TURANDOT:
l’indomato fascino dell’incompiuta di Puccini
Turandot: l’ultima opera di Puccini, quella destinata a rimaner incompiuta e, di conseguenza, ad attirare tutta la nostra attenzione, noi che come Calaf cerchiamo di risolvere il suo mistero. Puccini non fu l’unico a farsi affascinare dalla fiaba della principessa incapace d’amare. All’inizio del Ventesimo secolo la fiaba Turandot calcherà le scene di tutta Europa affascinando musicisti e registi: Max Reinhardt nel 1911 su musica del futurista Busoni, Vachtangov a Mosca nel 1922.
C’era qualcosa nel mondo della fiaba che attirava i grandi artisti agli albori del ‘900. Pensiamo a molti balletti russi di Stravinskij, a Prokofiev. Nella favola forse si cercava il mito che non si riusciva più a esprimere. Non si era più in grado di creare racconti che accogliessero in sé l’urgenza di un’epoca e di una società. Forse la Prima Guerra Mondiale aveva reso difficile concepire una forma che potesse spiegare l’immane massacro. La fiaba diventava così un luogo fuori dal tempo dove ricostruire delle immagini che si riappropriassero del reale. Turandot, la principessa del gelo, incapace d’amare, che taglia la testa a tutti i pretendenti che sono incapaci di risolvere i suoi enigmi. E quando alla fine Calaf riesce a superare l’ostacolo, Turandot non cede e crea un altro ostacolo. La morte regna su questa Cina che non è un luogo fisico ed esotico ma nemmeno immaginario, una Cina gravata dal terrore e dalla morte. Puccini rende certamente l’esotico con i mezzi a disposizione del repertorio, in fondo per fare cinese bastava usare una scala pentatonica (anche se Puccini usa strumenti più fini come la Canzone del Gelsomino che trarrà dal carillon del barone Fassini), ma il suo scopo non è riprodurre una chinoiserie quanto collocare la fiaba in un altrove che è sì riconoscibile ma nello stesso tempo sfuggente. Secondo la definizione di perturbante di Freud è qualcosa di familiare ma nello stesso tempo di estraneo ed è proprio questa discrepanza che ci crea angoscia. Non dimentichiamo che siamo nel 1924, l’Europa è appena uscita dal grande macello della guerra e ha appena superato da poco il terrore dell’epidemia di spagnola. Questa Cina di cui si parla è molto più vicina di quel che si pensi. Turandot però è anche un’assenza. E tre maschere lo dicono chiaro a Calaf: Turandot non esiste. Nel primo atto addirittura è niente più che un’ombra lontana. Ella è un simulacro come Elena di Troia, forse niente più che un’immagine. L’incapacità d’amare di Turandot, le sue cervellotiche strategie per difendersi dall’amore, sono in ognuno di noi, sono dentro i nostri cuori, e le teste che si mozzano non sono nient’altro che quelle dei nostri sentimenti. Turandot è dentro e fuori di noi, sulla scena e nella nostra anima. Ecco dunque la potenza del mito attraverso la fiaba. Ottima la scelta di interrompere l’opera sulle ultime note scritte da Puccini, appena dopo la morte e il sacrificio di Liù, evitando il finale di Alfano e quello di Berio. L’opera resta così aperta, incompiuta, e lascia a noi la facoltà di colmare come più ci piace quel vuoto. Stefano Poda, la cui opera ho già avuto modo di vedere in Leggenda di Alessandro Solbiati ispirato al Grande inquisitore di Dostoevskij, crea una gabbia a molti strati entro cui si svolge tutta la vicenda. Una prigione asettica, ospedaliera, colma di bianchi abbacinanti, con pochissimi tratti di colore, per lo più neri. Tre porte sul fondo che richiamano il tre che ricorre nell’opera (Tre enigmi, tre maschere) e che conducono e comunicano con un altrove ancora più sconosciuto e forse angusto di quello visibile. Lo spazio di questa prigione è asfittico, claustrofobico, sempre colmo di persone che si muovono lentamente, quasi senza un perché ne una destinazione. Il movimento, quasi sempre lento, fornisce un ritmo alternativo all’azione, una dimensione temporale misteriosa, evanescente, come di sogno. I personaggi sono a malapena riconoscibili in questo bianco insistito. Solo Calaf in nero si staglia, unico protagonista evidente. Turandot sfugge, come riflessa in mille immagini identiche da castello degli specchi da fiera. Calaf si aggira tra questi simulacri senza saper veramente a quale Turandot parlare. Una Turandot interessante, avvincente questa di Poda e Noseda in scena al Teatro Regio di Torino fino al 25 gennaio.. Una versione che mantiene il mistero di un’incompiuta, senza dar risposte fantasiose o consolanti. Si resta nel mondo che ha lasciato Puccini morendo, senza risposte. Una Turandot che fa riflettere a quanto saremmo disposti per amore o a difenderci dall’amore. Enrico Pastore
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