Alla Biennale Teatro 2018 va in scena Clément Layes con un ciclo di lavori dedicati agli oggetti, al nostro modo di rapportarsi con loro, sul predominio che prendono sulla nostra vita.
La Biennale Teatro 2018 guidata da Antonio Latella propone di Clément Layes un ciclo di quattro lavori: Allege (2010), Things that surround us (2012), Dreamed apparatus (2014) e Title (2015). Durante la mia permanenza a Venezia, ho potuto vedere solo i primi due e ne sono rimasto entusiasta per la capacità di riflettere sul mondo che ci circonda con l’azione e l’uso degli oggetti. Una riflessione che travalica la rappresentazione, la rompe, la sventra direi e ne estrae succhi preziosissimi in salsa tragicomica. In Allege Clément Layes mette in scena un performer, Vincent Weber, con alcune bottiglie piene d’acqua, un secchio, un innaffiatoio, un tavolo, alcuni bicchierini di vetro, una piantina, un bollitore, una lavagnetta con gessetti, uno straccio. E poi c’è una canzone di David Byrne diffusa quando serve all’azione. Il performer entra in scena in tuta da lavoro, testa china su cui in è in equilibrio un bicchierino di vetro. Dal momento che entra in scena il performer inizia a progettare dei sistemi per compiere delle strane procedure che sembrano mirare a un risultato che per il momento rimane oscuro. Le procedure paiono non funzionare, o semplicemente assolvono allo scopo e poi vengono sostituite da altre procedure sempre più complesse. Ogni tanto il performer verifica il suo progetto. Luci a pioggia e concentrate sostituiscono il piazzato diffuso, David Byrne canta. A verifica ultimata, si passa a un’ulteriore prassi progettuale. Niente viene detto. Nessuna parola. Solo un fare che sembra avere uno scopo occulto, anche se è più probabile che sia completamente arbitrario. O forse sono gli oggetti a comandare il processo? Niente è certo. Infine il performer prende la parola. Assegna a ogni oggetto un significato o, meglio, abbina concetto a oggetto. L’acqua è l’energia, il tavolo è il teatro, la lavagnetta l’organizzazione, l’acqua sparsa l’oceano, le luci a pioggia l’attenzione e così via. Il performer comincia ora a snocciolare possibili combinazioni e interazioni tra oggetti e concetti. Ne potrebbe nascere una filosofia. Tutto è totalmente arbitrario. Non è la logica a guidare il percorso di permutazione, solo la possibilità. Si gioca con ironia sulla rappresentazione, il significato, il simbolismo e il rapporto tra uomo e oggetto. Quest’ultimo è un vero e proprio attore. Parla perché svincolato a una funzione che lo determina. È liberato e può finalmente dire la sua in maniera indipendente. In Things that surround us Clément Layes mette in scena tre performer (Vincent Weber, Felix Marchand, Ante Pavic) circondati da oggetti allo sfascio. Un tavolino che si rompe di continuo, una bottiglia bucata che perde polvere, una sedia malmessa che finirà per rompersi definitivamente. I performer nominano gli oggetti in quattro lingue diverse: a bottle, ein flasche, une bouteille, una bottiglia. I performer girano in tondo frenetici. Quando tutto pare ridotto uno sfascio e portato via, inizia una nuova fase. Sotto le sedie del pubblico c’è una mascherina per chi dovesse essere allergico alla polvere. Sabbie di vari colori vengono sparse da grandi spazzoloni a formare un immenso maelstrom, un gorgo che appare e scompare e porta tutto via con sé: monete, bottiglie di plastica, sassolini, grani etc. Tutto ruota, appare e scompare. Appaiono spazzoloni sempre più grandi man mano che gli oggetti si accumulano. Come al circo, come nelle comiche di Buster Keaton. Un lavoro, quasi da catena di montaggio dove ognuno ripete i gesti e le azioni in un cerchio senza fine né scopo, quasi un gioco serissimo e tragico che sa di clownerie. Tutto scorre, passa, quasi un mandala tibetano di sabbia che giunto al compimento viene spazzato via, impermanente e fuggitivo. La danza di Siva che crea e distrugge i mondi, gli oggetti e i concetti. Cerchi colorati pieni di oggetti appaiono, sussistono per un poco di tempo e poi vengono scopati via per ripartire con un nuovo ciclo. La vita degli oggetti che dopo l’uso vengono abbandonati, distrutti, riciclati. Ma è anche il ciclo dell’eterno ritorno dell’eguale dove non solo le cose vengono risucchiate, ma le persone, le vite, interi universi. Kantor, uno che la sapeva lunga sugli oggetti, quelli della realtà dal rango più basso, relitti e negletti, diceva che il teatro parla sempre della morte. È quest’ultima che grava su tutta la performance di Clément Layes, ma in maniera lieve, quasi sorridente. Vi è un tocco surrealista, di gioco, tragicomico. Un sorriso che termina con un brivido lungo la schiena. È ozioso porsi il problema se questo forma sia teatro o performance. È qualcos’altro, una nuova creatura ibrida formatasi da più innesti: l’agire performativo con la clownerie, con il teatro di Kantor, ma anche quell’uso degli oggetti che contraddistingue il lavoro di François Tanguy e il Theatre du Radeau (ricordo che François raccomandava agli attori di far passare l’aria tra le cose perché parlassero e non rappresentassero). Quello che è sicuro è che siamo fuori dalla rappresentazione e dal simbolismo anche se si usano degli stilemi e delle pratiche appartenenti a questi mondi. Siamo oltre, siamo anche al di là del voler dire qualcosa, esporre una tesi. Siamo di fronte a un’esperienza che ognuno vive e ne trae le conseguenze per sé. È una prassi del pensiero in azione che ci fa riflettere a nostra volta. Ne usciamo trasformati non perché acquisiamo una conoscenza, ma perché la modalità performativa di Clément Layes ci pone delle domande che in qualche modo buffo e gentile ci obbligano a ragionare, a prendere posizione, a guardarsi allo specchio. Enrico Pastore
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