A più di un anno dal debutto, la tournée dell’ultimo spettacolo di Davide Enia continua e, se l’eco dei premi vinti farà il suo dovere, le date de L’abisso certamente aumenteranno ancora: questo spettacolo sugli sbarchi degli immigrati a Lampedusa è vincitore del Premio Ubu nella categoria “miglior testo o nuovo progetto drammaturgico” e il Premio Maschere del Teatro ha conferito a Enia il titolo di “miglior interprete di monologo”.
Del resto l’attore-autore palermitano non è certo nuovo ai riconoscimenti: già nel 2003 l’Ubu aveva notato il suo spettacolo di esordio, Italia-Brasile 3 a 2, che gli valse il premio speciale “per la nascita di un nuovo cantastorie”. L’anno dopo, invece, con Scanna, si aggiudicò il Premio Riccione per autori under 30. E già prima che L’abisso prendesse forma e premi, il racconto della difficile visita a Lampedusa da parte di Davide Enia era stato apprezzato in forma di romanzo dalla critica letteraria che gli ha assegnato il Premio Mondello: è infatti dal suo stesso romanzo Appunti per un naufragio, edito da Sellerio, che Enia ha tratto L’abisso. La critica italiana, teatrale e letteraria, sembra unanime nell’apprezzare il lavoro e il valore di questo artista e in particolar modo dell’ultima sua opera, che in effetti si confronta con un tema che oggi appare urgente e necessario. L’abisso è uno spettacolo di narrazione che si serve a tratti della tecnica del cunto siciliano, ma non si limita alla narrazione di fatti di cronaca, è una sorta di diario di viaggio teatrale: seguiamo l’attore-autore nella discesa verso l’isola siciliana, verso l’abisso; ci accompagnano le persone che lo hanno accompagnato, il padre in primis; incontriamo con Enia le persone che Enia ha incontrato, sentiamo i loro racconti, vediamo gli sbarchi dal loro punto di vista. La parcellizzazione dei punti di vista, dunque, è l’espediente a cui fa ricorso Enia per rendere meno prevedibile un racconto che, nei suoi tratti generali, abbiamo ascoltato più volte da giornalisti, reporter, politici. Eppure i momenti più toccanti de L’abisso sono proprio quelli in cui l’attore-autore e i suoi comprimari si fanno da parte e la narrazione, libera da autocompiacimento e tentazioni autoreferenziali, si concentra su di loro, sui migranti, sulle loro testimonianze, passando così dal generico al particolare, dal già sentito all’inimitabile sofferenza e storia di ogni essere umano costretto a migrare, dalla retorica – che finisce sempre per essere, se non consolatoria, autoassolutoria: finisce cioè col mette chi parla, e chi aderisce alla sua narrazione, sul piedistallo dei giusti – all’esperienza. A ben vedere, quindi, l’operazione ritenuta urgente e necessaria, è forse più urgente che necessaria: comprensibile e indiscutibile è l’urgenza che spinge Enia a voler vedere da vicino una realtà che è già finita in molte narrazioni e quindi è come incrostata da molti filtri; meno evidente è la necessità di una nuova narrazione di questa esperienza, soprattutto se i destinatari privilegiati della narrazione sono persone ideologicamente vicine all’autore del racconto e che con lui probabilmente condividono, oltre alle idee politiche, l’urgenza di un’esperienza diretta, non filtrata. Bruna Monaco
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