Quello di Nathalie Bèasse è un universo teatrale a bolle. Il suo non è un racconto univoco, lineare ma uno spargere frammenti di uno specchio, pezzi di puzzle di cui, come nel libro di George Perec La vita istruzioni per l’uso, manca sempre un elemento per completarlo. L’immagine completa ci sfuggirà sempre. Come afferma la stessa Nathalie Bèasse: «esploriamo senza rendere le cose leggibili». E così si ha in un primo tempo l’idea di confusione, di trovarsi di fronte a un oggetto sconclusionato, fumoso, che via via chiarisce la sua natura: come gli agenti in incognito ne Un oscuro scrutare di Philip Dick, lo spettacolo indossa una tuta disindividuante, lasciando trasparire di sé mille immagini sovraimpresse nascondendo la sua vera natura. Proteo redivivo.
La Biennale Teatro dedica a Nathalie Bèasse una piccola personale di quattro lavori, Le bruit des arbres qui tombent, Roses, Tout semblait immobile, Happy Child. Il titolo del primo spettacolo in scena ieri sera al Teatro Piccolo Arsenale è Le Bruit des arbres qui tombent, ed è preso da una raccolta di poesie e canti di Indiani d’America, e letteralmente significa: il rumore degli alberi che cadono. Un titolo che sussurra parole di morte, un franare inevitabile tra rumori di schiocchi di rami infranti e frusciar di foglie. E questo sussurrar parole in un mondo perennemente sul filo del rasoio tra la vita e la morte incombente si ha da subito con la prima immagine: un enorme telo nero mosso dai quattro attori agli angoli del palco, che aleggia ora rabbioso ora soave, oscurando le luci, nero sipario, creatura viva e terrifica come il fumo nero di Lost mentre si diffonde l’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler già tema de La morte a Venezia di Luchino Visconti. Da questo incipit pieno di dolce tristezza e incombente ineluttabilità si dipana un universo di immagini che i quattro attori in scena (Estelle Delcambre, Karim Fatihi, Erik Gerken, Clèment Goupille) raccontano usando immagini ora lievi, ora divertenti, o struggenti e melanconiche, attraverso lingue diverse (Arabo, Inglese, Danese, Francese e qualcuna che forse non ho riconosciuto) piccoli frammenti narrativi. Si racconta di una famiglia povera costretta a vivere insieme e che sogna di poter vivere finalmente separati; si enumera la genealogia di Gesù mentre un attore si spoglia e viene inondato d’acqua, – la genealogia si disperde, così come l’acqua -; si racconta di una lince che vivendo impara e quel che impara scompare con lei. Ma i racconti non sono fatti di sole parole, le immagini da sole si snocciolano e snodano sul palco costruendo un labirinto figurativo dove ritorna l’immagine famigliare, la morte e la solitudine. Bellissima quella dei vestiti gettati furiosamente in alto che si gonfiano quel tanto da far intravedere una figura umana che svanisce in un attimo, o come quella dell’uomo albero che vaga sul palco alla ricerca di radici. Molte sono le immagini e non serve qui descriverle ed elencarle tutte. Basta un accenno per comprendere il mondo narrativo-compositivo di Nathalie Bèasse, un universo delicato e deciso, che parla degli argomenti ultimi, di vita e di morte, di solitudine e melanconia, di struggimento che sorge dalla ricerca affannata di noi tutti di un oggetto d’amore che ci scaldi il cuore nel breve istante che ci separa dalla morte. Il merito di Nathalie Bèasse è di usare un tono lieve e leggero, mai asseverativo, totalmente fuori dal mondo della rappresentazione e che evoca il mondo di François Tanguy e del Theatre du Radeau. A tal proposito vorrei terminare questo piccolo racconto con un omaggio a un attore, Erik Gerken, che in un lontano passato insegnò moltissimo a me e ai miei compagni di viaggio nel periodo di residenza a La Fonderie di Les Mans. Ricordo questo straordinario attore che con estrema umiltà ci consigliava strade e percorsi possibili, insegnandoci esercizi di training, mostrandoci possibili interazioni con gli oggetti di scena. Lo ricordo in scena durante Orpheon, proprio durante la Biennale teatro del 1999 quando ci conoscemmo e per un breve tratto di strada ebbi l’onore della sua amicizia. Il suo pezzo di Amleto con Frǿde Bjornstad mi fece innamorare del teatro, amore che dura tutt’oggi. Enrico Pastore
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