Apparizioni rubrica diretta da Francesco Panizzo
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La bottiglia di vino vantava poco nettare oramai, retta sulla scrivania tra piatti sporchi, pezzi di formaggio e colori; pennelli qua e là, alcuni secchi, immobili, altri immersi nell'acqua colorata dalle tempere che danzavano con lei nelle piccole onde che si formavano quando veniva urtato il tavolo per sbaglio. Le tele, alcune imbrattate, altre ancora pallide di morte, erano ovunque sparse per tutto l'appartamento. Dalla grande finestra si scorgevano i tetti rossastri e bruni delle case. La sera quando calava il sole tra le colline lontane, uno spiraglio di luce illuminava quei tetti, quell'ultimo raggio che li rendeva fiamminghi al panorama, un attimo prima di spegnersi e far calare così la pece, su quel meraviglioso scorcio. Poi si accendevano i lampioni con le loro timide luci, che illuminavano con pudore il marciapiede affinché i sonnambuli non vagassero nel buio. Lui osservava, da quella grande finestra all'ottavo piano in un minuscolo appartamento a luce soffusa. Non usciva mai, tranne la domenica mattina presto presto, per non incontrare nessuno e comprare al mercato mattutino il necessario per sé che durasse l'intera settimana. Aveva paura della gente e preferiva starsene coricato nel suo minuscolo appartamento a bere vino, gustare formaggi e dipingere.
Quando il suo corpo, ormai rassegnato, cedeva all'enorme sforzo cui lui lo sottoponeva, il pittore decideva di sdraiarsi sul divano, si versava un calice di vino rosso o bianco e osservava dalla finestra pensando a cosa avrebbe dipinto una volta si fosse ripreso. Osservava quei tetti, con i loro umili camini che sputavano nubi di fumo in inverno e che se ne stavano lì inermi al tempo d'estate, probabilmente perché non avevano altro luogo dove andare. Gli parlavano e lui parlava loro. Li dipinse forse cinquanta o più volte, sempre in modi diversi, ma principalmente dipingeva ciò che sentiva di dipingere affidandosi totalmente ai suoi sensi: spesso i suoi sogni, o semplicemente le sue idee, le immagini, la poesia che ritrovava in ogni crepa del muro e ogni bottiglia curva sconfitta dal suo fegato.
Quando il suo corpo, ormai rassegnato, cedeva all'enorme sforzo cui lui lo sottoponeva, il pittore decideva di sdraiarsi sul divano, si versava un calice di vino rosso o bianco e osservava dalla finestra pensando a cosa avrebbe dipinto una volta si fosse ripreso. Osservava quei tetti, con i loro umili camini che sputavano nubi di fumo in inverno e che se ne stavano lì inermi al tempo d'estate, probabilmente perché non avevano altro luogo dove andare. Gli parlavano e lui parlava loro. Li dipinse forse cinquanta o più volte, sempre in modi diversi, ma principalmente dipingeva ciò che sentiva di dipingere affidandosi totalmente ai suoi sensi: spesso i suoi sogni, o semplicemente le sue idee, le immagini, la poesia che ritrovava in ogni crepa del muro e ogni bottiglia curva sconfitta dal suo fegato.
Il neon del locale proprio davanti alla finestra della cucina, o la cucina stessa, disordinata e piena di piatti gettati nel lavabo che attendevano la doccia settimanale. Il suo salotto, cosparso di tele e la sua grassa poltrona verde a pochi metri dalla finestra, con posaceneri grondi di mozziconi su ogni mobile.
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Lui era solito dire: “Perché mai dovrebbe interessarmi la vita o le persone là fuori, quando tro- vo tanto interessanti quelle dentro la mia testa”. D'altronde come biasimare una voce tanto saggia, anche se molti la riterrebbero stolta, nonosante vi sia poca differenza tra le due?
Era autonomo e indipendente, la sua arte lo appagava anche materialmente. C'era un uomo con la barba folta e gli occhi tanto piccoli che quasi non si notavano nascosti tra capelli e peli, che andava a casa sua un lunedì ogni due settimane. Il pittore riceveva da lui una minima somma di denaro in cambio di dieci dipinti. Un accordo che gli avrebbero dato la possibilità di mangiare, pagare l'affitto e pagarsi persino i vizi. Poi, l'uomo con la barba folta dopo essersi trascinato i dipinti a fatica giù per otto piani e dopo averli ben legati nel furgone, li rivendeva al doppio del prezzo ad altri pittori i quali, pittori, erano ben poco. Anche se non tutti sono dotati di talento sin dalla nascita, questo, lo si può sempre costruire col tempo. Ebbene questi compratori si erano riempiti la zucca di teorie e leggi; di libri d'arte e volumi interi che spiegavano, fino al minimo dettaglio, come si dovesse disegnare e quale fosse la linea demarcatoria, che distingua cosa sia arte e cosa non lo sia. Spesso, codesti, dimenticavano perché da bambini o da ragazzi si appas-sionarono tanto a scarabocchiare, dimenticavano le emozioni che li stimolavano a fissare una tela bianca e a darle vita.
Persa la speranza, l'autostima e l'amore per quelle forme, qualsiasi esse fossero, piuttosto che ricordarsi perché un tempo tali pittori avessero amato quell'arte, si erano decisi a comprare dei bellissimi dipinti da altri pittori, figure anonime che neanche uscivano di casa. Un comportamento, questo, di chi è accecato dall'avidità di essere paragonato ai proprio idoli e, purtroppo, anche superiori a questi. Su quei quadri l'unica cosa loro era la firma, ma era anche l'unica cosa che stonava con il resto del quadro.
Era autonomo e indipendente, la sua arte lo appagava anche materialmente. C'era un uomo con la barba folta e gli occhi tanto piccoli che quasi non si notavano nascosti tra capelli e peli, che andava a casa sua un lunedì ogni due settimane. Il pittore riceveva da lui una minima somma di denaro in cambio di dieci dipinti. Un accordo che gli avrebbero dato la possibilità di mangiare, pagare l'affitto e pagarsi persino i vizi. Poi, l'uomo con la barba folta dopo essersi trascinato i dipinti a fatica giù per otto piani e dopo averli ben legati nel furgone, li rivendeva al doppio del prezzo ad altri pittori i quali, pittori, erano ben poco. Anche se non tutti sono dotati di talento sin dalla nascita, questo, lo si può sempre costruire col tempo. Ebbene questi compratori si erano riempiti la zucca di teorie e leggi; di libri d'arte e volumi interi che spiegavano, fino al minimo dettaglio, come si dovesse disegnare e quale fosse la linea demarcatoria, che distingua cosa sia arte e cosa non lo sia. Spesso, codesti, dimenticavano perché da bambini o da ragazzi si appas-sionarono tanto a scarabocchiare, dimenticavano le emozioni che li stimolavano a fissare una tela bianca e a darle vita.
Persa la speranza, l'autostima e l'amore per quelle forme, qualsiasi esse fossero, piuttosto che ricordarsi perché un tempo tali pittori avessero amato quell'arte, si erano decisi a comprare dei bellissimi dipinti da altri pittori, figure anonime che neanche uscivano di casa. Un comportamento, questo, di chi è accecato dall'avidità di essere paragonato ai proprio idoli e, purtroppo, anche superiori a questi. Su quei quadri l'unica cosa loro era la firma, ma era anche l'unica cosa che stonava con il resto del quadro.
Il pittore infondo era contento anche così, lui voleva diffonderli, voleva che la gente li vedesse, li capisse e avrebbe gradito assai parlare per ore perdendosi nella spirale del tempo di come li aveva pensati, dipinti, di come un'immagine vagante nella sua mente fosse stata immobilizzata su di una tela con il solo scuotere d'un pennello.
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Ma aveva un timore segreto, cosa che neanche lui intendeva bene, perciò si accontentava di fare il folle mercenario anonimo e di restar chiuso tra quelle mura. Una sera d'inverno, mentre se ne stava a dipingere una strada che la sua mente gli aveva evocato, udì un grido lanciato dalla finestra. Interruppe il disegno e si avvicinò lentamente a questa.
Guardò in basso e vide un uomo, la cui figura sfocata gli sfuggiva in una coagulazione di colori scuri. Quel tale gli gridava qualcosa, così il pittore s'apprestò a scorgere l'orecchio per udire meglio, sentendo il pronunciato il proprio nome. Quell'uomo, otto piani sotto di lui, gridava a gran voce, alle tre del mattino, il proprio nome. Il pittore irretì i muscoli e sbiancò leggermente chiedendosi chi mai conoscesse il suo nome e il luogo dove abita? Si chiese ancora: “E cosa vorrà mai da me?” Così, preso da quell'adrenalinica curiosità, si infilò la giacca e scese velocemente le scale. Una volta giunto alla porta la aprì lentamente trovandosi fuori dal palazzo. Quell'aria fresca e priva di anidride carbonica gli fece girar la testa tanto era pura. Si guardò attorno e si apprestò a svoltare l'angolo dove si sarebbe dovuto trovare quell'uomo. Girò frettoloso dall'altro lato del palazzo ma, non vi era nessuno. I lampadari fermi in quella notte fredda e oscura gemevano silenziosamente. Il pittore sentì una fitta di disagio che gli salì per le interiora e si apprestò a salire nuovamente nel suo appartamento. Una volta rientrato si tolse il cappotto ancora stordito, e si accese una sigaretta nell'ombra dell'appartamento. I fiochi raggi della luna filtravano per la lastra di vetro della finestra e illuminavano il fumo della sigaretta che si disperdeva in quell'aria usata. Il pittore si avvicinò alla finestra e guardò nuovamente in basso: non c'era nessuno. Aspirò nuovamente sentendo il fumo appesantirgli i polmoni. Poi, aprì la finestra lasciando entrare l’aria fresca in sostituzione dell'accumulo irrespirabile che aleggiava tumido e che il pittore aveva inalato per chissà quanti giorni. Si avviò in cucina e si bevve mezza bottiglia di vino, per poi lasciarsi andare a ebbri sogni, sul suo grasso divano. Il mattino seguente si svegliò tardi e il freddo era penetrato in tutto l'appartamento.
Guardò in basso e vide un uomo, la cui figura sfocata gli sfuggiva in una coagulazione di colori scuri. Quel tale gli gridava qualcosa, così il pittore s'apprestò a scorgere l'orecchio per udire meglio, sentendo il pronunciato il proprio nome. Quell'uomo, otto piani sotto di lui, gridava a gran voce, alle tre del mattino, il proprio nome. Il pittore irretì i muscoli e sbiancò leggermente chiedendosi chi mai conoscesse il suo nome e il luogo dove abita? Si chiese ancora: “E cosa vorrà mai da me?” Così, preso da quell'adrenalinica curiosità, si infilò la giacca e scese velocemente le scale. Una volta giunto alla porta la aprì lentamente trovandosi fuori dal palazzo. Quell'aria fresca e priva di anidride carbonica gli fece girar la testa tanto era pura. Si guardò attorno e si apprestò a svoltare l'angolo dove si sarebbe dovuto trovare quell'uomo. Girò frettoloso dall'altro lato del palazzo ma, non vi era nessuno. I lampadari fermi in quella notte fredda e oscura gemevano silenziosamente. Il pittore sentì una fitta di disagio che gli salì per le interiora e si apprestò a salire nuovamente nel suo appartamento. Una volta rientrato si tolse il cappotto ancora stordito, e si accese una sigaretta nell'ombra dell'appartamento. I fiochi raggi della luna filtravano per la lastra di vetro della finestra e illuminavano il fumo della sigaretta che si disperdeva in quell'aria usata. Il pittore si avvicinò alla finestra e guardò nuovamente in basso: non c'era nessuno. Aspirò nuovamente sentendo il fumo appesantirgli i polmoni. Poi, aprì la finestra lasciando entrare l’aria fresca in sostituzione dell'accumulo irrespirabile che aleggiava tumido e che il pittore aveva inalato per chissà quanti giorni. Si avviò in cucina e si bevve mezza bottiglia di vino, per poi lasciarsi andare a ebbri sogni, sul suo grasso divano. Il mattino seguente si svegliò tardi e il freddo era penetrato in tutto l'appartamento.
Chiuse la finestra mentre si contorceva per il freddo, e riguardando in basso vide tante piccole persone incamminarsi per quel marciapiede. Preparò i colori, la tela e accendendosi una sigaretta si fermò di colpo appena toccato il pennello. Non sapeva cosa dipingere, per la prima volta in vita sua si ritrovò davanti a una tela bianca, sicuro che osservarla tale sarebbe stato più interessante di doverla imbrattare.
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Era bloccato, non vi era nessuna immagine nella sua mente, non ricordava neanche il sogno che aveva fatto; i tetti, ai quali si apprestò ad affacciarsi per essere da essi illuminato, non gli dissero niente. Per la prima volta, dopo otto anni che abitava in quell'appartamento e conversava con quei tetti, loro non avevano niente da dirgli. Si versò subito del vino ma ciò peggiorò la si- tuazione, perché un forte capogiro si impossessò delle sue tempie. Era nel panico, aveva bisogno di disegnare, ma disegnare cosa? Allora lo vide: stava lì nella sua mente, quell'ammasso di ombre giacenti nell'oscurità. Era l'uomo che aveva udito il giorno prima e che aveva urlato il suo nome.
Prese i colori scuri, ne mischiò un paio e poi iniziò a imbrattare la tela. Passò un'ora, due, tre, tutto il pomeriggio finché non calò il tramonto. Si era scordato di mangiare tanto era preso dalla pittura, infine, quando quello spicchio di sole arancione stava per scomparire tra le colline, finì il dipinto. Non fece in tempo ad ammirare il dipinto fresco che qualcuno bussò alla porta ed il pittore si girò di scatto. La porta bianca lo fissava mentre lui era fermo davanti al dipinto fresco con la testa girata rispetto al busto e cosparso di macchie di colori. Altri due colpi leggeri gli fecero risalire la paura della notte precedente. Si avvicinò lentamente alla porta e chiese con la voce tremante: «Chi è?»
Nessuna risposta. «Si può sapere chi diavolo è!?» Gridò fomentando un po’ d’ira. Guardò nell'occhietto della porta, ma la piccola piazzola pareva vuota, allora strinse il pomello nel palmo e lo girò lentamente aprendo la porta. Uscì dall'appartamento e guardò lungo le scale, quand'ecco che sentì due forti mani afferrarlo per la schiena e gettarlo giù per le scale. Aprì gli occhi. Vide tutto molto sfocato, ma riconobbe i colori scuri delle pareti. Poi distinse una figura bianca che gli si agitò di fronte e che gli fece oscillare qualcosa davanti. Scorse una bocca parlare e lentamente iniziò sentire i rumori. - «Mi sente, signor Milakovic riesce a sentire la mia voce?» Il pittore riuscì a mettere a fuoco e vide la faccia di un uomo con la barba rasata ed un paio di occhiali neri sul naso. Portava un camice bianco e molto confuso iniziò a blaterare: «Dove sono? Che suc- cede?» L'uomo con il camice prese una cartella ed iniziò a scrivere, poi il pittore vide una donna bruna dalla pelle olivastra che iniziò ad aggeggiare su di un monitor, lei gli sorrise e aggiustando una flebo uscì dalla stanza.
«Signor Milakovic mi sente? Sono il dottor Estbar, lei ha fatto un gran bel volo, è molto fortunato a essere ancora vivo.»
- «Vivo? Ma di che sta parlando?»
- «Lei signor Milakovic ha fatto un volo lungo circa quattro o cinque piani giù per le scale, avrebbe potuto rompersi l'osso del collo o chissà cos'altro invece ha rotto solo il naso, qualche frattura alle costole, al braccio sinistro e alle mani.»
- «Alle mani? cosa è successo alle mie mani?»
Il pittore si guardò subito le mani e vide un braccio ingessato e l'altro con le dita incavate in bende e ferretti in alluminio.
- «Cristo dottore, che mi è successo alle mani? Potrò ancora utilizzarle?»
- «Si calmi si calmi, ha avuto solo delle fratture, dovrà tenere il gesso per il braccio sinistro per un mese forse poco più, mentre le dita della sua mano destra si rimetteranno massimo in due settimane.»
- «Ma io devo dipingere, devo dipingere ora subito!»
- «Beh sono spiacente signor Milakovic ma lei non potrà dipingere per un po' di tempo, comunque si ritenga molto fortunato. Ora mi scusi devo andare da altri pazienti, le mando un'infermiera e potrà essere dimesso anche tra poche ore.»
- «Dottore aspetti la prego, è mattina? Che giorno è?» Il dottore rimase fermo sulla soglia della stanza e mentre il cerca persone vibrava nella sua cintura con un viso stanco e dispiaciuto disse:
- «È Martedì 2 Gennaio, lei è caduto dalle scale ieri sera e l'ha trovata la vicina del terzo piano svenuto, ha chiamato subito l'ambulanza preoccupata, poi l'hanno portata qui, dove l'abbiamo operata durante la notte, l'anestetico e gli antidolorifici l'hanno fatta dormire come un bambino, ora mi scusi devo andare, verrà un'infermiera ad occuparsi di lei, arrivederci signor Milakovic.» Il pittore rimase disteso e ben ingessato in quello squallido letto, non più squallido del suo d'altronde. Iniziò a porsi un sacco di domande molto confuso, ma...
Prese i colori scuri, ne mischiò un paio e poi iniziò a imbrattare la tela. Passò un'ora, due, tre, tutto il pomeriggio finché non calò il tramonto. Si era scordato di mangiare tanto era preso dalla pittura, infine, quando quello spicchio di sole arancione stava per scomparire tra le colline, finì il dipinto. Non fece in tempo ad ammirare il dipinto fresco che qualcuno bussò alla porta ed il pittore si girò di scatto. La porta bianca lo fissava mentre lui era fermo davanti al dipinto fresco con la testa girata rispetto al busto e cosparso di macchie di colori. Altri due colpi leggeri gli fecero risalire la paura della notte precedente. Si avvicinò lentamente alla porta e chiese con la voce tremante: «Chi è?»
Nessuna risposta. «Si può sapere chi diavolo è!?» Gridò fomentando un po’ d’ira. Guardò nell'occhietto della porta, ma la piccola piazzola pareva vuota, allora strinse il pomello nel palmo e lo girò lentamente aprendo la porta. Uscì dall'appartamento e guardò lungo le scale, quand'ecco che sentì due forti mani afferrarlo per la schiena e gettarlo giù per le scale. Aprì gli occhi. Vide tutto molto sfocato, ma riconobbe i colori scuri delle pareti. Poi distinse una figura bianca che gli si agitò di fronte e che gli fece oscillare qualcosa davanti. Scorse una bocca parlare e lentamente iniziò sentire i rumori. - «Mi sente, signor Milakovic riesce a sentire la mia voce?» Il pittore riuscì a mettere a fuoco e vide la faccia di un uomo con la barba rasata ed un paio di occhiali neri sul naso. Portava un camice bianco e molto confuso iniziò a blaterare: «Dove sono? Che suc- cede?» L'uomo con il camice prese una cartella ed iniziò a scrivere, poi il pittore vide una donna bruna dalla pelle olivastra che iniziò ad aggeggiare su di un monitor, lei gli sorrise e aggiustando una flebo uscì dalla stanza.
«Signor Milakovic mi sente? Sono il dottor Estbar, lei ha fatto un gran bel volo, è molto fortunato a essere ancora vivo.»
- «Vivo? Ma di che sta parlando?»
- «Lei signor Milakovic ha fatto un volo lungo circa quattro o cinque piani giù per le scale, avrebbe potuto rompersi l'osso del collo o chissà cos'altro invece ha rotto solo il naso, qualche frattura alle costole, al braccio sinistro e alle mani.»
- «Alle mani? cosa è successo alle mie mani?»
Il pittore si guardò subito le mani e vide un braccio ingessato e l'altro con le dita incavate in bende e ferretti in alluminio.
- «Cristo dottore, che mi è successo alle mani? Potrò ancora utilizzarle?»
- «Si calmi si calmi, ha avuto solo delle fratture, dovrà tenere il gesso per il braccio sinistro per un mese forse poco più, mentre le dita della sua mano destra si rimetteranno massimo in due settimane.»
- «Ma io devo dipingere, devo dipingere ora subito!»
- «Beh sono spiacente signor Milakovic ma lei non potrà dipingere per un po' di tempo, comunque si ritenga molto fortunato. Ora mi scusi devo andare da altri pazienti, le mando un'infermiera e potrà essere dimesso anche tra poche ore.»
- «Dottore aspetti la prego, è mattina? Che giorno è?» Il dottore rimase fermo sulla soglia della stanza e mentre il cerca persone vibrava nella sua cintura con un viso stanco e dispiaciuto disse:
- «È Martedì 2 Gennaio, lei è caduto dalle scale ieri sera e l'ha trovata la vicina del terzo piano svenuto, ha chiamato subito l'ambulanza preoccupata, poi l'hanno portata qui, dove l'abbiamo operata durante la notte, l'anestetico e gli antidolorifici l'hanno fatta dormire come un bambino, ora mi scusi devo andare, verrà un'infermiera ad occuparsi di lei, arrivederci signor Milakovic.» Il pittore rimase disteso e ben ingessato in quello squallido letto, non più squallido del suo d'altronde. Iniziò a porsi un sacco di domande molto confuso, ma...
...continua nel prossimo numero di PASSPARnous, Sezione letteratura
Tommaso Dati
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