Sabato 2 e domenica 3 alla Fondazione Merz in scena al Festival delle Colline Torinesi Giulio Cesare, pezzi staccati di Romeo Castellucci. Non si tratta del remake o di una riproposta dello storico spettacolo del 1997 ma piuttosto di una serie di frammenti o, meglio, di pensieri e riflessioni su un tema che ancora è spina nel cuore o osso in gola che non riesce a essere digerito.
Il teatro di Romeo Castellucci è da sempre un teatro filosofico, un atto del pensiero che indaga la realtà attraverso i mezzi propri del teatro. Il modello letterario è quindi squartato, dilaniato, dissezionato per andare al di là e al di dentro, verso il cuore pulsante. Non è interpretazione né attualizzazione di Shakespeare, ma riflessione in azione su nuclei di pensiero attuali, resi incandescenti dal presente. Nel nostro tempo di tribuni della plebe che vogliono uccidere il potere per conquistare il potere, a essere indagata è la retorica e la parola nella sua meccanica, nel suo funzionamento a cercare le cause della sua efficacia. Romeo Castellucci estrapola una serie di immagini dallo spettacolo originario, in particolare tre momenti (la prima scena del ciabattino, i monologhi di Cesare e di Marco Antonio) in cui si esplica il potere della parola e della retorica. Nella prima scena l’attore, nominato …vskij, inserisce un endoscopio dal naso fino alle corde vocali proiettate sulla parete. La parola si fa carne, vibrazione di corde vocali, pozzo buio viscoso di saliva e di umori. La meccanica del suono, la sua carnalità sporca, al di là dei significati, delle loro altezze o bassezze infiammate. Solo un cavo, carni tremule, boli salivari che scivolano sulle carni rosee. Il monologo di Cesare, un vecchio tremulo, una deambulazione incerta e frale. I cui gesti sprigionano un fragore come di tuono. Solo gesti, quasi linguaggio di muto, e un suono senza significato. Cesare avvolto in un manto rosso che presto diventa sacca di cadavere, rimosso dalla scena. Infine Marco Antonio che pronuncia l’orazione funebre. L’attore è laringectomizzato, emette il suo discorso con vibrazioni gravi, telluriche quasi incomprensibili. Si parla attraverso una ferita e una menomazione dall’alto di un pulpito su cui è scritta la parola Ars. Marco Antonio con una spugna greve di sangue sporca la sua bocca e le sue mani. L’assassinio avviene non tramite il coltello ma con le parole, protagoniste seppur assenti o menomate. Quella di Romeo Castellucci è dunque una riflessione sul potere della parola mediante un linguaggio altro e più complesso, quello della scena e del teatro, che parla tramite immagini, movimento, ritmi, e parole fatte suono. Ma in quanto linguaggio anche il teatro è retorica, anch’esso è contagiato dalla volontà di essere efficace, di raggiungere i cuori e le anime, e quindi arma e non gioco. Anche il teatro non è innocente. In qualche modo arringa, seppur con altri mezzi. Ma è ancora efficace? Questa riflessione giunge proprio dopo la presentazione della Trilogia dell’identità di Liv Ferracchiati, dalla quale emerge proprio il sacrificio del teatro al fine di far emergere chiaro e diretto come una freccia, il messaggio e la questione dell’identità. Non è forse appunto una forma di retorica? E nel nostro presente politico non siamo tutti presi al laccio della retorica dei tribuni da social network? In fondo quello di Romeo Castellucci è un teatro che si è sempre mostrato come un’eccellente forma di oratoria scenica. Le immagini forti, ammantate di fulgida e inquietante bellezza gelida (pensiamo allo splendido cavallo nero che attraversa la scena bianca e sul corpo dipinto e iscritto). Immagini armi, taglienti come un bisturi, che sgranano un discorso. Immagini non tanto atte ad evocare quanto a indicare. Non siamo nel mondo di Kantor dove ciò che si vede apre le strade per dei mondi imprevisti e per ognuno unici, quanto più a indicare un percorso di pensiero che enuncia una tesi e la dimostra. Con Romeo Castellucci siamo nel più fine mondo del simbolico, dove tutto è rispecchiamento e corrispondenza. Le immagini significano qualcosa di preciso, enunciano e proclamano. Nel teatro c’è anche un’altra via, quella degli oracoli, le cui parole possono dire tutto e niente. Non è il discorso o il significato che importa, ma la modalità, l’accezione, l’intruglio evocativo degli elementi. Un balbettio insignificante che apre la via a tutti i significati possibili. Enrico Pastore
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