Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
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The master Un film di Paul Thomas Anderson Durante gli anni Cinquanta, Freddie Quell (Joaquin Phoenix), subisce, come molti altri, le nefaste conseguenze della seconda guerra mon- diale, vive per le strade privo di qualsiasi certezza e, soprattutto, di valori. |
Per caso, un
giorno, conosce Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), fondatore e
incisivo leader di un gruppo pseudo-religioso con teorie e metodi
inediti, innovativi. Fin troppo affascinato dall’arrivo di questo nuovo mondo, Freddie ne diventa un adepto… Sin dalle primissime scene sembra abbastanza chiara l’intenzione del regista di rendere il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix l’epicentro dell’inquadratura con un’evidenza esatta e insistente. Del resto, questa pellicola sembra farsi ricordare quasi esclusivamente per la concentrazione che Anderson mette nella direzione delle ottime interpretazioni (seppur, talvolta, un po’ troppo eccessive) dei due protagonisti, visto che, per quanto riguarda tutti gli altri livelli, l’opera, pur provenendo da un regista che ha plasmato film come Boogie Nights e Magnolia, non sembra distinguersi per nessun’altra particolare caratteristica.
Il film, dotato quasi da subito di una certa banalità pesante, sembra infatti girare a vuoto e intorno a se stesso attraverso una presentazione di scene diverse dove, appunto, il personaggio di Freddie è sempre il centro della visione; momenti attraverso i quali lo spettatore si rende immediatamente conto dell’in-stabilità dai tratti violenti del protagonista, scene ed episodi minimi dal punto di vista dell’avanzamento narrativo collegati dal pericolante fil rouge della sua pazzia dai tratti apatici, biascicati e negativamente eccentrici. |
Ma la violenza di Freddie (e l’occasionale violenza del film in generale), per quanto a tratti particolarmente presente (si pensi, ad esempio, al momento in cui egli aggredisce quasi im- provvisamente l’uomo che sta fotografando) si rivela priva di vera tensione, quasi pacchiana nel suo eccessivo mostrarsi, senza alcun guinzaglio stilistico a dirigerla e a poterla renderla in qualche modo memorabile.
Inoltre, soprattutto nella prima parte del film (quella, diciamo, di preparazione rispetto al successivo precipitare degli eventi) sembra essere presente un tentativo non esattamente riuscito da parte di Anderson di fare del cinema tipicamente moderno, europeo, tipico di molti autori degli anni Sessanta, ad esempio evidenziando ed esaltando stilisticamente attraverso delle riprese fisse momenti quasi minimi, nel senso di quasi inesistenti dal punto di vista narrativo, finendo però in questo modo per dare vita a un accumulo di inquadrature, scene e sequenze dal sapore pra- ticamente inesistente.
Inoltre, soprattutto nella prima parte del film (quella, diciamo, di preparazione rispetto al successivo precipitare degli eventi) sembra essere presente un tentativo non esattamente riuscito da parte di Anderson di fare del cinema tipicamente moderno, europeo, tipico di molti autori degli anni Sessanta, ad esempio evidenziando ed esaltando stilisticamente attraverso delle riprese fisse momenti quasi minimi, nel senso di quasi inesistenti dal punto di vista narrativo, finendo però in questo modo per dare vita a un accumulo di inquadrature, scene e sequenze dal sapore pra- ticamente inesistente.
Quello che può essere considerato, come appena detto, un tentativo da parte del regista di applicare a questo film alcune intenzioni e atmosfere da cinema moderno ed europeo è ben presente, ad esempio, nella fitta, invadente presenza di dialoghi a scapito dell’azione (come in certi insistenti campi/controcampi fra i due protagonisti che, in un momento dell’ultima parte del film, discutono della misteriosa capa-
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cità di rievocare il passato con la concentrazione) che però sembra sfuggire al controllo del regista per diventare solamente un’invasiva presenza di discorsi.
In questo caso, infatti, le parole sembrano riunirsi per appesantire ulteriormente uno sviluppo visivo e diegetico già di per sé abbastanza incrostato e faticoso (non siamo, insomma, certo in presenza di alti esempi di cinema moderno forniti da registi come Rohmer e De Oliveira, nei cui film la parola e i discorsi si fanno spesso ipnosi e sembrano costituire essi stessi i movimenti della macchina da presa).
In questo caso, infatti, le parole sembrano riunirsi per appesantire ulteriormente uno sviluppo visivo e diegetico già di per sé abbastanza incrostato e faticoso (non siamo, insomma, certo in presenza di alti esempi di cinema moderno forniti da registi come Rohmer e De Oliveira, nei cui film la parola e i discorsi si fanno spesso ipnosi e sembrano costituire essi stessi i movimenti della macchina da presa).
Sono tuttavia presenti momenti in cui il talento di Anderson si alza in piedi – seppur, appunto, a fatica –, come nel valore metaforico di certe inquadrature, nella pittura contrastata del rapporto fra Freddie e il gruppo pseudo-religioso di Lancaster, ma anche, ad esempio, nell’intenso piano-sequenza in cui sempre Freddie, ripreso in mezzo primo piano, è costretto da Lancaster, parzialmente fuoricampo, a rispondere ad alcune domande senza poter in alcun modo sbattere le palpebre, momento che non può che generare prolungati scatti di tensione nello spettatore.
Il meccanismo della pellicola scorre nella macchina da presa, ma, allo stesso tempo, è come se il film narrativamente e stilisticamente parlando stesse fermo, involontariamente incastrato nella propria zoppicante ed eccessiva ambizione espressiva, talvolta persino dentro la trappola visiva di una smaccata e tossica grandeur dei meno mirabili film hollywoodiani, come nelle fastidiosamente maestose riprese del mare in campo lungo unite a una tronfia musica.
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Daniel Montigiani
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