Psychodream Review
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SPECIALE 37°
FESTIVAL MONTPELLIER DANSE 2017
FESTIVAL MONTPELLIER DANSE 2017
Articolo di Sara Maddalena
Un successo, l’ennesimo. Il segreto del Festival di Montpellier Danse non sta nel pieno trionfo di ogni singolo spettacolo, ma nell’offerta di diversi generi di danza che pur incontrando in maniera non univoca il favore del pubblico risultano sempre e comunque interessanti. E del resto non è un caso se dopo tanti anni questo Festival si conferma ancora al centro della scena internazionale: il merito va sicuramente ascritto anche al Direttore Jean-Paul Montanari, al suo valido entourage, a chi crede in loro continuando a sostenerli e all’ineccepibile organizzazione. Qualche dato numerico può risultare utile per meglio comprendere la portata dell’evento: in due settimane hanno assistito ai 21 spettacoli di artisti provenienti da una ventina di diversi Paesi, 35000 spettatori di cui più dei tre quarti vengono dalla Regione. Un pubblico locale interessato alla danza contemporanea non è cosa scontata, basti pensare all’odierna situazione italiana in cui malauguratamente la danza troppo spesso è relegata a interesse elitario o di chi è già nel settore. Le “grandi lezioni di danza” impartite gratuitamente e personalmente da coreografi di fama internazionale a chiunque voglia frequentarle, in varie parti della città, compresa la periferia, e dintorni, contribuiscono ad avvicinare ed educare il pubblico a questa realtà, così come le molteplici altre attività correlate, aperte al pubblico, tra cui gli spettacoli in strada, le conferenze stampa nei giardini del Centro Coreografico Nazionale di Montpellier, il cinema sulla danza.
Per questo 37° Festival non c’è una tematica dichiarata ma emerge con chiarezza una riflessione sullo stato della danza oggi, attraverso l’accostamento di riproposizioni di lavori di decine d’anni fa e di creazioni recentissime o addirittura nate per il Festival, così come attraverso la giustapposizione di balletto e di performance. Apre il Festival Angelin Preljocaj con Les Pièces de New York: Spectral Evidence, creazione del 2013 e La stravaganza, del 1997. L’aspettativa è grande per una figura di rilievo nel mondo della danza. La prima pièce fa riferimento alle circostanze relative al noto processo alle streghe di Salem, del 1692. L’atmosfera è sinistra, complice anche la musica di Cage; la scena è occupata da strutture geometriche che si prestano a molteplici funzioni scenografiche compresa quella di contenere proiezioni di fuoco ardente, utili praticabili che ben rispondono alle esigenze coreografiche cui sono sottoposte le quattro coppie di danzatori, tra desiderio di libertà e repressione. Nella seconda sei danzatori del Nuovo Mondo, vestiti con abiti contemporanei incontrano sei danzatori in costume provenienti dal Vecchio Mondo e del passato. Modernità e antichità, Stati Uniti ed Europa, gestualità contemporanea e classica, Vivaldi e musica contemporanea, un melange di contraddizioni che interagiscono proficuamente tra loro. Il fondale è interamente occupato da una tela colorata, rielaborazione di una fotografia di una fattoria americana del 16° secolo in rovina, immagine che per quanto efficace a volte impedisce di godere appieno dei costumi. Come il coreografo stesso ammette sono riscontrabili evidenti riferimenti di carattere autobiografico nelle sue opere, quella tenebrosità dovuta alla sua provenienza dai Balcani con il loro mistero, il sentirsi bicefalo come l’aquila posta al centro della bandiera del proprio paese, l’Albania, e la sua esperienza negli Stati Uniti, di cui sottolinea le caratteristiche di luogo di accoglienza e tolleranza, nonostante le profonde contraddizioni. Completamente diversa la proposta di Steven Cohen put your heart under your feet... and walk/à Elu. L’artista sudafricano è noto per le sue provocazioni e questa sua performance sicuramente non lascia indifferenti: qualcuno rimane interdetto, qualcuno disgustato, altri, i più, profondamente commossi. Questo lavoro è infatti dedicato al compagno recentemente scomparso cui Steven Cohen era indubitabilmente molto legato. La scena è occupata da numerose paia di scarpe posizionate in modo ordinato e affiancate da altri oggetti di uso più o meno quotidiano tra le quali si aggira Cohen truccato e vestito in modo tanto eccentrico quanto ricercato. Sul lato sinistro dei giradischi con cui in modo ingegnoso e originale l’artista si vestirà, grazie a un’imbragatura, sul fondo una tela dove viene proiettata l’immagine del performer o un raccapricciante video girato in un macello, sul lato destro uno spazio un po’ liberty dove verrà celebrato un macabro rituale, l’ingestione delle ceneri del partner deceduto, previa preghiera in ebraico relativa allo Shabat. Il “teatro come ultimo luogo possibile di condivisione, come un tempo era il tempio” è quindi dichiaratamente prescelto per un rito di elaborazione del lutto da vivere insieme al pubblico. Per quanto sia innegabile e vada rispettata l’autenticità del dolore e dell’intento, risulta impossibile chiedersi, cinicamente, se è proprio accettabile l’idea che grazie all’ingestione del corpo morto, di cristiana memoria, l’amato vivrà per sempre nel suo corpo o ne verrà invece espulso, e se, considerato che lo spettacolo ha visto già una seconda replica e sarà in tournée, le ceneri basteranno sino alla fine delle rappresentazioni. Si ritorna invece alla tradizione con Historias Flamencas de Sevilla di Antonio Canales e Rafael Campallo un tributo ben riuscito al flamenco, puro. L’eccezionale carisma di Canales e la sua straordinaria bravura unita a quella degli artisti che si esibiscono con lui, tra cui Segundo Falcòn e Rafael Rodriguez, rende lo spettacolo estremamente godibile. Il proposito esposto dal ballerino sivigliano è di tornare alle origini lasciando da parte momentaneamente l’aspetto di ricerca, seppur interessante. Invero negli scorsi anni al Festival si è già visto del flamenco in diverse forme: in questo caso è un omaggio alla tradizione dei grandi Maestri di quest’arte andalusa, tuttora incredibilmente vitale. Come si evince dal titolo e come ricordato dal coreografo, nel flamenco attraverso la danza, la musica, il canto, si raccontano delle storie, tutti insieme: ognuno contribuisce con la propria modalità narrativa a vivificare, intensamente, un racconto di vita. Il pubblico, evidentemente, unanimamente apprezza e, se si ama il flamenco, non potrebbe essere diversamente. E’in qualche modo una storia anche quella che vogliono raccontare la nota coreografa Mathilde Monnier e lo scrittore Alan Pauls in El Baile: la storia dell’Argentina dal 1978 a oggi. Il punto di partenza è Le bal di Penchenat divenuto poi un noto film di Ettore Scola nel 1983; in un ambiente da milonga, ovvero da nostrana balera, dodici giovani danzatori in abiti sportivi si producono in varie scene relativamente al rapporto tra uomini e donne, le loro debolezze, contraddizioni, il loro ridicolo disperato esibizionismo, ma in sottofondo si riconoscono, o quantomeno si dovrebbero riconoscere, riferimenti alla situazione politica del Paese. Come sostiene la Monnier accanto e attraverso il vissuto personale del danzatore emerge anche una condizione umana e storica. Se ne percepisce in effetti l’atmosfera, grazie anche a espedienti semplici quale il rumore di elicotteri, altre metafore del genere e trovate scenografiche che conducono lo spettatore a decodificare il messaggio storico e politico, il quale però non risulta sempre chiaro se non si conosce la realtà argentina. Il lavoro sulla voce, il canto, il movimento, può essere ritenuto interessante, ma non è del tutto fruibile neanche quella sorta di lungo catalogo di danze prevalentemente sudamericane e relative variazioni sulle stesse, che, ahimè, non è possibile apprezzare pienamente se non si conosce perfettamente quel tipo di danza. Un gioiello, intramontabile prodotto di eleganza e perfezione, è Dance, che il Ballet de l’Opera de Lyon porta in scena grazie alla celeberrima coreografa americana Lucinda Childs. Riprendendo il lavoro del 1979 svolto in collaborazione con Sol Lewitt sulla musica minimalista di Philip Glass, ripetitiva all’ossessione, i danzatori, vestiti di bianco, entrano ed escono dalle quinte, senza soluzione di continuità; in sovraimpressione viene per la maggior parte del tempo proiettato il film, realizzato da Marie-Hélène Rebois, in cui si vedono i medesimi danzatori volteggiare vestiti e pettinati nello stesso modo e facendo più o meno gli stessi movimenti. A volte l’immagine è più grande, più piccola, a volte moltiplicata in più riquadri. Si entra in questo modo nello spazio nelle sue dimensioni geometriche sino a creare una sorta di infinito spaziale che richiede un tempo infinito per costruirsi. E si può apprezzare così la danza allo stato puro, in una sorta di movimento perpetuo, fluido, aereo, piacevolmente ipnotico, tanto apparentemente semplice e pulito quanto complicato da realizzare in modo perfetto e quindi tanto più apprezzabile nel suo eccellente risultato. La parte di pubblico che dopo un po’ se ne va ritenendo che “sia sempre la stessa cosa” e quindi di “aver capito come va a finire” - neanche si trattasse di uno sceneggiato televisivo di terz’ordine - decreta inevitabilmente la propria ignoranza e mancanza di gusto, ma è il bello di un pubblico eterogeneo. Il Ballet de l’Opera de Lyon danza anche in TENWORKS (for Jean-Paul) sotto la direzione di Emanuel Gat in uno spettacolo che si potrebbe definire poesia, estremamente positivo. Un omaggio al Direttore del Festival Montpellier Danse Jean-Paul Montanari che in questi anni, a ragione, ha saputo dare il giusto spazio all’ottimo coreografo israeliano, ma anche un inno all’amore, al corpo, alla danza, alla vita. Dieci pièce in cui sono protagonisti sensualità e libertà, che si estrinsecano tanto nei duetti quanto nel lavoro del gruppo, che, ricordiamolo, di provenienza classica si cimenta nella danza contemporanea con eccellenti risultati. Il metodo di lavoro di Gat è del resto improntato sul valorizzare ogni danzatore partendo da un aspetto umano, da ciò che egli può dare in quanto persona, prima ancora che come artista, al gruppo e quindi allo spettacolo. Funzionano anche le scelte relative alla musica, in parte suonata in scena al pianoforte dalla figlia dello stesso Gat e da potenti fiati, nonché le combinazioni coreografiche, un sottile erotismo che non necessita di nudità, una vena a volte ironica, a volte dolce, che portano nel complesso a una sorta di conversazione sommessa che sottintende complicità, o in cui addirittura non servono parole e che non annoia mai. L’umanità, intesa nelle sue varie accezioni, è una caratteristica anche del lavoro di Fabrice Ramalingom e particolarmente evidente in Nòs, tupi or not tupi? Il coreografo porta infatti in scena tre giovani danzatori brasiliani e spiega di voler lavorare sull’emancipazione e sulla possibilità di dare all’hip hop altre valenze, che oltrepassino i codici standard in gran parte maschilisti tipici di questa forma di danza, nell’immaginario comune spesso aggressiva, basata sulla competizione, e che può invece contenere anche molte sfumature di tenerezza, fragilità, sensibilità. Partendo dall’idea che la danza sia tanto un modo espressivo quanto un modo per farsi conoscere, i ragazzi forniscono una risposta autentica a una riflessione sull’essere danzatore e su una parte della – spesso difficile - realtà brasiliana. La scena è spoglia e sul fondo in alcuni momenti vengono proiettate immagini del Brasile e frammenti di considerazioni sullo stesso, di interviste ai danzatori. L’attenzione non è incentrata sulle capacità fisiche e artistiche dei tre protagonisti ma sul lavoro collettivo di costruzione di interazioni tra i tre ragazzi e sulle possibilità cui dà adito la loro presenza in scena. Rimane invece una domanda senza alcuna risposta Autoctónos di Ayelen Parolin, sostanzialmente una performance del tutto incomprensibile: a voler concedere il beneficio del dubbio alla coreografa argentina, si potrebbe pensare che allo spettatore scarseggino i riferimenti fondamentali dovuti alla mancata lettura del romanzo di Roberto Bolaño e dagli scritti di Byung-Chul Han da cui la Parolin sembra aver tratto ispirazione per costruire questo spettacolo. L’inizio è interessante: quattro donne scelte per le loro marcate caratteristiche fisiche e molto diverse tra loro, abbigliate in modo stravagante, attendono in posizioni da tableau vivant, come in un antico ritratto di famiglia, accanto a un pianoforte davanti al quale siede una pianista altrettanto fisicamente significativa. L’energia sprigionata dalla musicista - che spinge sui tasti sino a rendere il pianoforte uno strumento a percussione - e dalla prima danzatrice, non riesce però a farci perdonare un’ora di spettacolo in cui le quattro ragazze si agitano nello spazio prendendo posizioni grottesche, che dovrebbero forse incarnare dei concetti di disarmonia e pluralità, ma che fondamentalmente rischiano di essere solo bruttura e inutilità e che il pubblico infatti applaude freddamente, non si sa se perché deluso, stordito o disorientato. Grandissimo - ma non del tutto meritato - è invece il successo di Bacchantes - Prélude pour une purge di Marlene Monteiro Freitas. Uno spettacolo ben costruito, che si basa sull’eccezionale energia e originalità della coreografa capoverdiana e sulla bravura degli artisti che lavorano con lei, ma che a ben vedere è un sovrabbondante insieme di trovate, assai “furbe”, che però piacciono al pubblico. Decisamente è la seconda parte del titolo a prevalere, visto che il lavoro ha in realtà poco a che fare con la tragedia di Euripide di cui emerge soprattutto il riferimento ai riti dionisiaci, così come sedimentatisi nella fantasia popolare, ed evidentemente al delirio e alla follia nella cui ampia categoria però qualsiasi cosa può rientrare. Una buona scusa per mettere un po’di tutto nel gran calderone: canzoni, trombe, musiche popolari, spogliarelli maschili – le borghesi signore delle prime file applaudono entusiaste - un filmato di un parto di una donna orientale – se ne sentiva proprio la mancanza - per concludere con il Bolero di Ravel. Un po’troppo facile. Una serie di gag comiche intervallano i momenti di ripetizione del gesto e dell’azione - a volte anche interminabilmente lunghi – e che talvolta ricordano quegli esercizi dei laboratori teatrali in cui si lavora su come utilizzare un oggetto facendolo divenire tanti altri oggetti – in questo caso i leggii che diventano ora fucili, ora biciclette, ora chitarre, ora stampelle, ecc. – e in cui prevalgono i soliti movimenti meccanici, quasi robotici, a scatti, già visti in un altro spettacolo della coreografa, Jaguar, così come, in parte, il trucco. Il grottesco, le contraddizioni, la pantomima, gli aspetti carnevaleschi, dovrebbero incitare alla liberazione, alla catarsi, fomentare l’immaginazione, ma ci si interroga circa il reale risultato di tutto ciò e su come veramente leggere il fatto che gli spettatori escano da questo spettacolo, di danza, dicendo che si sono tanto divertiti. Non soddisfa pienamente le attese Soft virtuosity, still humid, on the edge di Marie Chouinard considerato anche che la stessa è stata nominata, proprio un anno fa, alla direzione del Settore Danza della Biennale di Venezia per il quadriennio 2017-2020. La coreografa canadese lavora sulla fisicità, parte dalla camminata per indagare il movimento come progressione e insieme di stati di transizione dell’essere. L’interazione con il dispositivo filmico sul fondo della scena, su cui è proiettato il video in diretta o leggermente sfasato, che duplica e ingrandisce quanto si vede sul palcoscenico, è inizialmente intrigante - soprattutto riguardo a un duetto seduto su una pedana che gira, espediente semplice ma efficace - ma conduce pian piano lo spettatore che non si trovi nelle prime file, a guardare il video piuttosto che i danzatori in carne e ossa. Soprattutto nella parte in cui questi, dopo aver sperimentato vari tipi di camminata scomponendo il corpo fino a prendere posizioni che possono sembrare, - ma evidentemente non vogliono essere - una presa in giro dei disabili, intraprendono un lento, lungo spostamento collettivo da sinistra a destra della scena, che anche a causa delle espressioni esagerate del viso e la composizione del gruppo, richiama la dimensione pittorica. Nella parte finale lo spettacolo riprende vita e levità e l’inquietante grido che contrassegna alcuni istanti di questo lavoro si fa muto canto verso una vaporosa affrancazione. Corpi incerti, imperfetti, anche quelli che Marcelo Evelin propone al festival nel suo lavoro Dança Doente, ma con un altro scopo. Il coreografo brasiliano spiega infatti di intendere la “danza come un sintomo, come un’alterazione della percezione soggettiva del corpo infettato dal mondo che lo circonda” intendendo per sintomo quel momento in cui il corpo si modifica e cambia la sensazione di sé in un processo di trasformazione fondamentale, che, anche grazie alla malattia può far crescere e portare altrove. Specifica dunque di intendere l’arte come un andare verso qualcosa che non si conosce, e il teatro come un luogo di libertà per rovesciare le leggi. Ecco perché il suo lavoro sfugge alle categorizzazioni e, nonostante le influenze di Tatsumi Hijikata, precursore del butoh in Giappone, non vuole essere un qualcosa di esotico e tantomeno del butoh brasiliano. La conferenza stampa dura il doppio che d’abitudine e il fatto che il pubblico insegua il coreografo brasiliano anche dopo il termine per continuare a porgli domande o complimentarsi è segno evidente del carisma di Evelin e dell’interesse per il pensiero che manifesta. Lo spettacolo a dir il vero non contiene tutto quello che ci si aspetterebbe dopo le promettenti premesse tuttavia non è certamente privo di interesse. Lo spazio scenico è diviso in due parti di cui una a sua volta è parzialmente divisa da un telo appeso che non arrivando sino a terra permette di vedere i movimenti dei danzatori posti dietro la cortina. Il coreografo è in scena insieme ai danzatori, così come i tecnici. Da un progressivo, più o meno calmo succedersi e apparire di disequilibri, rituali, sfilate - lungo e fuori una sorta di passerella bianca - di una specie di regina nera e tre grazie tanto canoviane quanto sofferenti, figure animalesche, sacre e diaboliche, lotte di sesso e potere, emergono alcuni momenti particolarmente intensi, grazie soprattutto alla personalità del coreografo e di alcuni tra i danzatori. Chiude lo spettacolo l’uscita di scena di un musicista che strimpella una specie di ukulele, paradossalmente indolente. Ben più “commerciale” Flood, il lavoro di Daniel Linehan, coreografo statunitense presentato come una giovane promessa da seguire per la sua genialità e che invece, pur essendo più che dignitoso, non riveste alcun carattere di eccezionalità. Le parole d’ordine sono accelerazione, connessione, tempo, vettori, in onore a questo nostro mondo tecnologico. Certo, i danzatori sono bravi, i costumi preparati con cura, evocativa la scena con tre pannelli di stoffa leggera in serie e la luce che appare sul fondo, ma il gioco su cui si basa gran parte della performance dopo un po’ stanca: ai movimenti e ai contatti tra i quattro danzatori, sono associati suoni e versi, si crea così una partitura sonora, come un ridicolo grammelot fuoriuscito da un videogioco, che riproduce – male – la commedia dell’arte. Risulta un po’ fastidiosa la ricerca della risata del pubblico, che peraltro arriva immancabile quasi fosse un telefilm americano degli anni ‘80. Straordinariamente elegante e piacevole la riproposizione di alcuni lavori di Hans van Manen, uno dei più celebri coreografi europei con all’attivo più di 140 balletti, con il Dutch National Ballet una delle più grandi compagnie europee di balletto classico. Adagio Hammerklavier, Two Gold Variations, Sarcasmen, Frank Bridge Variations, Metaforen sono i cinque pezzi, molto diversi tra loro, di una durata di circa una ventina di minuti ciascuno, creati tra il 1965 e il 2005, e che permettono dunque di apprezzare l’evoluzione del lavoro del coreografo olandese ora ottantaquattrenne, e di cui si spera di vedere presto la prossima creazione. Anche David Wampach ripropone un suo pezzo di repertorio datato 2005, BASCULE oltre a una nuova creazione, ENDO. In BASCULE due donne e un uomo, completamente nudi, ma con degli indumenti colorati dipinti sul corpo, si cimentano in movimenti ripetitivi su un ritmo martellante, in uno spazio delimitato da tre pareti. Come in una lezione di aerobica lavorano su singole parti del corpo e poi sul tutto: viso, testa, braccia, sedere, gambe, ecc.. L’azione è precisa, meccanicamente riprodotta, passata tra i danzatori, posizionati per lo più in modo da essere due in un senso e uno nell’altro. Semplice ma efficace. Nel complesso funziona, meglio di ENDO, che secondo il coreografo, qui anche danzatore, si rifà alla corrente endotica e al Gutai, ma che sostanzialmente è l’ennesima performance (vedasi la presa in giro nel film La grande bellezza) in cui qualcuno si immerge nel colore e si getta addosso a una parete bianca su cui lascia una traccia colorata. In questo caso una donna e un uomo inizialmente nudi (costante del lavoro di Wampach) poi semivestiti, si trastullano con la materia, scivolano, rotolano e così magari soddisfano i reconditi desideri, infantili o orgiastici, del pubblico che vorrebbe partecipare al gioco e applaude entusiasta. Serio appare invece l’intento di Bernardo Montet che per Carne si ispira a un libro, L’esprit de l’homme de la terre de feu, a foto di genocidio degli anni ‘20, a E. Glissant, per una riflessione sulla mondialità e la politica della relazione. In scena un albero a rovescio, o un grande ramo secco, che pende dall’alto, per terra paglia. I danzatori compiono azioni di gruppo come in un rituale più o meno volontariamente condiviso, o assoli che diventano esclusioni, fughe, solitudini, proprio per la dinamica di relazione intrapresa. Il gruppo che si raccoglie intorno al singolo dopo la sua caduta può persino ricordare una deposizione cinquecentesca. Certi virtuosismi - come per esempio le capriole o la verticale su tacchi a spillo in un fascio di luce – per quanto ben eseguiti, sembrano un po’ delle forzature, anche perché per il resto la costruzione a livello coreografico e scenografico è ben pensata, precisa, equilibrata, e risponde ai propositi dichiarati dal coreografo. Chiude il Festival Love Chapter 2 di Sharon Eyal e Gai Behar, continuazione di OCD Love che è già stato un successo l’anno scorso. Tanto ombroso, ossessivo, quanto potente e sensuale. Corpo, musica, che esternano un qualcosa di torbido, una disperata tristezza e nel contempo un altrettanto disperato desiderio di vita: la mancanza di congiunzione tra i soggetti è tanto forte quanto il desiderio della stessa. La coreografa israeliana rivela che è dal suo corpo, dal suo essere che nascono quei movimenti viscerali, disarticolati che rendono così intensamente trascinante il tutto. Una inaspettata parentesi di musica spagnola è quasi un raggio di sole che rende ancor più nitidi i contrasti, i chiaroscuri e la susseguente dirompente, folle angoscia. I magnifici danzatori restano tutti in scena dall’inizio alla fine spendendosi con incredibile energia e nel migliore dei modi sulla musica incalzante di Ori Lichtik. Al calare del sipario il pubblico unanimemente si alza in piedi ad applaudire creando a sua volta un’energia collettiva che ben sintetizza il rapporto di reciproco scambio degli spettatori con il Festival. Sara Maddalena
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Francesco Panizzo. |
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