La prima volta che vidi Roberto Zucco fu alla Biennale del 1995 per la regia di Lluis Pasqual alle Corderie dell’Arsenale. Ci andai perché ricordavo, seppur vagamente, quell’uomo sul tetto del carcere di Treviso. Su Youtube si trovano ancora stralci di filmati di repertorio della Rai. Mi incuriosiva la sua storia.
Mi innamorai di quel testo impregnato di solitudine, intriso di contagio e di peste, una corsa verso l’abisso, un viaggio di sola andata. Roberto Succo, il serial killer dagli occhi di ghiaccio per tutti noto come Roberto Zucco, proprio grazie al testo di Koltes, suo ultimo prima della morte del 1989, diventa una figura mitica, un terremoto che scuote le fondamenta della civiltà e diffonde intorno a sé una gragnola di domande urgenti. La vicenda di Roberto Succo si sviluppa dal 1981, anno in cui uccise i due genitori, fino al 1988 quando si suicidò nel carcere di Vicenza soffocandosi con un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas butano. In mezzo l’ospedale psichiatrico, la fuga, la Francia e la Svizzera, gli omicidi (ben 5!), gli stupri, l’arresto e il nuovo tentativo di fuga con la conferenza improvvisata sul tetto. La società normale cercò di archiviare la vita di Succo sotto definizioni da medicina psichiatrica: schizofrenia paranoide. Tutto qui? Gli artisti non si sono accontentati e il cherubino nero è diventato Roberto Zucco, una figura su cui continuare a riflettere (oltre al testo di Koltes messo in scena da grandi registi negli ultimi trentanni da Peter Stein ad Andrea Adriatico, ne è stato tratto un film in concorso a Cannes nel 2001). Koltes con Roberto Zucco ha scritto un testo per il teatro densamente poetico, lirico, sublime e tremendo come dovrebbe essere una tragedia. Qualcuno si sarà accorto che non ho ancora cominciato a parlare dell’allestimento di Licia Lanera. Non c’è molto da dire. Tutto il materiale che riguarda questa vicenda, e non parlo solo del testo, rimane sepolto sotto una coltre di macchiette, faccette, smorfiette, nudi inutili, tautologie ancora più inutili (esempio: al riferimento testuale sui rinoceronti mettere in scena un rinoceronte a grandezza naturale è solo ridondante e non aggiunge nulla, e questo è solo l’esempio più evidente ma se ne potrebbero fare tanti altri), balletti e musichette. Mentre guardavo lo spettacolo continuava a tornarmi in mente la scena della locura in Boris, quando gli sceneggiatori spiegano a Renè Ferretti cosa necessita Occhi del Cuore per sfondare: la locura appunto. E cos’è? :”la tradizione ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di pazzia, di colore, di paillettes”. Un testo e un materiale straordinari ed esplosivi disinnescati da una semplificazione banale e scioccamente caricaturale per sembrare giovani e pop quando invece si tratta di un allestimento del tutto conforme ai canoni tradizionali di una rappresentazione interpretativa. Facciamo finta di essere moderni solo perché ci infiliamo qualche bella immagine mischiata col trash, Jeff Buckley e Jannacci. Non c’è molto altro da dire. Come dice lo sceneggiatore in Boris: “un’immagine di un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Roberto Zucco poteva e meritava di essere qualcos’altro. Enrico Pastore
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