Psychodream Review
Sezione diretta da Enrico Pastore e Sara Maddalena |
L’azione scenica è sempre un tentativo, un audace camminare sul filo del fallimento ponte, tra un luogo certo e comodo e un obbiettivo non sempre definito e che non conduce veramente a qualcosa che potremmo definire successo. La vita è sempre altrove in arte. Quanto un lavoro finisce, si esaurisce, ci si spinge un po’ più in là verso un altrove avvolto nella nebbia. Quello che è fondamentale nel tentativo artistico è la necessità del procedere.
Faccio una citazione: «Per me non si tratta tanto di lasciare che qualcosa emerga spontaneamente. Non è solo lasciare che venga a galla qualcosa. Certo, questo è un processo, ma bisogna vedere che tipo di processo è; ci si dovrebbe domandare: “Bene, è emerso qualcosa da me, ma ha delle qualità?”. Ovviamente non basta affermare che l’arte è un processo che chissà come scaturisce da me, quasi lo vomitassi, perché quello che emerge potrebbe benissimo essere una falsità». Quello che parla è Joseph Beuys, in un’intervista dedicata alla domanda: cos’è l’arte? E questo suo pensiero mi è riaffiorato alla memoria ieri sera nell’ultima serata di Interplay vedendo i lavori di Jan Martens e Simona Bertozzi. Nel lavoro di Martens, Ode to attempt, titolo peraltro bellissimo, il giovane danzatore/coreografo si consegna alla scena seguendo una lista di compiti precisi. Tredici esperimenti o tentativi di definire se stesso, o rappresentarsi, agendo sulla scena utilizzando non solo la danza ma anche il proprio laptop come interfaccia. Tutto diviene un tentativo: iniziare un movimento, definirlo meglio, renderci edotti di quanto sta succedendo, mandare un messaggio alla/al suo ex, essere classico o minimal, ringraziare i morti viventi, trovare un finale kitsch ma carino, perfino inchinarsi al pubblico. Tutto quindi è sospeso nella parola tentativo, tutto è provvisorio, fragile. L’ironia rende tutto gradevole e leggero. Eppure la domanda di Beuys mi rimbombava in testa. Nonostante movimento e immagini fossero gradevoli, ben costruite, nella testa ronzavano le parole di Beuys come palline nella roulette. A seguire il lavoro di Jan Martens, quello di Simona Bertozzi, Prometeo: il dono. Ho cominciato a gustare la danza, un filo inquietante, con ritmi a volte forsennati, con movimenti a volte in bilico verso il fallimento, tra sincronia e negazione della stessa, in un intreccio evocativo e emozionante tra i tre interpreti, quanto ho smesso di chiedermi cosa c’entrasse Prometeo in quello che vedevo. Ho goduto del movimento, del suo sviluppo nello spazio, nello sforzo dei muscoli per battere la gravità, nell’espandersi in linee e figure nel quadrato nero della scena. Colpa mia! Ho seri problemi quando mi mettono davanti al simbolico. Lo detesto perché chiude lo sguardo, perché obbliga a cercare un significato, una corrispondenza precisa, a giocare al rompicapo con il senso. É in gioco la libertà di interagire con quel qualcosa che prende forma davanti a te, che ti interroga con la sua presenza anziché invitarti a un gioco. Preferisco quando l’immagine è aperta, vogliosa di metamorfosi, di vestirsi di infiniti sensi, più che divenire maschera di un solo o pochi prescelti significati. Onestamente poi il taglio delle verdure finali non l’ho proprio capito. E quindi ribalto la domanda fatta in scena durante l’esecuzione di questo Prometeo: della necessità chi è che tiene il timone? Certo posso leggere sul programma di sala sul dono di Prometeo all’umanità, quella capacità di creare, di forgiare, di coltivare e costruire. Ma non l’ho visto. Ho visto una bellissima danza. Ho visto il suo sviluppo, l’interazione tra gli interpreti, il sapiente uso del ritmo e delle pause, e ne ho goduto, ma Prometeo non l’ho trovato se non fuorviante. E se la gioia di vedere quel che ho visto fosse il senso del lavoro l’avrei trovato con o senza Prometeo. E quindi torniamo a Beuys. È necessario capire sempre più se quello che emerge da un lavoro sia valido, se sia o meno necessario, se abbia un valore. E andrei anche un po’ oltre: mi chiederei anche se la self-expression sia un valido motivo per avviare un processo artistico. Qual è la funzione del fare scenico? Tornare a ragionare sulla funzione dell’agire e non solo su materiali e tecniche trovo diventi sempre più pressante. Se negli anni ‘60 e ‘70 questa domanda era fin troppo sviscerata, oggi si corre il rischio opposto di non porsela per nulla e di fare per fare. Lavori ineccepibili dal punto di vista tecnico/formale peccano di cedevolezza funzionale, non sembrano per nulla urgenti, paiono qualcosa di legato solo all’artista in scena e non a un uditorio che resta divertito ma indifferente. La funzione attiva l’interazione, non l’estetica, non la comunicazione, ma la presenza necessaria e ineludibile. Enrico Pastore
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Francesco Panizzo. |
Intervista a
Enrico Pastore sul suo Imaginary landscapes: tale on invisible cities di Francesco Panizzo Intervista a Irene Russolillo
di Enrico Pastore Un grande particolare.
A Novi Cad con il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards di Francesco Panizzo Incontri verticali
con Jurij Alschitz di Mariella Soldo Sottrazioni -
Conferenza in commemorazione di Carmelo Bene al Caffè Letteraio Le Murate di Francesco Panizzo |
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