, si diversificano, si moltiplicano, si riprendono, tra riflessione, gioia, rabbia, sacralità, eterno ritorno, risuonano all’unisono negli scarti dell’interpretazione, in un’offerta al pubblico toccante, vibrante.
Commovente è anche il tributo a Raimund Hoghe offerto tramite An evening with Raimund, dai danzatori con cui ha lavorato - tra cui la splendida Ornella Balestra – che ripropongono movimenti e atmosfere provenienti dai suoi spettacoli, tra cui l’ultimo: ci si aspetta di vedere uscire dalle quinte, da un momento, all’altro il coreografo tedesco. La sua presenza nello spirito è viva e consolante tanto quanto greve e malinconica la sua assenza, che rende lo spettacolo un agrodolce omaggio. E in occasione dell’inaugurazione della piazza Raimund Hogue, non a caso situata di fronte alla nuova Cité des Arts - Conservatoire à Rayonnement Régional di Montpellier, è proprio Jean-Paul Montanari a celebrare con affetto e stima sinceri, questo straordinario artista da poco scomparso.
Sempre nel segno della memoria, questa volta dell’indimenticabile Dominique Bagouet, figura fondamentale per la danza contemporanea francese e Montpellier Danse in particolare, è Necesito, pièce pour Grenade sua opera famosa, eseguita in modo fresco ed elegante dai giovani interpreti del Dominique Bagouet Ensemble Chorégraphique CNSMD de Paris, sotto l’abile guida della coreografa Rita Cioffi.
Un riferimento, seppur recondito, ai grandi maestri, è presente anche nel lavoro del coreografo e ricercatore Noé Soulier First Memory, in cui l’approccio al movimento vorrebbe essergli proprio e nel contempo iscriversi nel solco tracciato dai coreografi che hanno fatto la storia della danza: un lavoro sul gesto quotidiano per riscoprirlo nella sua imperfezione o incompletezza, che interroga la nozione di attualità e novità. I giovani danzatori, vestiti con toni che vanno dal bianco al nero, su tappeto bianco, operano il questionamento interagendo - tra salti, sbuffi, soffi, cadute, come in un contesto di esagitata esercitazione - con un dispositivo scenico costituito da pareti mobili che costruiscono e decostruiscono in continuazione le geometrie spaziali.
Un racconto autobiografico, tra teatro e danza, è invece proposto da Muriel Boulay, in Danseuse. Tra oggetti simbolici ed evocativi, video e brevi dimostrazioni di danza, la celebre danzatrice, oggi sessantanovenne, narra con ironia momenti salienti della sua storia personale tra successi e difficoltà, ma anche, quasi didatticamente, della storia della danza in Francia. Non risulta però un resoconto nostalgico che chiude un percorso, anzi: una breve improvvisazione di danza da parte della danzatrice alla fine dello spettacolo, è sufficiente a dimostrare quanto quest’artista abbia ancora da dire, e, quale gustoso assaggio, dà voglia di poter presto approfittare della sua presenza in scena in un prossimo spettacolo di danza contemporanea.
In una riflessione sulla storia e la memoria, tra passato, presente e futuro, si inserisce anche il lavoro della sempre sorprendente Estzer Salomon, che qui turba il pubblico con il delicato e intenso Monument 0.7:M/Others, grazie a un momento di danza condivisa con sua madre, già danzatrice, anche se non di danza contemporanea. Due corpi, due donne vestite di nero su una superficie bianca, madre e figlia, lentamente esplorano vari tipi di relazione: speculari, di opposizione, di complicità, facendosi una il prolungamento dell’altra. Figure scultoree michelangiolesche o duttile materia da modellare, esse mostrano inesauribili possibilità di contatto e reazione, grazie a un ascolto reciproco, in un divenire che viene costruito in quello specifico momento, che non pretende l’infallibilità - “composition it’s not there, it’s going to be there” dice la coreografa ungherese durante lo spettacolo – e che anzi si fa apertura a infinite configurazioni possibili.
E una certa libertà nella creazione si trova anche in Empire of Flora di Michèle Murray. Quanto conta l’ispirazione pittorica in una creazione? La questione in merito al fatto che gli spettatori debbano sapere o conoscere i riferimenti alla base di uno spettacolo è sempre attuale e certamente controversa. Certo è che in questo caso non è necessario sapere se la coreografa ha tratto ispirazione dalle omonime opere di Twombly et Nicolas Poussin: lo spettacolo risulta elegante, aereo, e teso tra momenti di cunninghamiana memoria e libero arbitrio. Sono i quattro danzatori che inventano il vocabolario; a volte si riconosce un tacito accordo, un andare insieme, e a volte un’esplosione di indipendente leggerezza. La coreografa sostiene che potrebbero danzare su un’altra musica rispetto a quella scelta, ma il ruolo di Lolita Montana, protagonista del dj set, in scena girata di spalle, è decisamente fondamentale per lo spettacolo, così come ragguardevoli sono le luci ideate da Catherine Noden, apprezzata light designer.
Interessante anche il lavoro sulla luce in On earth I’m done : Mountains/Islands di Jefta van Dinther/Cullberg. La prima delle due proposte, creata in collaborazione con Suelem de Oliveira da Silva, è interpretata dalla superba danzatrice Agnieszka Sjökvist Dlugoszewska, che, quasi eroina da fumetto dalle movenze tanto feline quanto circensi, in uno spazio futurista, illuminata da densi fasci di luce, si destreggia tra le pieghe evolutive di una rossa stoffa evocativa e, indisturbata sovrana del microfono, canta e recita un testo in inglese, impegnato e provocatorio. Nella seconda parte, decisamente troppo lunga, una decina di danzatori, quali membri di una comunità allo sbaraglio, vanno alla scoperta di sé stessi e dell’Altro, ma l’animalesco volge al ridicolo e l’atmosfera ricorda una parodia di qualche vecchio film di fantascienza, malgrado la qualità della musica di David Kiers. Del resto è evidente che la musica è una presenza importante in questo festival, come testimoniato anche dalla presenza di spettacoli quali Stéréo di Philippe Decouflé, It’s in your head (C’est dans ta tête) di Pol Pi & Solistenensemble Kaleidoskop.
Varie e numerose sono le altre stimolanti attività – lezioni di danza, film, documentari, incontri, ecc. – organizzate a latere del festival e gradite dal vasto pubblico, che anche quest’anno ha premiato la ricchezza della programmazione, a riprova della rilevanza internazionale del Festival Montpellier Danse, apprezzatissimo in questa 42a edizione, grazie anche alla sempre efficientissima equipe, che ringraziamo – salutando in particolare Gisèle Depuccio, figura storica di Montpellier Danse che lascia il suo incarico di direttrice aggiunta. E restiamo in trepidante attesa di scoprire cosa ci riserverà la 43a edizione… Sara Maddalena
42ème Festival Montpellier Danse 17 juin - 3 juillet 2022
Chorégraphes Bouchra Ouizguen // Philippe Decouflé // Pontus Lidberg // Marcelo Evelin // Robyn Orlin // Emanuel Gat // Pol Pi // Ohad Naharin // Hooman Sharifi // Eszter Salamon // Raimund Hoghe // Noé Soulier // Nacera Belaza // Michèle Murray // Amandine Beyer // Muriel Boulay // Jefta van Dinther // Dominique Bagouet // David Wampach // Anne Lopez // Sylvain Huc // GUID – Ballet Preljocaj https://www.montpellierdanse.com/wp-content/uploads/FMD22_programme-3.pdf Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Caterina Perrone, Francesco Panizzo. |
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