SPECIALE INEQUILIBRIO:
Articolo di Enrico Pastore
Carmelo Alù, vincitore del progetto Davanti al pubblico 2018 organizzato dal Teatro Metastasio di Prato, mette in scena, nella Sala del Camino del Castello Pasquini di Castiglioncello, Cani Morti del drammaturgo norvegese Jon Fosse.
Un ragazzo è seduto al tavolo. Non esce mai. La madre gli chiede dove sia il cane. Non è tornato. Nessuno lo va a cercare. Manca anche il caffè. La madre esce a comprarlo dopo un ultimo tentativo di smuovere il figlio. Si susseguono le visite: un amico, la sorella con il marito. Da un’unica finestra sul mondo tutti scrutano a turno ciò che avviene dalla finestra. Il cane non torna. I dialoghi sono spossanti. Tutti ripetono in circolo le stesse frasi banali, inconcluse e inconcludenti. Non si va da nessuna parte. Non si dice niente di importante. Il cane viene trovato morto. È stato il vicino. Forse per sbaglio. Si scava la fossa in giardino e tutti la contemplano dalla finestra. Anche il vicino viene trovato morto. Lo portano via in ambulanza. Non sveliamo il finale anche se non è un giallo quello di cui stiamo parlando. Manteniamo il mistero senza commettere il peccato di spoiler. Quello che importa è la forma di un uragano che si forma dal nulla di dialoghi senza via d’uscita e da piccole azioni di per sé non così connotate dal marchio della violenza. Il cane è il fulcro. Scomparso dalla scena perché mai vi è salito eppure nella sua assenza è protagonista. Tutto in qualche modo è già successo. Non avviene in scena. Quest’ultima ospita le cause non gli effetti. L’assenza del cane è già morte. Non ci si aspetta niente di buono e questo antivedere grava come un macigno d’angoscia. Si sa che qualcosa succederà e non sarà un lieto fine. Si scivola verso un abisso tra un buongiorno e un buonasera. Senza quasi accorgersene. Non ci sono dei che stabiliscono un destino. Non è Ananke che muove la sua ruota inesorabile. Sono le banalità. Il piccolo sasso che provoca una valanga. Carmelo Alù mete in scena questo meccanismo con semplicità francescana. Solo un tavolo e tre sedie identiche se non per il colore a quelle di Bidibidobidiboo di Cattelan. Già in questo c’è un richiamo alla morte. Un proiettore da 5000w su uno stativo è la finestra sul mondo. Le sue bandiere le persiane. Luce gialla di un sole malato e cadente. Gli attori sono intensi in questo testo non facile all’interpretazione. I personaggi sono tutti scialbi e incolori. Le loro parole vane e vacue. Nelle sfumature si accoccola il demonio e sono quelle a essere difficilissime. Quindi complimenti a Alessandra Bedino, Domenico Macrì, Emanuele Linfatti, Caterina Fornaciai, Daniele Paoloni. La regia di Carmelo Alù non è quindi nel movimento e nella spazialità ma nel saper far emergere dalle piccole crepe del linguaggio l’angoscia e la violenza. Il teatro che ci propone Carmelo Alù è un teatro di rappresentazione e interpretazione da un testo letterario. Lo fa molto bene con dei bravi attori. Trovo sempre una punta di delusione quando non vedo il teatro parlare la sua propria lingua, quel teatro che non necessita della letteratura per esprimersi, o dove la letteratura è solo uno dei tanti materiali di una composizione, e non posso che prendere atto di un ritorno prepotente delle tradizionali rappresentazioni. Carmelo Alù mette in scena un testo da lui tradotto, lo fa molto bene all’interno di una solida tradizione di teatro rappresentativo. Carmelo Alù, come molti altri giovani italiani, sceglie di affidarsi al testo e alla letteratura per far scaturire il teatro. Lo vediamo in moltissimi casi dagli esiti migliori (pensiamo a Macbettu) a quelli più deficitari. Bisognerebbe indagare il perché di un abbandono di un teatro che cerca nella letteratura e non nel mondo il motore del suo agire, non nella composizione, nel movimento, nell’uso degli oggetti la sua lingua senza parole, o dove le parole sono semplice elemento. Forse è la certezza di essere in qualche modo comprensibili, forse l’ossessione a raggiungere quanto più pubblico possibile, o forse solo un amore verso la drammaturgia teatrale. Non riesco a darmi una risposta anche se si rafforza in me la convinzione che sia la danza, forse, la vera erede della composizione scenica. E di questo forse bisognerebbe interrogarsi. Enrico Pastore
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