Napoli è la cornice mobile dove affiora il racconto in musica di Erri de Luca ne La musica provata: “Qui sono piovute le musiche, ognuna stava in grembo a qualche nuvola. Ogni canzone è stata prima scroscio e le sue note gocce.”
E da qui invece parte il mio racconto, i miei ricordi arrovellati tra i vicoli senza nome della mia città, non una recensione ma pensieri sparsi che il suo viaggio mi ha suggerito. Napoli, un racconto così ha il sapore della malinconia, non del ricordo, il ricordo è accogliente, ricco. La malinconia, qualcuno dice, è senza futuro. Un futuro che dovrebbe appoggiarsi a un presente che è privo di identità ed è per questo che è un racconto doloroso. La musica, il violino è elitario, il violoncello è di pancia, il mandolino vibra sul diaframma. È struggimento. Non riesco a parlare di una Napoli da cartolina. Non ho mai sentito allegria e spensieratezza, ma ho sempre avvertito e da subito, dalle mie prime incursioni nella città “vera”, quel caos deforme con sprazzi di delicatezza talmente fuori posto da essere inevitabilmente commovente. Credo che per questo Napoli, alla fine, fotta tutti e sappia mancare; perché è una maglietta slabbrata, letto sfatto che suggerisce qualcosa: il calore sbiadito che affonda in un profumo che insegue un ricordo che ci riporta indietro, una vertigine, una capriola indietro.’ Agli occhi di bambina anche un tragitto in macchina da Piazza Vittoria a Via Santa Brigida suona come un viaggio lontano. Sarà stata colpa della valigetta di Hello Kitty presa da mio padre durante un viaggio in Giappone, ma a me quel viaggio è sembrato un’eternità. Il primo ricordo sulla strada di casa dei miei nonni materni è questo, l’odore di panni stesi, l’odore di pulito, non il profumo, l’odore. E il folclore, per me folgore, lo straniero è stato tutto ciò che non è appartenuto al mio quotidiano. Il paniere, le scale, i quattro piani a piedi, le urla, il telefono arancione alla parete, il bagno senza doccia, la tinozza, la cucina e mia nonna che, romana doc, urla in cortile e beve l’acqua della fontana. Ci sono alcuni gesti, delle cose che si facevano solo dai nonni, ma non perché a casa mia non si potessero fare ma perché ho sempre rispettato quella complicità. Il luogo con i suoi segreti e loro, i miei nonni, lui milanese e lei romana, perfettamente fuori contesto eppure la durezza di mia nonna si scioglieva sui quartieri spagnoli, forse perché quella intimità forzata da cortile era il luogo dove poter superare l’austerità che ha sempre avuto. Le palline per decorare gli struffoli, il vestito da sposa di mia madre, il freddo e la stufa, un letto enorme, la preghiera della sera con quell’eterno riposo che mi ha sempre terrorizzato, il risveglio la mattina con il caffè latte e gli immancabili savoiardi, il telegiornale, dentro una sensazione di cui mi sono sempre vergognata un po’. Il piacere di tornare a casa, quell’amore per i miei nonni ha richiesto per me un trapasso, un’accettazione di qualcosa di diverso. Questa gita finiva quando passavamo in un vicolo davanti a un portone colorato in modo che sembrasse la bocca del diavolo. Poi le colonne d’ercole, quindi, il segno del mio ritorno a casa. Ancora oggi, quando penso a Napoli, provo queste sensazioni e, inevitabilmente, un piccolo dolore.. e tutta la letteratura, la musica, l’arte - tutto è permeato da questa nevralgia. Più ci si allontana dall’ultima Napoli alla Troisi, dall’ultima maschera, tanto più non vedo nulla. Troisi e la sua balbuzie, l’incedere insicuro di quel pateticume troppo struggente per essere sopportabile. La Napoli degli americani, la Napoli depredata perché infondo nella sua apertura è più arrendevole che appassionata: si lascia sedurre da fuori, da quella salvezza che viene dall’esterno e che per questo condanna se stessa a non emanciparsi mai. Napoli si è modanata a satellite, a periferia del progresso di qualcun altro. Noi, suoi figli, ci siamo trasformati in mercatino dove pizza, mandolino e o sole mio possono esser venduti a un turismo poco attento. Noi napoletani siamo diventati presepe vivente e, io credo, seguiamo una riverenza da conquistati che ci condanna a questo. Una vergogna di scugnizzi. Maria Chirico
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