Ho finalmente visto Anelante di Rezza/Mastrella, alla 46ma edizione della Biennale Teatro di Venezia. La fusione Rezza/Mastrella vince il Leone d’oro alla carriera e per l’occasione porta in scena uno spettacolo che recensire diventa difficile dopo tutto quanto è stato scritto finora in riferimento. Le motivazioni della premiazione a Venezia sono così riassunte dal direttore Antonio Latella: «Rezza fonde totalmente, in un solo corpo, le due distinzioni di attore e performer, distinzioni che grazie a lui perdono ogni barriera». La tematica di tutta la Biennale Teatro si basa su questa distinzione eppure Rezza prende sempre le distanze quando lo si vuole definire un attore preferendo senza alcun rimedio non calarsi nei personaggi e negli stati d’animo tipici dell’attore e optando per la figura del performer quando si voglia definire la sua professione.
Ma cosa si può ancora dire su Anelante dopo che sono state scritte pagine e pagine dalla prima uscita di questa creatura così dichiaratamente e intenzionalmente autoreferenziale? Così ci pensi e capisci che Anelante è proprio il duo che finalmente viene esaltato e, dopo tanti anni passati ad anelare il riconoscimento dovuto, ecco che finalmente arriva uno dei più importanti plausi ‘istituzionali’. Meritato e obbligatorio! Come dicevamo, difficile poter dire ancora qualcosa su questa performance, ma parlare di Anelante è, appunto, un po’come parlare dell’esistenza in toto di questo sorprendente duo artistico. Ecco che allora, si potrebbero scrivere tesi di laurea sulla loro produzione artistica. Io non mi potrò che limitare a fare qualche volo attorno agli stimoli che il loro operato immancabilmente produce in ogni suo spettatore. Andrea Pocosgnich della testata TeC Teatro e Critica scrive che “Rezza è sempre pronto a darsi in pasto al pubblico”, da una parte ha ragione, ma aggiungo e credo però, che sia più il pubblico ad andare in pasto al performer. Rezza è antagonista del pubblico, e allo stesso tempo un eroe senza fondamento, eroe di un portamento stilistico ma non delle azioni che mette in scena, epiche o umili che siano. Seguo la coppia dai tempi di Delitto sul Po (2002) ma di strada, già dal loro esordio, si può dire ne abbiano fatta tanta! Prima di bypassare l’avanspettacolo e il Cabaret al quale il suo umore scenico pare proprio bere a gran sete, Rezza performa dicotomie interiori e quelle date dai propri stati d’animo per denunciarne più in generale l’esistenziale limite umano e da questo provocare una risata amara o denunciatrice di uno stato di imbarazzo soggettivo/collettivo per chi la esprime. Il Pantalone e lo Zanni che sviscerano dalle sue macchiette ricche di maschere, le quali, come lui dice: “maschere che cadono dal cielo, incrociate per caso nello spazio scenico” (complice la ricerca di esautorazione di sé da parte della non-scenografa Flavia Mastrella, anch’essa performer per la scenografia), ‘anelano’ a tematiche che riguardano l’umano, l’animale sociale patologico che oscilla fra il grottesco/banale e portano al monito intellettuale dalle e per le coscienze collettive e soggettive. Ricordo che già in una messa in scena di Fotofinish al Teatro Out Off di Milano nel 2005, quando lo vidi la prima volta, tra le cose più fortemente percepibili dalla presenza scenica di Rezza spiccava quella sua capacità di mangiarsi il pubblico di tutta la sala e in modo esemplare. Rezza il mattatore, il provocatore, il diseur, il danseur, tanto per riprendere Petrolini, una fonte da cui Rezza beve senza però compromettersi con il fare “il fine dicitore, il cantante aristocratico”, mantenendo però “il ridere, ridere, ridere” del Petrolini gastoniano, “il 3 ore di buon umore”, poiché, come lui stesso afferma: “quando lo spettatore ride io mi ricarico”. Autrice amara nel Gastone e in altri suoi personaggi, la malinconia che traspira da Petrolini, è un attacco al dandismo che ricordiamo in quel famoso “[…] è finita qui, è irrimediabilmente finita qui” dopo una battuta volutamente vuota sulle zanzare, una forma di denuncia del futile che s’intra legge in quella affermazione di Rezza quando ci dice: “Il ridere è il risultato di una malinconia inguaribile”. È la risata dell’impiccato al quale il teatro di Rezza porge la corda. “È un teatro pessimista?”, viene chiesto a Flavia Mastrella in una nostra intervista: “Sì, è drammatico. È un dramma proprio. È talmente drammatico che fa ridere. Attacca il quotidiano. I drammi quotidiani diventano mastodontici e così diventano buffi.” È come quando in Pitecus fa il verso a Beckett, alla sua attesa di quel Godot che non arriva: “Che facciamo? Aspettiamo!”, se ne resta con un’espressione “divertente” ma in un prolungato silenzio mentre la gente già ride per l’attesa della battuta che crede arriverà, lì, Rezza caterpillar, lancia il suo monito allo spettatore: “Voi non potete capire che accoltellata che è per me capire che questo pezzo funziona!”. “Autore, interprete del suo repertorio, creatore”, ancora continuando a blandire il Gastone petroliniano; Rezza parla dell’autorialità dell’artista, cita concetti brillanti sul fatto che “non si può dare arte se non quella autoreferenziale, solo chi fa teatro per sé può fare teatro per gli altri”, dirà in video dove leggerà l’incipit di Van Gog il suicidato della società di Antonin Artaud. Gli spettacoli di Rezza/Mastrella o meglio dire, le loro performance, vogliono demistificare quel mondo intellettuale intriso di superba presenza, puzza, oserei dire, proprio perché questi intellettuali odierni sono stizzosi quando è ora di sporcarsi le mani. “È che viviamo in un periodo dove non ci sono intellettuali che si sporcano le mani con la demistificazione, perché è una scelta molto impopolare. Lui preferisce dirvi che non sa niente di Artaud, che ha tutti i suoi libri ma che non li legge, che sono belli e che si fida di chi li ha scritti e chi li ha letti, ma in realtà non è così. Rezza è da poco intervenuto in una raccolta di saggi proprio su Artaud dal titolo L’insorto del corpo, dove dimostra, invece, grande dimestichezza con la lezione del maestro francese; non a caso i paralleli fra i due sono piuttosto copiosi. All’inizio di Anelante lo si vede fare conti improbabili scrivendo calcoli sul pavimento con un gessetto, le parole sembrano lasciare spazio ai numeri come accade in 7-14-21-28 un altro spettacolo presentato qui alla Biennale, mentre conta, e come fosse una serie di numeri inserisce una battuta spesso ribadita: “presa in tempo era curabile, ma presa in tempo però!”. Si riferisce al proprio delirio (o a quello dell’intera sala spettatrice?) ma fa ridere, ancora, nonostante tutto, tutta la verità, Rezza/Mastrella , il duo “giullare artaudiano” fa davvero ridere, ahinoi! Francesco Panizzo
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