FOLLIAR
di Astorri Tintinelli:
una mistica contemplazione del cadavere
una mistica contemplazione del cadavere
Articolo di Enrico Pastore
Due figure emergono nel piccolo deserto della scena. Una finestrella che si apre verso un altrove indefinito. Dal pertugio appaiono oggetti che apparecchiano la scena e ne definiscono lo spazio d’azione. Un cerchio mal disegnato al centro sembra essere il fulcro. Ed è in questo preciso istante, quando tutto è preparato, che i due figuri iniziano la loro commedia. Un cieco e il suo aiutante si giocano a pari o dispari l’inizio dello spettacolo.
Così inizia Folliar del duo Astorri Tintinelli. Folliar è un dispositivo scenico di profonda intelligenza che disseziona la scena con l’accuratezza e la freddezza di un chirurgo, ne estrae le misere viscere e le osserva sotto la luce della verità che è disfatta, come dice Bernhard ne La forza dell’abitudine. Folliar di Astorri Tintinelli parla di teatro e al teatro, della sua incapacità di parlare a un pubblico, della sua inefficacia dovuta al suo sfuggire all’etimo: Teatron, il luogo da cui si guarda. Cieco l’attore, cieca la finestra che si apre alta su quella parete, si intravedono solo ombre grige e nere. Si avanza a tentoni e a fallimenti, attraverso prove estenuanti che non portano a nulla, si invade zoppicanti la piccola area d’azione senza mai possederne il centro e il fulcro. Si iniziano le prove di qualcosa che non arriverà mai a compimento. Sterili divagazioni, meccanismo rotto, carillon inceppato sulle stesse piccole note. Si riprende, si rinnova una lotta che è la stessa di sempre ma non ha futuro. E si cerca invano di occupare quel centro, di arrivarci come sovrani designati. Eppure i due figuri non fanno altro che spingersi fuori uno con l’altro. Anche i genitori sono morti. Non più sepolti nei bidoni della spazzatura, non più presenti con i loro sproloqui, ma scomparsi, vanificati da un presente scollegato da un flusso storico cui, per questo, viene negato un futuro. Non resta che impiccarsi. Oppure buttarsi da un precipizio altissimo. Si avanza giù, fino in fondo, fino all’immondizia, come dice Beckett in Words and Music, e il cieco si butta, si schianta a terra, in un volo iperbolico, morte in scena da grande clown. E solo allora il cieco riacquista la vista, rivede il pubblico, trova la gioia del gioco con le persone assiepate sulle sedie, un gioco infantile con la palla, certo, ma un modo per far ripartire la giostra. E finalmente il centro è riconquistato, si è riaperto un canale e scena e platea sono finalmente e nuovamente vasi comunicanti. Come nel Bushido bisogna prima morire per essere veri guerrieri. In quel balbettio infantile c’è una rinascita, un grado zero su cui ricostruire, dopo le infinite e inutili prove alla ricerca di una perfezione che basta a se stessa. Folliar di Astorri Tintinelli dice molto del teatro di oggi, affetto molto spesso da una ricerca sterile, priva di un reale sguardo sul mondo, scollegata da una comunità pubblico con cui dovrebbe condividere la volontà di incontrarsi per riflettere. Si parla di teatro con i mezzi propri del teatro. Una drammaturgia fine e intelligente, frutto di un sapiente incastro tra Finale di Partita di Samuel Beckett con La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard. Un dispositivo scenico acuto e sagace, che trafigge il mondo spesso autoreferente di un’arte antica che ha perso, nei meandri dei sui rituali, la capacità di vedere. Tocca spazzare via tutto, rimparare a parlare o, meglio, a balbettare per tornare a cantare. In sottofondo La morte e la fanciulla di Schubert, non La trota come in Bernhard, ma il quartetto triste e sensuale che racconta dell’abbraccio erotico tra il corpo morbido e sensuale di una giovane con le scarne e fredde ossa della morte. In quel viluppo si consuma la fine di una vita che presuppone l’inizio di una nuova. Solo morendo si rinasce e si perpetua la danza di Shiva che crea e distrugge i mondi. Per rinnovarsi si deve abbracciare una morte. Folliar di Astorri Tintinelli è in scena ancora stasera al Caffé della Caduta, all’interno della rassegna Concentrica. Non perdetelo. Sarebbe un delitto. Enrico Pastore
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Francesco Panizzo. |
Intervista a
Enrico Pastore sul suo Imaginary landscapes: tale on invisible cities di Francesco Panizzo Intervista a Irene Russolillo
di Enrico Pastore Un grande particolare.
A Novi Cad con il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards di Francesco Panizzo Incontri verticali
con Jurij Alschitz di Mariella Soldo Sottrazioni -
Conferenza in commemorazione di Carmelo Bene al Caffè Letteraio Le Murate di Francesco Panizzo |
|
Vuoi diventare pubblicista presso la nostra rivista?
sottoscrivi il bando. Accedi al link dall’immagine sottostante.
sottoscrivi il bando. Accedi al link dall’immagine sottostante.
Psychodream Theater - © 2012 Tutti i
diritti riservati