I paradossi di Zenone ci sono stati tramandati attraverso la citazione che ne fa Aristotele nella Fisica. Zenone di Elea, discepolo e amico di Parmenide, propose alcuni paradossi che dimostravano l’impossibilità della molteplicità e del moto rispetto all’Essere unico e immutabile. Qui proponiamo una lettura inedita del secondo paradosso di Zenone relativo al tempo, il paradosso di Achille e della tartaruga. Questo paradosso afferma che se Achille,detto piè veloce, venisse sfidato da una tartaruga nella corsa e concedesse alla tartaruga un piede di vantaggio, non riuscirebbe mai a raggiungerla. Egli prima dovrebbe raggiungere la posizione occupata precedentemente dalla tartaruga che intanto sarà avanzata raggiungendo una nuova posizione che la farà di nuovo essere in vantaggio. E così via. Sicché la distanza fra la lenta tartaruga e Achille, pur riducendosi verso l’infinitamente piccolo, non riuscirà mai ad essere pari a zero. Questo è l’enunciato del paradosso formulato da Zenone. Un paradosso che per Aristotele pone in evidenza come il tempo più che in atto sia potenzialmente divisibile all’infinito, quindi concretamente composto da parti finite che possono essere percorse. Ma come avviene che l’idea del tempo finito passi grazie anche a questo paradosso? Una cosa risulta subito evidente e discutibile: fra Achille e al tartaruga tutto sembra facile, nel senso che la tartaruga sembra assolutamente raggiungibile, per Achille. Anzi rispetto alla tartaruga Achille sembra nato con la camicia. Ossia Achille avrebbe la facoltà innata di raggiungere la tartaruga. Sarebbe dotato, cioè, di una facoltà naturale. Infatti le sue modalità performative rispondenti alla competenza, alla facoltà e alla capacità sono quelle di potere e di dovere raggiungere la tartaruga. E tutto questo apparato sembra essere ideato apposta per evitare la difficoltà e la pietra d’inciampo a Achille. Strano, vero? Nella realtà, però, non avviene così. Quindi, a ben guardare, la tartaruga non rappresenta altro che una metà ideale alla portata del piede di Achille. Ma questo ragionamento che cosa toglie? Questo ragionamento toglie l’ostacolo e lo sforzo. E togliere l’ostacolo e la pietra d’inciampo significa che il passo non c’è perché tutto è immaginato facile e piano. E così, tolto l’ostacolo e la difficoltà, Achille è costretto a segnare il passo e a precipitare nel baratro di una vita ideale e non pragmatica. È, quindi, lecito chiedersi: ma perché mai Achille si prefigge di raggiungere la tartaruga? Perché Achille ha l’idea che il tempo e le cose possano finire. Egli, infatti, parte dall’infinito potenziale e non dall’idea dell’infinito attuale. E questo può accadere perché Achille non considera lo sforzo pulsionale: per lui si tratta soltanto di animazione. Di mentalismo e di mentalità.
La rivoluzione sociale, politica, industriale e finanziaria che fa riferimento alla macchina termodinamica, alla vaporiera, darebbe subito Achille vincente, darebbe Achille come colui che raggiunge senz’altro la tartaruga. E, tuttavia, non solo Achille non raggiunge la tartaruga ma, a partire dall’epoca illuministico-romantica, si tramuta in luogo comune, in soggetto, in vittima destinata al baratro dello sfruttamento, della malattia e della morte. Questa idea del tempo potenziale ossia suddivisibile e contabile, quindi misurabile, economizzabile e risparmiabile, trova la sua massima applicazione tra la fine del Settecento e il secolo scorso. Nell’infinito in atto, invece, non c’è nulla di naturale per Achille e la tartaruga, perché il passo e il piede traggono all’artificio (arte del fare) e alla scrittura delle cose che si fanno, alla scrittura pragmatica e alla scrittura dell’esperienza. Traggano a un’altra materia, dunque! Una materia lontanissima da ogni idealismo della competenza e della facoltà che prefigura la metà facile. Quella metà facile per cui anche se Achille non può raggiungere la tartaruga almeno può comunicare, grazie a internet, con lei. Solo così Achille e la tartaruga avrebbero pari opportunità e sarebbero sullo stesso piano, sarebbero allo stesso livello. Sarebbero, cioè, livellati come fa la morte nella poesia di Totò, “A livella”. Enrico Ratti
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