Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
La bottega dei suicidi Un film di Patrice Leconte |
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La città senza nome che Leconte mostra immediatamente rappresenta da subito una sorta di grandiosa utopia drasticamente al contrario: una pioggia dalla carica devastante che va a bagnare l’asfissiante traffico che cerca di farsi strada fra enormi e grigi palazzi; abitanti così depressi (soprattutto anche a causa della crisi economica) che, addirittura, vedono il suicidio come unica “luminosa” ed “esaltante” soluzione per interrompere il flusso delle loro esistenze così inquinate di nero.
E, soprattutto, una città dove una famiglia dal forte senso imprenditoriale che, approfittando di tale di- sastroso mosaico di situazioni psicologiche della gente, gestisce un negozio che vende tutto l’equipaggiamento per un perfetto suicidio, per soddisfare così questa colante massa di depressi. A questa filosofia dell’eccesso e del bizzarro che caratterizza la dimensione narrativa Leconte fa scrupolosamente corrispondere l’eccentricità dei colori, della messa in scena e delle riprese.
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L’ottima sequenza nel corso delle quale viene presentato per la prima volta l’interno dell’anomala quanto effettivamente crudele bottega dei suicidi mostra esplicitamente, appunto, il senso di eccesso di tutti gli aspetti di quest’opera, dal profilmico al filmico: attraverso un tanto improbabile quanto macabramente divertente meccanismo da musical, vediamo infatti i due principali membri della famiglia proprietaria della peculiare bottega (il padre e la madre) che, con falsa gentilezza e un entusiasmo unicamente approfittatore, presentano a ogni aspirante suicida tutti i vari strumenti in vendita per compiere il tanto macabro quanto definitivo passo finale (vari tipi di corde, veleni, sacchetti per soffoarsi, armi etc.. etc..). maccuttuhi
Tale macabro delirio rappresentato dal quantomeno peculiare interno della bottega e dal comportamento capitalista e arrivista della famiglia proprietaria del negozio, è ben rappresentato e confermato anche a livello visivo: una sorta di perversamente giocosa giostra felliniana con rapidi movimenti della macchina
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da presa a base,
spesso, di panoramiche a schiaffo, frenetiche carrellate ottiche e
intensi e fitti movimenti in avanti, tutte “agitazioni visive” che
esaltano e rendono più macabramente densi gli allettanti inviti ai
futuri suicidi ad acquistare i loro prodotti per farla definitivamente
finita.
Da notare inoltre come possa risultare almeno destabilizzante o comunque insolito per lo spettatore che, in una città così deprimente e depressa dove c’è più grigio (in qualsiasi senso) che umanità, sia proprio un luogo come la vetrina di questa bottega dei suicidi a spiccare fisicamente e visivamente per brillantezza di colori (per quanto questi ultimi siano in realtà solamente apparenti, ovvero più simili ad acidi e distorti coloranti che non a veri colori): questo perché, appunto, la luminosità di questa vetrina non può che incarnare l’illuminazione tout court, il sollievo dei clienti aspiranti suicidi alla vista di questa, al pensiero che c’è effettivamente un luogo che può aiutarli perfettamente a morire.
Da notare inoltre come possa risultare almeno destabilizzante o comunque insolito per lo spettatore che, in una città così deprimente e depressa dove c’è più grigio (in qualsiasi senso) che umanità, sia proprio un luogo come la vetrina di questa bottega dei suicidi a spiccare fisicamente e visivamente per brillantezza di colori (per quanto questi ultimi siano in realtà solamente apparenti, ovvero più simili ad acidi e distorti coloranti che non a veri colori): questo perché, appunto, la luminosità di questa vetrina non può che incarnare l’illuminazione tout court, il sollievo dei clienti aspiranti suicidi alla vista di questa, al pensiero che c’è effettivamente un luogo che può aiutarli perfettamente a morire.
Tornando di nuovo alla dimensione narrativa del film, è fondamentale ricordare come l’arrivo di un nuovo membro, di un nuovo figlio nella famiglia (il vispo Alan) con la sua sparpagliata voglia di vivere e il suo sorriso così splendidamente insistente da risultare accecante, comincia progressivamente a inserire del vero e proprio autentico colore sia all’interno del negozio (che, poi, alla fine, grazie a lui, si trasformerà in una bottega più pro- positiva) sia, soprattutto, all’interno dei singoli membri della famiglia i quali, essendo sempre più a contatto con l’irrefrenabile joie de vivre del nuovo figlio, sembrano passo dopo passo in qualche modo pentirsi di essersi occupati fino a questo momento di aver condotto a pagamento la gente verso la morte.
Il nuovo arrivato, infatti, soprattutto una volta cres- ciuto, si distingue non soltanto per il suo emettere vita con luminosa gentilezza fino a riuscire addirittura a dissuadere i clienti dall’avviarsi verso il suicidio, ma anche per la sua ariosa capacità di scovare l’incanto, l’en- |
tusiasmo e la bellezza anche in elementi
parzialmente o totalmente negativi (ad Alan, infatti, ad esempio, un anonimo
pezzo di carta furiosamente strappato dal padre ricorda una piccola nevicata).
Un argomento, insomma, come il suicidio che viene qui trattato con un’impronta grottesca, sì, ma di un grottesco egregiamente morbido, che non esclude cioè anche una certa delicatezza nell’esposizione dei fatti; un grottesco da cui, soprattutto verso il finale, scaturisce anche una certa riflessione sul valore di certi piccoli aspetti della vita (valore ben visibile soprattutto nel comportamento del nuovo figlio che è sempre abile a ricavare in qualche modo l’incanto e la bellezza anche da elementi poco positivi), riuscendo parallelamente a non risultare né melenso né tantomeno banale.
Un argomento, insomma, come il suicidio che viene qui trattato con un’impronta grottesca, sì, ma di un grottesco egregiamente morbido, che non esclude cioè anche una certa delicatezza nell’esposizione dei fatti; un grottesco da cui, soprattutto verso il finale, scaturisce anche una certa riflessione sul valore di certi piccoli aspetti della vita (valore ben visibile soprattutto nel comportamento del nuovo figlio che è sempre abile a ricavare in qualche modo l’incanto e la bellezza anche da elementi poco positivi), riuscendo parallelamente a non risultare né melenso né tantomeno banale.
Daniel Montigiani
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