DAVIDE CARNEVALI:
Ieri sera alle Lavanderie a Vapore è andato in scena per il Festival delle Colline Torinesi Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali nell’allestimento prodotto da LAB121 per la regia di Claudio Autelli.
Cominciamo dai dati di fatto: Davide Carnevali è uno dei drammaturghi più interessanti del panorama europeo. Fortunatamente il suo talento è riuscito a emergere, e questo è avvenuto di più in e grazie all’Europa. Ritratto di donna araba che guarda il mare è un testo teatrale premiato a Riccione nel 2013. Davide Carnevali racconta, in dieci frammenti, l’incontro o, per meglio dire, il mancato incontro tra due civiltà. In una città senza nome, in un mondo mussulmano non veramente identificato (non è Medio Oriente, la popolazione non è propriamente araba, saremmo quindi tentati di dire Nord Africa, ma non è così importante), un uomo senza nome, con una professione non veramente precisata tra il lecito e l’illecito, europeo ma non turista, incontra lo sguardo di una donna del luogo, giovane, forse bella, forse libera (lei almeno dice di esserlo ma possiamo veramente crederle?), proveniente da una famiglia di larghe vedute. La storia raccontata da Davide Carnevali appare fin dalle prime battute, sfuggente, in qualche modo sfocata. Non si riesce a trattenere dati certi se non che i due protagonisti appartengono a due culture distanti. Perfino la lingua da loro parlata è detta diversa ma percepita dallo spettatore come identica. In qualche modo siamo in un universo simile seppur diverso da quello dei racconti di Camus. L’incontro sulla spiaggia, alle porte della città vecchia, seppur banale, produce una serie di conseguenze. L’uomo si invaghisce della donna che a sua volta subisce il fascino della conquista. I due cominciano a frequentarsi seppur in un continuo fraintendimento. Lui, con il passare del tempo, perde interesse, in lei invece si questo si rafforza. Il tutto lentamente scivola fino a giungere a una tragedia annunciata. Oltre alla donna e all’uomo, un fratello minore e uno maggiore della donna. Non sappiamo se la parola fratello sia intesa in senso ampio oppure induca a pensare a veri e stretti legami personali. Entrambi sono motori della tragedia. Le loro azioni e le loro parole, anch’esse sfuggenti, causano e conducono all’evento tragico finale. L’interesse per il testo di Davide Carnevali non è nella vicenda, quanto nel modo e nella tecnica usata per raccontarla. Frammenti di tempo e di conversazione intervallati da un vuoto che tocca noi riempire. Personaggi ambigui. Parole enigmatiche con un significato controverso. Finale sospeso. Quello che è chiaro è una sorta di paradossale sfiducia nelle parole, nella comunicazione, nell’incontro tra persone e culture. Davide Carnevali, quasi si sgambettasse da solo, attua dei meccanismi che tramite il linguaggio palesano una sfiducia verso il linguaggio. Frammenti di conversazione passano da un personaggio all’altro, cambiando contesto e significato, slittano senza sosta, scivolano verso un abisso di incomprensione. L’incontro, che pur avviene tramite lo sguardo, si sgretola sotto il flusso delle parole. Ritratto di donna araba che guarda il mare, che fin dal titolo si sabota in quanto la donna protagonista afferma fin dalle prime battute di non essere araba, è una sorta di tragedia del linguaggio, dove quest’ultimo è già condannato dalle Moire a fallire per quanti sforzi faccia. Anche le frasi più neutre e semplici sono fraintese, le parole assumono continui nuovi significati che vengono equivocati in modalità sempre peggiorativa. Un testo teatrale, per quanto ottimamente scritto come quello di Davide Carnevali, non è il teatro. È una premessa o un auspicio. Il teatro è sempre quanto avviene sulla scena, nella carne degli attori, nello spazio/tempo del palcoscenico. Claudio Autelli, intervistato alla fine della rappresentazione dall’amica e collega Laura Bevione, ha usato più volte la parola traduzione rispetto al suo allestimento. Una regia se è una traduzione di quanto già detto dal testo sacrifica il teatro alla letteratura. Kandinskij diceva che in arte uno più uno dà somma zero. Dire due volte le stesse cose smorza e non spinge. Se il testo dice che sento il suono del mare e in sottofondo sento il rumore delle onde si raddoppia il segnale indebolendolo. La scena dovrebbe dire quello che il testo non dice. O dire altro, lavorare in contrappunto. Comporre a sua volta perché il testo è materiale come qualsiasi altro e la scena lo trasforma non lo traduce. Anche gli aspetti migliori dell’allestimento, come per esempio il plastico della città che evoca visivamente non solo il luogo senza nome ma anche le immagini dei quadri di Edward Hooper, inquadrato dalla telecamera e proiettato sul fondale, per quanto bello e suggestivo, non fa che rendere visivamente quanto il testo già dice. Si riduce la regia e la composizione scenica a semplice parafrasi del testo. Ci tengo a dire che non parlo assolutamente di interpretazione o rappresentazione. Intendo dire che la scena ha un suo specifico linguaggio che si interfaccia con il testo letterario e compone con esso qualcosa che non esiste e non è stato già detto dal testo. Il teatro come traduzione di un contenuto letterario non è interessante. Diventa solo una didascalia tra tante. Il testo di Davide Carnevali è dunque più forte della sua immagine vivente, perché quest’ultima ha rinunciato a porsi nei suoi confronti da pari a pari. Seppure negli ultimi centoventi anni si sia operata in seno al teatro una costante rivoluzione al fine di far emergere nell’arte scenica il suo specifico, permane tutt’ora il vizietto o il pregiudizio di asservirsi al testo teatrale. Tradurre un testo tramite la scena non significa per niente fargli un favore. Tutt’altro. Lo si sminuisce. Un testo complesso e sfuggente come quello di Davide Carnevali, meriterebbe un allestimento che si confrontasse con lui, che rendesse visivamente, tramite il corpo vivo dell’attore, quell’impossibile incontro di linguaggi e culture. E invece ci si è limitati a ripetere il già detto. Enrico Pastore
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