INTERVISTA AD A.C.
Andrea Cosentino:
Andrea Cosentino:
Questa interessante intervista ad Andrea Cosentino è stata fatta al Teatro della Caduta, dopo la replica di Lourdes lo scorso 18 gennaio. Ovviamente non abbiamo parlato dello spettacolo appena visto ma di Kotekino Riff, ultima fatica di Andrea, e di altri aspetti del suo teatro. Insomma come spesso succede nelle conversazioni sincere siamo andati dove non ci si aspettava.
E.P.: Cominciamo a parlare di Kotekino Riff. Che tipo intenzione si cela dietro questo spettacolo che non è uno spettacolo? Che tipo di comicità è la tua? A.C.: Kotekino Riff è ancora un esperimento. Io faccio degli spettacoli e poi degli spettacoli-esperimento, tipo Antò le momò, che vanno da nessuna parte. Sono palestre per inventare, o tentare di inventare nuovi modi di stare in scena. Kotekino Riff a tutti gli effetti non ha ancora debuttato ma è una delle cose che mi diverte di più fare adesso perché mi assumo dei rischi. Ormai a cinquant’anni ci sono cose che so di saper fare, e lo dico senza presunzione. So di saper raccontare una storia, so di poter far ridere e di emozionare con certi meccanismi. Per scoprire nuove cose diventa necessario prendersi dei rischi. Per rispondere alla tua domanda in modo che spieghi anche cosa siabKotekino Riff, ti posso dire che la mia è una comicità clownesca di colui che fallisce. Ridi perché il clown è caduto. Questo è Kotekino Riff o, per meglio dire, lo sono tutti i miei spettacoli ma in particolare Kotekino Riff: è un meccanismo di fallimento della presenza scenica. Si fallisce nello stare in scena, si fallisce nel raccontare storie, si fallisce nel rappresentare cose. È uno spettacolo che per metà è improvvisazione, vera o simulata, e che lavora sull’aspettativa negata. Kotekino Riff se ha una pretesa è quella di rendere cosciente il pubblico del bisogno di senso che ha quando assiste a un evento culturale e di come io giochi a negare questa aspettativa. È un tentativo di fare della comicità frustrante. Mi interessa che diventi, e per ora non lo è ancora totalmente, un modo per riflettere sul meccanismo di potere che si innesta quando si va in scena: tra rappresentante e rappresentato, tra chi sta in scena e il pubblico. Io ho sempre evitato di ergermi a rappresentante del mio spettatore tipo. Evito qualsiasi forma di immedesimazione in un pensiero. E.P.: Per dirla alla Carmelo Bene è la ricerca di un manque. A.C.: Se vuoi sì, anche se non virata sulla phonè quanto più sulla relazione attore-spettatore. Kotekino Riff è la cosa più estrema che posso pensare in questo momento per evitare questo rischio. Il mio tentativo è di rendermi totalmente inaffidabile. Cerco comunque di fare della comicità e quindi di far funzionare un meccanismo. Io sono un po’ contrario a quel teatro eccessivamente avanguardistico. Il mio slogan è questo: nel mio teatro cerco di lanciare il sasso senza nasconder la mano. Mi piace renderti cosciente di ciò che faccio, mentre il teatro d’avangiardia che non mi piace è quello che ti lancia direttamente la mano e tu dici: va beh, il gesto è certo molto evidente ma perché perdo un’ora del mio tempo ad assistervi? E.P: Kotekino Riff contiene molto riferimenti a un certo pensiero teatrale complesso e preciso, penso ad esempio agli accenni ad Artaud, e non solo nel monologo e nella figura del pupazzo nel finale. Mi chiedevo quindi: c’è qualcosa che tu vuoi dire ai teatranti? c’è un messaggio specifico rivolto a chi il teatro oggi lo pratica? Un modo per scuotere un ambiente? A.C.: Il monologo finale è quasi un pezzo a sé. Forse potrei dirti che per la mia cultura non posso evitare di fare dei riferimenti teatrali. Mi escono quasi spontanei. Fino a ora ho fatto Kotekino Riff cinque volte e in situazioni molto diverse, nei festival, in teatro, in casa. Ti posso dire che le volte che ha funzionato di più era proprio quanto non c’erano i teatranti o gli addetti ai lavori. Per esempio dopo lo spettacolo fatto a Kilowatt c’è stato anche chi ha scritto: questo è il solito teatro che parla di se stesso. Mentre nelle situazioni in cui nessuno sapeva chi era Artaud o non ci fosse nessuno con una particolare affezione per Leo De Berardinis, semplicemente si divertiva. E questo accade perché la situazione: io ti guardo, perché ti guardo? Perché ti devo stare a sentire? È qualcosa che riguarda tutti. Paradossalmente riguarda di più la vita dei social e la vita contemporanea che il teatro. Siamo noi teatranti che cerchiamo in ogni modo di riferire tutto a noi stessi. Certamente c’è un riferimento ma il mio tentativo è di scavalcarlo. Nel pezzo finale c’è Artaud, e per me è importante che sia Artaud, ma è un burattino che fa parte del mio armamentario da tempo immemorabile. L’avrò costruito dieci anni fa, perché mi divertiva molto essere io il doppio di Artaud. È un Artaud derisorio, che si interroga. Il pezzo finale comunque si rivolge al mondo del teatro: l’accattonaggio teatrale, il continuo chiedersi: perché sono qui? Ti commuovo? Ti commuovo perché sono finto? Ti sembro vero? Vuoi essere provocato (e questa è l’avanguardia)? Se vieni qui con l’aspettativa di essere provocato come posso io veramente provocarti? Questo modo ritrae, in maniera critica e autocritica, una certa maniera di compiacersi del nostro piccolo mondo del teatro di ricerca nei riguardi di operazioni che sono provocatorie ma solo verso chi è lì apposta per essere provocato. È un rapporto sadomaso. E poi magari arriva uno da fuori e dice: ma che è ’sta boiata? E.P.: Cos’è il teatro per te? E qual è la sua potenza peculiare? E, soprattutto, ne possiede ancora una da esercitare? A.C.: Io sono affezionato allo specifico teatrale. Non tanto a Shakespeare o Marlowe, quanto allo spettacolo dal vivo. Faremmo un bel passo avanti quando capiremo che non c’è differenza tra un atto teatrale, o performativo di performance art, o anche un concerto. Sono eventi dal vivo. Quello che dobbiamo capire eè cosa vogliamo noi da un evento live. Probabilmente molti eventi dal vivo, anche molto stupidi o molto pop, sono molto più efficaci del teatro danno allo spettatore l’idea di essere visto. Forse la cosa più preziosa che può dare il teatro è dare allo spettatore l’idea di essere compreso nello sguardo. Adesso ti dico una cosa un po’ provocatoria: quando l critico teatrale di turno scrive: ti stavi rivolgendo solo a noi addetti ai lavori, io ti rispondo che a Kilowatt c’eravate solo voi addetti ai lavori. Io come attore-autore di me stesso se ho una capacità è quella di adattarmi al pubblico che ho di fronte e quindi sì mi stavo rivolgendo agli addetti ai lavori ma perché solo quelli avevo di fronte. E io parlo con chi c’è lì, in quel momento, davanti a me, non con uno spettatore tipo. Il teatro è una modalità, – e detta come la sto dicendo sembra un concetto astratto ma non lo è -, che si adatta e si trasforma nel momento in cui si compie ed è questa la sua grande potenza. Non è un’opera ma un processo che si fa nuovo ogni volta. Poi per me di base vige questo principio: che il teatro è meglio farlo che guardarlo, per cui cerco di far sì che tu spettatore faccia lo spettacolo insieme a me, che diventi anche tu parte del processo di messa in scena. Quando si sale in scena ci si deve prendere un rischio e questo rischio è il buco in cui si può inserire lo spettatore per essere insieme a te. Devi essere tu insieme allo spettatore a fare l’opera. Non devi far vedere una cosa già fatta allo spettatore. E.P.: Ora ti faccio una domanda di sistema. Una domanda che sempre più spesso mi piace fare perché sia arrivato il momento di mettere un po’ il dito nella piaga e smuovere le acque. Il teatro sta perdendo pubblico e rilevanza. Siamo in una città con un bacino di un milione di abitanti e c’erano in sala settanta persone per una serata unica… A.C.: E siamo pure contenti che fosse pieno! E.P.: Esattamente. Quello che voglio chiederti è questo: cosa dovrebbe fare il sistema-teatro, le curatele, gli artisti per emendare i difetti che hanno condotto a questa irrilevanza e che aiuti a invertire la tendenza? A.C.: Io sono un po’ anarchico e non ho un vero pensiero politico sul tema dell’organizzazione dello spettacolo. Vedi io vengo da un paesino dell’Abruzzo e quando ho cominciato nelle sale di paese o nelle piazze avevo davanti a me solo vecchi e bambini. Gli adulti stavano fuori. La cultura popolare era che il teatro non fosse una cosa da uomini. Nasco un po’ con questo imprinting. Poi ti dico un’altra cosa. Io parlo veloce. Spesso mi rimproverano questo. Io credo di avere inconscia dentro di me, l’idea che il teatro sia una cosa noiosa e che prima ci sbrighiamo meglio è per l’attore che per lo spettatore. Io ho sempre costruito il mio teatro non pensando all’organizzazione dello spettacolo, perché dentro di me ho l’idea che io potrei fare spettacolo dappertutto e in qualsiasi situazione. La mia idea, perché io in fondo sono un anarchico antisistema, è che io in qualsiasi sistema nuovo si inventi e per quanto possa ben funzionare, io devo agire nelle maglie e infilarmi nelle pieghe. Ho sempre pensato di essere un marginale e che il teatro, anche quello più istituzionale e ben finanziato, ne guadagnerebbe assai se prendesse coscienza del suo essere come arte assolutamente marginale. Comunque da ignorante della politica teatrale quello che mi ha sempre scandalizzato sono due cose: da una parte la tendenza a chiudersi in un piccolo circoletto in cui ci autogiudichiamo e ci diciamo quanto siamo importanti nonostante la realtà, cosa micidiale che ci farà morire tutti, e, seconda cosa, che nel nostro sistema di finanziamenti è che si ricevono i fondi se sei produttore di spettacoli e insieme presentatore di spettacoli. A nessun produttore di birra tu dai dei soldi per produrre la birra, sia per acquistarla. É chiaro che poi si chiude il sistema. Provocatoriamente, perché non lo vorrei, potrei dirti: togliamo i finanziamenti e vediamo chi sopravvive. Ovviamente io ho la presunzione di credere di poter sopravvivere. Enrico Pastore
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Francesco Panizzo. |
Intervista a
Enrico Pastore sul suo Imaginary landscapes: tale on invisible cities di Francesco Panizzo Intervista a Irene Russolillo
di Enrico Pastore Un grande
particolare. A Novi Cad con il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards di Francesco Panizzo Incontri verticali
con Jurij Alschitz di Mariella Soldo Sottrazioni -
Conferenza in commemorazione di Carmelo Bene al Caffè Letteraio Le Murate di Francesco Panizzo |
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