LA FAVOLA D’ORFEO:
Devo fare una confessione in apertura: ho un debole per Claudio Monteverdi. Non c’è musica che mi commuova con altrettanta costanza. Ogni nota mi tocca profondamente, ogni aria mi sommuove i sentimenti. Ogni anno vado a Cremona per il festival a lui dedicato per ascoltare le sue opere tra cui La favola d’Orfeo è tra le mie preferite.
Durante il primo atto andato in scena in questi giorni al Teatro Regio, ho ascoltato le melodie d’Orfeo con le lacrime agli occhi sovrastato da tanta dolcezza fitta di spasimi tragici. Ma abbandoniamo le emozioni e scendiamo gli scalini del tempo per tornare laddove tutto incominciò. In una lontana sera di Carnevale del 1607, in una sala di Palazzo Gonzaga a Mantova, i pochi spettatori (l’opera fu presentata per i membri della corte e dell’Accademia degli Invaghiti) poterono assistere, non dico alla nascita di un genere, ma certo a una delle sue prime e meravigliose epifanie. L’opera non era ancora chiamata tale, era ancora luogo di sperimentazione totale. Prima de La favola d’Orfeo di Monteverdi due precedenti: Emilio De’ Cavalieri romano contestò il primato a L’Euridice di Peri/Caccini/Rinuccini. Ma poco importa chi fu il primo: in quel torno di tempo che vedeva gli albori del 1600, nasceva un genere. I Gonzaga, imparentati con i Medici, poterono assistere a Euridice, andata in scena l’anno domini 1600 il 6 ottobre, per celebrare le nozze di Maria de’ Medici e Enrico IV di Francia. Ne furono ammaliati e decisero di promuovere un nuovo tentativo sullo stesso argomento. Ci misero sette anni per proporre la loro versione di ciò che sarà più tardi chiamata opera in musica. All’epoca non c’era nemmeno un nome per designare l’esperimento che contrastava con le leggi della drammaturgia che privilegiava naturalismo e unità di tempo e luogo. Un’opera interamente cantata che spaziava dai boschi traci alle profondità degli inferi era qualcosa di inaudito. Per molti questo è il motivo della scelta del soggetto. Era plausibile che il semidio cantore esercitasse il canto in ogni istante. In verità i motivi sarebbero molti a partire dal connubio amore/morte che cominciava ad affascinare gli ambienti colti nel Tardo Rinascimento. Quel che conta davvero è che principi, letterati e musicisti si diedero a sperimentare per creare un nuovo genere che coniugasse parole e musica, teatro e danza. Ed erano così consci di creare qualcosa di inedito da cercare appunto motivi che giustificassero e fondassero la scelta, e a spendere cifre inaudite per allestire e per poi stampare le partiture, cosa a dir poco insolita per quel tempo. E tralasciamo le speculazioni intorno ai due finali, quello tragico e fedele alle fonti letterarie, che vede Orfeo dilaniato dalle Baccanti; e quello con l’assunzione al cielo ad opera del padre Apollo. E a distanza di più di quattrocento anni fa leggermente sorridere la tensione dei nostri giorni verso la multimedialità delle live arts come fosse una nuova frontiera. Il confine, se mai c’è stato, è stato varcato così tante volte che non sarebbe per niente il caso di stupirsi né di promuoverlo con tanto ardore come fosse una novità. La favola d’Orfeo di Monteverdi con la sua dolcezza e freschezza melanconica colma di sperimentalismo ci guarda dalle cortine del tempo e ci dice che la scena da sempre è stata babele di linguaggi e opera d’insieme. Quella vista ieri sera, è una favola d’Orfeo, che presenta il finale in cui il semidio cantore viene consolato da Apollo e assunto ai cieli olimpici. Non proprio un happy end, più che altro una conclusione moraleggiante che non solo invita a non legarsi troppo a piaceri e dolori che tutto passa, ma anche, e questo rivolto ai principi e ai potenti, tutti falliscono pur se semidivini. Una regia quella di Alessio Pizzech che inquadra la storia tra spesse mura di legno ornato, che solo alla fine si aprono verso un altrove sterminato. Tutto avviene dunque in un interno, in uno spazio racchiuso e circoscritto, quasi a dire che le nostre affezioni, gioie e dolori, sono limitate. Troppi gli struggimenti esagerati da teatro d’opera d’altri tempi. Un sentimentalismo anacronistico che rovina la dolce e soave misura della musica e del canto. Suggestiva la ieratica e funerea teoria di personaggi in nero con bombetta nella scena della sepoltura definitiva di Euridice. Bello anche il terzo atto dove anime urlanti e scalcianti vengono caricate senza mezze misure sulla barca del demone Caronte. Più tradizionali le scene pastorali dei primi due atti. Sarà il mio amore incondizionato per Claudio Monteverdi eppure, ogni volta che assisto a una messa in scena de La favola di Orfeo, non riesco a scacciare la sensazione che il compositore di Cremona, rispetto alle moderne interpretazioni, sia ancora lui ad avere la palma dell’avanguardista sperimentatore. In qualche modo si torna sempre alla cetra, ai boschi traci, agli inferi che tutti conosciamo. Non si riesce a fuggire da un immaginario stereotipo. Solo lui, il divino Claudio, resta il grande innovatore, uno di quelli che ha creato un genere che ancora oggi affascina per la sua potenza. Enrico Pastore
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