scrivere di Macbettu di Alessandro Serra, il 17 e 18 giugno in cartellone al Festival delle Colline Torinesi può sembrare un compito facile. Macbettu è uno spettacolo riuscito sotto tutti i punti di vista e questo aldilà dei gusti teatrali e delle posizioni estetico/critiche.
Ma questa supposta semplicità nasconde molte insidie. Innanzitutto quella di non trasformare la recensione in un’ennesima lode al Macbettu, che sarebbe inutile quanto ridondante. Mi sono chiesto se non fosse meglio stare zitti. In seconda battuta scrivere una recensione non è compilare una pagella. Deve essere un discorso utile al pensiero sulla scena al di là del gusto personale. Mi piace pensare che una recensione sia talvolta simile a una diagnosi medica. Si interroga il corpo vivo del teatro cercando i sintomi non tanto di una malattia, ma di uno sviluppo, una mutazione genetica, una trasformazione. Macbettu è muto. Non dà segnali in questo senso. Pare come un corpo estraneo in quello presente del teatro. Ha un che di antico, profondo nella notte dei tempi, più che essere genesi di qualcosa di contemporaneo e attuale. Parla una lingua ancestrale e non mi riferisco al sardo. Intendo proprio una lingua vicina all’origine del mondo, quando le voci della natura erano quelle degli dei. In questo senso il lavoro di Alessandro Serra è inattuale. Tutto in Macbettu richiama le forze ctonie, telluriche, titaniche. È un qualcosa di dimenticato, appartenente più al rito antico, dimenticato perché sepolto dalle dinamiche familiari, dai drammi psicologici e interiori, il salotto borghese, la camera da letto, la scatola cranica come luogo del delitto. Macbettu parla di altro, così come la tragedia diShakespeare di cui in fondo è traduzione. Macbettu parla degli elementi che scuotono le fondamenta dell’essere e ne mettono in crisi la solidità. Alessandro Serra ha portato Macbeth in Sardegna, l’ha trasformato in Macbettu iniettandogli il sangue antico dell’isola: i suoi suoni, gli oggetti, i materiali, tutti richiamo alla terra e alle sue forze. I suoni innanzitutto sono segno potente. Fin dall’inizio. Quella di una lamiera scossa e percossa nel buio, onda di suono che avanza e ti investe a ancora non è successo nulla. Il pane carasau che si sgretola sotto le scarpe del fantasma di Banquo, ossa sgretolate, crosta dell’essere, scheletro del mondo. Le pietre sonore, il grufolio dei porci, lo stridere delle unghie sul ferro, i campanacci. Sono le forze della terra, i suoni dell’anima nera che s’agita sotto il velo di civiltà che abbiamo creato per nasconderla. Gli oggetti di scena: le pietre, cuscino dei pastori e dei briganti, di chi deve avere il sonno leggero, di chi ha ucciso il sonno. Il sughero delle maschere, semplici cortecce che sembrano facce di demoni, il bosco di Birgham che avanza verso il Macbettu che è dentro di noi. Ma se Macbettu fosse solo un viaggio etnografico o antropologico sarebbe poco più di un esperimento riuscito di applicazione di scienze umane al teatro. Alessandro Serra riesce a recuperare, grazie all’anima sarda antica e profonda, lo spirito ancestrale del teatro come rito che esorcizza le forze oscure, le rende visibili e osservabili, conoscibili. Restano incontrollabili ma per un momento le guardiamo negli occhi e conosciamo qualcosa di più di noi stessi. Le luci, fioche, mai abbaglianti, quasi sempre piogge, contro luci, tagli bassi, sagomatori che ritagliano isole luminose nelle tenebre che incombono. La scena spoglia, in povertà elisabettiana, risalta l’oggetto di scena mai insignificante o trascurato, il gesto si staglia, ogni segno diventa alfabeto oscuro e magico, perfino la polvere che si innalza da terra. Alessandro Serra riesce a restituire lo spirito primigenio contenuto nella tragedia di Shakespeare, serpente perfido che si annida nelle nebbie di Scozia così come nelle assolate pietre della tragedia greca. In Sardegna per un poco si risveglia, torna alla vita, mostra il suo volto antico e potente. Se si può trarre un insegnamento da questa operazione Macbettu è che, forse, si può riscoprire dietro la maschera del teatro di rappresentazione, una ricerca rivitalizzante dove il testo non è pretesto ma spunto di indagine per riscoprire l’anima antica del teatro, quella sciamanica, rituale, evocativa. I personaggi e le storie non sono qualcosa da interpretare, un fare finta di essere qualcos’altro, quanto un dar vita a delle forze, un agire magico e oscuro che risveglia demoni antichi sepolti sotto la corazza della civiltà. Alessandro Serra credo faccia proprio questo. Non ambienta in Sardegna una tragedia scozzese, l’isola non è mera tappezzeria, non è recupero di un esotismo che abbondava nell’Ottocento e nel primo Novecento, è luogo altro, misterioso, dove ogni cosa può accadere. Macbettu per ora è una meteora nel panorama teatrale italiano. Un filone di ricerca per ora unico che non deve dare adito a ingiustificati ottimismi. La situazione della ricerca teatrale italiana rimane desolante. Possiamo rallegrarci che nonostante tutto sia apparsa questa cometa che in qualche modo indica una via di non mera soggiacenza al testo scritto, quanto un darle corpo con l’anima potente del teatro. Una scena che non è comizio, né frutto dell’ansia di comunicare, di dar voce a istanze personali, quanto un luogo in cui evocare forze misteriose che si agitano nel cuore di ognuno di noi. Una scena che non si banalizza per piacere alle moltitudini, e diventa forte perché parla la sua lingua, utilizza i suoi mezzi e le sue potenzialità. Enrico Pastore
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