SPECIALE FESTIVAL MONTPELLIER DANSE
Articolo di Sara Maddalena
Il Festival di Montpellier Danse, quest’anno alla sua 39a edizione, si conferma essere non soltanto uno dei più importanti festival di danza d’Europa ma anche sempre molto apprezzato dagli spettatori: il centenario della nascita di Merce Cunningham è uno dei temi principali, ma la ricchezza e la qualità delle proposte soddisfano un pubblico eterogeneo. |
Apre il Festival Christian Rizzo con une maison. Lo spettacolo proposto dal coreografo, direttore del’ICI-Centro Coreografico Nazionale di Montpellier e coprodotto da Printemps des Comédiens vede protagonista un gioco architetturale, una scenografia monumentale che non è in contrasto con la delicatezza e la profondità delle emozioni che la danza evoca grazie proprio allo speciale spazio di azione. Una casa senza mura abitata da relazioni, e dal tempo - passato, doloroso anche, ma costitutivo del presente - sovrastata da un dispositivo luminoso: un corpo, contenitore di parti che è a sua volta oggetto semantico che si costruisce grazie agli elementi che lo compongono. Il flusso del movimento intende rivelare sempre diversi aspetti del visibile e del non visibile e delle loro possibili interazioni, così come i quattordici danzatori evidenziano diversi stati e drammaturgie, tra solitudine, molteplicità e comunitarismo, permettendo una visione delle controforme prodotte, dei gesti fantasma. L’utilizzo della terra evoca la possibilità tanto di edificare quanto di sotterrare, sottolineando ritualmente il ciclo e la funzione di trasformazione, verso un futuro di coabitazione di varie forme.
Decisamente diverso, colorato e provocatorio, This Bridge Called My Ass di Michel Guttierez. Il titolo proviene da un libro, This Bridge Called My Back, un’antologia femminista pubblicata negli anni ‘80. Guttierez è infatti sensibile ai temi sulla sessualità, il femminismo, le teorie queer - che ritiene ancora estremamente attuali - ed è attivamente impegnato nello sviluppo politico di queste questioni. La sua proposta coreografica è volutamente destabilizzante, ironica. I sei danzatori, tra cui il coreografo stesso, si muovono nello spazio scenico delimitato dal pubblico sui quattro lati, inizialmente mettendo a posto il cospicuo materiale presente in scena, e ripetendo delle frasi quasi scioglilingua a canone. Fondamentale risulta immediatamente il rapporto con la materia - tessuti, cavi, vestiti, computer - che si fa poi amplesso, mimato dagli artisti. La ricerca del contatto, l’atto sessuale tra danzatori in posizioni scomode o con oggetti non immaginati per questo, creano ostacolo e comicità. Il tutto resta sempre dinamico, ognuno è occupato in un’altra attività, in un processo senza soluzione di continuità. Anche la luce è parziale, la musica frammentaria, sovrapposta. Il ruolo dello spettatore è quello di voyeur ma nel contempo è lui stesso guardato dagli altri mentre interagisce necessariamente con i danzatori. Poi la scena cambia completamente e, passando per un momento di apparente ordine, lascia spazio a una sorta di parodia di telenovela sudamericana - di cui vengono messi in risalto l’assurdità, il ridicolo e l’avanguardia intrinseca che può contenere - per finire con l’adorazione totemica di una pulciosa cagna universale. Elegante e intenso The Falling Stardust di Amala Dianor, coreografo di origine senegalese che ha precedentemente lavorato come interprete e collaborato con Emanuel Gat, da cui dice di aver preso la nozione di scelta. Il monito ai suoi danzatori è dunque: fate la vostra scelta e assumetene le responsabilità. In questa sua proposta per nove danzatori di cui la maggior parte provenienti dalla danza classica, Amala Dianor privilegia la questione del mettersi in pericolo, creare la resistenza, per riuscire ad andare oltre i limiti imposti, distruggere gli schemi e ottenere il risultato desiderato e una nuova solida struttura. La danza contemporanea, infatti, come lui stesso ricorda, permette a qualsiasi corpo, anche con difficoltà, di esprimersi - a differenza della danza classica in cui ci sono dei severi codici da rispettare - e poiché il danzatore è prima di tutto una persona che danza, “l’umano” non deve essere cancellato, anzi. I danzatori, vestiti di nero, intraprendono quindi la loro lotta che li porterà a disgregarsi, unirsi, affrontarsi, riscoprirsi, riunirsi e tornare a comporre quell’unico magma che li contiene tutti, accompagnati dalla musica di Awir Léon. Decisamente teatrale e sorprendente invece lo spettacolo in scena all’Opera Corum grazie alla collaborazione tra il Ballet de l’Opéra de Lyon e Peeping Tom, Gabriela Carrizo & Franck Chartier: 31 rue Vandenbranden. Il lavoro, creato dieci anni fa, torna sulle scene avvalendosi della tecnica dei danzatori del Ballet de l’Opéra de Lyon che a loro volta si appropriano di un nuovo linguaggio tra teatro e acrobazia circense. In scena due specie di bungalow - di cui a volte si percepisce l’interno - sullo sfondo delle cime di montagne, sul suolo neve. Seguire la trama non è importante, forse è proprio impossibile, del resto si è coinvolti dall’azione, dall’interazione dei personaggi in scena, che cattura l’attenzione per tutta la durata dello spettacolo grazie alla danza certo, ma soprattutto alla costante tensione e a giochi alienanti di apparizioni-sparizioni, colpi di scena, effetti speciali, acrobazie. Non mancano citazioni cinematografiche e musiche che vanno da Casta Diva a Shine On You Crazy Diamonds. I personaggi di questa piccola comunità montana ben rappresentano uno spaccato della società tra umanità, violenza, crudeltà, amore, sofferenza, divertimento, inquietudine, ma un po’come in certi romanzi di DeLillo, una quotidianità terribile che contiene anche elementi magici. Un’intera giornata viene poi dedicata a Merce Cunningham con un programma ricco di incontri, film, spettacoli intorno alla vita e all’opera del coreografo americano, magnificamente celebrato. Tra questi Not a moment too soon di Trevor Carlson & Ferran Carvajal, uno spettacolo al limite del didattico in cui tramite un misto di racconto, videoarte, musica, performance, proiezioni, Trevor Carlson, amico e collaboratore di Cunningham, racconta gli ultimi anni della vita dell’artista e il proprio ruolo nell’accompagnarlo verso la fine. Anche Chance, Space & Time di Ashley Chen riprende il processo di creazione del sistema Cage-Cunningham, fornendo un omaggio non intaccato dalla polvere corrosiva del tempo o di un’autocelebrazione, ma vivo e ricco di energia. Ashley Chen, ex danzatore della Merce Cunningham Dance Company, accompagnato da Philip Connaughton e Cheryl Therrien, in onore ai principi di aleatorietà enunciati da Cunningham, organizza uno spettacolo chiaro e fruibile. Una molteplicità di ripetizioni e sessioni, in cui danza, musica e luci sono indipendenti e i gesti sinceri, quotidiani, a volte comici, sono identificabili, e appartengono a corpi normali di cui la fatica è resa evidente. Assolutamente perfetti invece Summerspace e Exchange celeberrime creazioni di Merce Cunningham riproposte dal Ballet de l’Opéra de Lyon con interpretazione magistrale. Una magnifica occasione per godere del genio di Cunningham e di coloro che collaborarono con lui. Summerspace del 1958, leggero, aereo, con la piacevolezza di un giorno d’estate di cui Rauschenberg aveva firmato la scenografia, i costumi, e Feldman la musica, e Exchange del 1978 che esprime piuttosto un contesto urbano e la cui scenografie e costumi erano stati disegnati da Jasper Johns. Pure la Stephen Petronio Company presenta un’opera di Merce Cunningham Tread (1970) - dilettevole e dall’ampio e rapido movimento con una particolare complessa interazione tra i danzatori, che il pubblico intravede attraverso una fila di dieci ventilatori rivolti verso gli spettatori, così come voluto da Bruce Nauman - oltre al polemico Trio A With Flags (1966-1970) di Yvonne Rainer, famoso per il desacralizzante uso della bandiera americana al collo di due danzatori nudi, quindi Goldberg Variations di Steve Paxton (1986) del repertorio post-moderno newyorkese con un particolare lavoro sul corpo, per finire con American Landscapes recente creazione dello stesso Stephen Petronio, con cui attraverso il movimento intende raccontare la storia sua e del suo paese, gli Stati Uniti. Si cambia completamente di registro con Camille Boitel & Sève Bernard e il loro 間 (ma, aïda…), tra danza e circo. Il titolo richiama la nozione di intervallo, di durata, quel tempo sospeso che insieme alla scena è protagonista dello spettacolo. Dei tentativi di incontro tra un uomo e una donna sono ostacolati dal crollo di tutto ciò che è intorno a loro o da condizioni che ostacolano la comunicazione e il ritrovarsi. Divertenti flash di vita di coppia, in stile slapstick, complici i titoli che annunciano la scena tipici del cinema muto; quasi un cartone animato in cui tutto si distrugge eppure si continua imperterriti tra rumori di cose che si rompono, presenze che sbucano da tutte le parti, sempre nuove sorprese. Nella lotta tra l’umano e la materia, è la materia che vince. Il pubblico è divertito e ammirativo per la bravura degli artisti e per l’enorme lavoro di costruzione e ricostruzione della scena che lo spettacolo richiede a ogni replica. Mistico e ancestrale invece The Quiet di Jefta van Dinther. Fin dall’inizio l’atmosfera è trascendente, fatta di una penombra che schiarendosi rivela lentamente cinque figure femminili che camminano nello spazio vestite in varie gradazioni di bianco, e una struttura metallica, che crea una prospettiva obliqua. La sacralità del luogo, il dentro e il fuori, sono centrali nello spettacolo. I movimenti incerti, quasi sofferti, ripetuti, contribuiscono alla dimensione di ritualità, con cui le danzatrici costruiscono/decostruiscono con metodo una sorta di tappeto, con grandi piastrelle che sembrano pezzi di un puzzle. Una luce rossa proveniente dal suolo evoca tanto l’inferno quanto poi un fuoco intorno a cui raccogliersi e sciogliersi in un canto. I cambiamenti nella luce - efficace protagonista di questo lavoro - generano paura, stupore o violenza, amplificati dalla musica. Il gruppo/comunità lavora quindi insieme in un’ulteriore costruzione/tenda di cui profitta - sempre rimarcando che c’è chi rimane fuori ma viene poi reintegrato. Registrazioni di voci, in inglese, si inseriscono nello spettacolo, quali frammenti di antiche tradizioni orali o parola di veritas del sapiente adorato in quel momento, che sia coach di vita o divinità, ma non deus ex machina, perché tra direzioni e orazioni condivise, è un continuo fare e disfare che non ottiene risposta. Un successo sicuro quello di Winterreise di Angelin Preljocaj creato per il Teatro della Scala di Milano sull’omonima composizione di Franz Schubert. I ventiquattro lieder magistralmente cantati da Thomas Tatzl e suonati da James Vaughan non sono necessariamente legati alla danza, che non vuole essere narrativa ma permettere l’emozione attraverso la possibilità di godere della musica e del testo, e trasportati da essi, nel contempo meravigliarsi nel subire le scelte coreografiche, spesso volutamente contrastanti e stupefacenti. Malgrado il romanticismo intrinseco di Winterreise e a parte delle scelte - per esempio l’utilizzo di certi costumi e oggetti – decisamente eccentriche, la coreografia contiene, prevedibilmente, elementi neoclassici, e un’organizzazione estremamente razionale e ordinata dello spazio, delle tensioni, dei gesti, delle dinamiche, dei periodi. Angelin Preljocaj ha peraltro presentato al festival un altro spettacolo, Soul Kitchen, in cui le danzatrici sono delle donne carcerate. Una sfida per il grande coreografo che ha voluto portare la danza in un altro ambito. Il titolo e la coreografia contengono un esplicito riferimento alla cucina, perché in carcere la perdita non è solo della libertà ma anche dei sensi: i rumori, i sapori, non sono più gli stessi, sono limitati e spesso sgradevoli. Attraverso la danza, e la relativa necessaria disciplina, queste donne si riappropriano del loro corpo e dei sensi, e regalano al pubblico un bel momento di danza e di entusiasmo per un lavoro ben fatto: un’esperienza che può cambiare lo sguardo di alcune persone nei confronti di quelle donne carcerate, divenute danzatrici al Festival di Montpellier Danse. Un progetto coraggioso quello di Preljocaj ma del resto come lui stesso sostiene, riferendosi alla costante fiducia accordatagli dal direttore del festival Jean-Paul Montanari, la fedeltà permette la complicità e la complicità permette l’audacia. Attento all’umanità e alla sofferenza è anche Mithkal Alzghair con We are not going back che affronta il dramma dei migranti per mezzo di una coreografia tanto semplice quanto efficace. Cinque i danzatori, tra cui il coreografo di origine siriana. Due uomini e tre donne si muovono lentamente nello spazio come trasportati da un’onda, dal vento, dagli eventi, soggetti a un flusso che li trasporta, tra rassegnazione e speranza. Sono uniti dalla situazione, ma rimangono fermi nella loro individualità tranne nei momenti in cui la cooperazione diventa fondamentale per la sopravvivenza e si formano alleanze, che poi si disperdono nella quiete. Tutti i gesti hanno una provenienza e raccontano una storia, ma accennata, muta e purtroppo pronta a ripetersi. Estasiante e giustamente apprezzato da un pubblico incantato A Quiet Evening of Dance di William Forsythe. Grazie ai bravissimi danzatori di cui Forsythe si circonda, il meglio della storia della danza è condensato nei loro movimenti, arrivando sino all’hip-hop. Una tranquilla serata di danza, che non sarà per niente tale, inizia con il rilassante canto degli uccelli, poi nel silenzio totale la coreografia risalta, e il movimento diventa protagonista assoluto; nella seconda parte la musica ritroverà il suo spazio senza per questo toglierlo alla danza. I corpi - con braccia e gambe in evidenza grazia ai guanti e ai colori scelti - si piegano e si aprono, si costruiscono e decostruiscono, si sviluppano fluidamente in continua risonanza, con una precisione e una rapidità che sembrano seguire o creare una partitura tesa a schiudersi in una fiorita combinazione di possibilità. Il riferimento di Forsythe al proprio lavoro di coreografo come a quello di un bambino che scopre la possibilità di giocare con le cose, di smontarle e rimontarle è manifesto nei risultati, così come l’importanza di Laban per l’analisi del movimento e quel linguaggio visuale che ha illuminato la sua pratica dall’interno. Certo è che al di là di ogni caratterizzazione questo spettacolo è un allegro concentrato di danza ed entusiasticamente meraviglioso. Completamente diverso ma molto apprezzato MONUMENT 0.5: The Valeska Gert Monument di Estzer Salamon & Boglàrka Börcsök. Un lavoro sull’arte, la vita di Valeska Gert, artista ebrea tedesca attiva come danzatrice all’inizio del Novecento, nell’epoca dei Cabaret di Berlino, del Dadaismo, di Eisenstein; una straordinaria artista geniale e innovativa e ingiustamente troppo spesso dimenticata - in Italia ricordata più per la sua apparizione in “Giulietta Degli Spiriti” di Federico Fellini, che per il suo lavoro sovversivo. Estzer Salamon ribadisce a questo proposito la responsabilità degli artisti nel trasmettere la memoria, e del resto lei lo fa da tempo nel migliore dei modi, con serietà e inventiva. Il modo di portare la storia della Gert nel presente avviene in seguito allo studio della sua vita e delle sue opere, certo, ma non tramite delle mere ricostruzioni delle sue coreografie, di cui peraltro ben poco è arrivato sino a noi, bensì delle performance create con vari mezzi, con la libertà di creazione da Valeska Gert tanto amata. In scena inizialmente campeggia una sorta di scala bianca che ricorda appunto certe scenografie russe della prima metà del Novecento, il trucco è esagerato, le posture anche, le espressioni tra il grottesco e l’espressionista. Le due artiste svolgono un eccezionale lavoro sulla voce – inserendo anche suoni gutturali, canzoni, letture -, e sul corpo - che sia manipolato o esposto – calibrando in modo perfetto gli elementi storici, quelli artistici, poetici, e le provocazioni sessuali o politiche rivolte al pubblico, mantenendo un ritmo che non annoia mai gli spettatori anzi li attiva. Il succedersi senza mediazione di soave e insolente, di dolce e di crudele, è del resto una prerogativa della danzatrice tedesca che così donava forma a uno stimolante disequilibrio. Uno spettacolo eclettico, polemico, rivoluzionario, perfettamente gestito con grande maestria dalle due artiste ungheresi, nello spirito di Valeska Gert. Anche Anne Collod propone una riflessione storica e politica in Moving Alternatives, partendo dagli inizi del ‘900 per arrivare ad affrontare piuttosto temi di grande attualità; il punto nodale è la figura di Ruth Saint-Denis e il ruolo da questa assunto, insieme a Ted Shawn, nella costruzione della storia della danza - e in particolare della danza moderna negli Stati Uniti - anche attraverso l’interesse per le danze dell’Asia. La riproduzione rielaborata di alcuni pezzi di ispirazione indiana da parte dei sei danzatori/coreografi innesca quindi una riflessione su questioni relative ad “appropriazione culturale” e “genere”, che sfocia in una sorta di conferenza dibattito recitata, tra sogni raccontati e brani danzati, a volte intensi ed evocatori, a volte saporitamente comici e dissacranti. Un’occasione per rispolverare la storia della danza e interrogarsi sulle problematiche afferenti la reinterpretazione delle opere. Ancora diversa la proposta della coreografa e performer canadese Dana Michel, CUTLASS Spring, che affronta la questione dell’identità attraverso uno spettacolo che permetta una evoluzione interna e che costituisca quindi una sfida da superare. La questione dei diversi modi di vedere ed essere visti è presente fin dall’inizio quando gli spettatori entrano nella sala e devono scegliere dove sedersi rispetto a una serie di file di sedie poste nel centro della scena: davanti come un oratore, dietro come quelli dell’ultima fila, di fianco, per esserci e seguire tutto ma discretamente? La Michel lavora quindi sulla materia; sul corpo, sulla voce, e sulle loro possibili metamorfosi. In scena a gambe incrociate su una pila di asciugamani posti su una sorta di carrello l’artista sviluppa la performance tra suoni, grugniti, una forchetta e un microfono intercambiabili, l’accumulo compulsivo e quasi infantile di materiale, oggetti elettronici obsoleti, cubetti di ghiaccio; gesti appannaggio del maschilismo, gesti di sottomissione di genere e/o di razza. Simboli e codici da rompere, rielaborare, su cui meditare. Il Festival chiude con un trionfo assoluto: Les six concertos brandebourgeois di Anne Teresa De Keersmaeker & Amandine Beyer. Musica e danza sono in dialogo continuo. I musicisti e i danzatori anche e a volte si sorridono con complicità. La danza riprende elementi musicali trasformandoli in movimento, come una linea di basso su cui esce un assolo; spesso durante lo spettacolo bisogna decidere chi seguire, quale musicista, quale danzatore. Bach permette una gioiosa celebrazione della vita e il pubblico è talmente lieto che applaude anche la persona incaricata di tenere un cartello che annuncia il concerto e pure l’entrata in scena di un cane, bianco e nero, i colori del palco e degli abiti dei sedici danzatori. Una camminata apre lo spettacolo, quasi una marcia, poi, riprendendo un’immagine usata dalla violinista che dirige anche l’ensemble barocco B’Rock, lo spartito e la danza come delle foglie di tè gettate nell’acqua si aprono al pubblico, creando una sorta di frattale non definibile in un pattern non rigidamente geometrico. Anche questa edizione del Festival di Montpellier Danse, prezioso ponte tra passato e futuro, riesce a contemperare le aspirazioni artistiche più esigenti con le richieste del pubblico, sotto la direzione di Jean-Paul Montanari e grazie anche al sempre eccellente staff che lo accompagna, che si distingue per efficienza e disponibilità. Grandi sono le aspettative per il prossimo Festival, il 40°, che sicuramente non deluderà. Sara Maddalena
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Francesco Panizzo. |
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