Rivista d'arte
diretta da F. Panizzo |
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ASCOLTO-VISIONE: supporti dell’immaginazione. Suono e immagine sono gradiente qualitativi della nostra esperienza
del mondo: la loro intera- zione ci fa percepire, ad esempio, gli indici
spazio-temporali della nostra posizione rispetto all’am-biente che ci
circonda.
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Ma non sono la stessa cosa dal punto di vista fenomenologico: il suono è un oggetto temporale, un processo impalpabile, e che si sottrae alla vista, mentre nel concetto di immagine vi è sempre una dialettica, un modo di svolgersi che passa attraverso due nozioni integrate, cioè quella di spazio e di punto di vista. D’altra parte che il suono mantenga delle connessioni di solidarietà con l’immagine è fatto che sperimentiamo all’interno del costituirsi della nostra ordinaria esperienza del mondo. Michel Chion lo spiega bene con un esempio molto pertinente in riferimento all’incipit del film, sicuramente il più sperimentale di Bergman, Persona:
Sullo schermo si succedono immagini brutali […]. Scene traumatizzanti di animali sacrificati. Una mano inchiodata. Poi: un obitorio in cui scorre il tempo quotidiano; nell’obitorio, un bambino che sembra inizial- mente un corpo come gli altri, e che invece si agita, vive, legge un libro accosta una mano alla superficie dello schermo […]. Stop! Riavvolgiamo il film di Bergman fino all’inizio e così semplicemente eliminiamo il suono, per provare a rivedere il film dimenticando quanto abbiamo visto in precedenza. Ciò che vediamo è tutt’altro. Il piano della mano inchiodata, tanto per cominciare: nel silenzio scopriamo che si trattava di tre piani distinti, mentre ne avevamo visto soltanto uno perché si legavano grazie al suono. E soprattutto, privata del rumore, la mano inchiodata è astratta. Sonorizzata essa è terrificante, reale. Le immagini dell’obitorio: senza il suono che le legava (uno sgocciolio d’acqua), scopriamo in esse una serie di fotografie fisse, di pezzi di corpi umani isolati gli uni dagli altri, privati di spazio e di tempo […]. Tutta la sequenza ha perso il proprio ritmo e la propria unità[1].
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L’oggetto suono si manifesta all’interno di un cammino temporale e nel
tempo ha la sua origine ma anche la sua fine.
Ma come accade che poi esso si connetta al piano degli oggetti immagini che si vedono? Aristotele – fa notare Carlo Serra in un suo acuto articolo dal titolo “Relazioni narratologiche tra suono e immagine”[2] – ha una sua risposta sorprendente, in grado di mettere in sofferenza la distinzione che abbiamo appena sottolineato con una certa necessità.
Parlando della dimensione acustica dei suoni, Aristotele, nel Secondo Libro del De Anima, precisa per metafora che quanto alle differenze tra i corpi sonori esse si manifestano nel suono in atto. “Come infatti senza luce non si vedono i colori, così senza il suono non si distinguono l’acuto e il grave. Questi termini sono assunti per metafora dagli oggetti del tatto, giacché l’acuto muove il senso molto in poco tempo e il grave molto in poco tempo. […] Tali qualità del suono sembrano avere un’analogia con l’acuto e l’ottuso percepiti dal tatto. L’acuto, infatti, per così dire, punge, mentre l’ottuso spinge, poiché l’uno muove il senso in poco tempo e l’altro in molto, sicché ne consegue che l’uno è veloce e l’altro è lento”[3]. Il visibile e l’udibile sono una dimensione ontologica. E lo sono se presi in considerazione non dal punto di vista storiografico e cronologico, ma dal punto di vista epocale in cui si forma e si struttura la loro esemplarità in riferimento al rapporto tra il vedere e lo sguardo e tra l’udire e l’ascolto. Platone è il filosofo che prima di tutti ha istituito un rapporto stretto tra occhio e verità. Un rapporto non privo di ambiguità, sebbene, poiché come insegna il mito della caverna, è necessario un atto di violenza per destare l’occhio dalla sua pigrizia che lo induce a soffermarsi solo presso il singolo oggetto o presso le immagini in cui si illude di soddisfarsi e di conoscere. Ma anche l’orecchio, diciamo noi, se vuole conoscere se stesso deve ascoltare nell’anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la virtù, cioè la sapienza. Si pensi, a tal proposito, a un’opera musicale come il Prometeo di Luigi Nono.
Ma come accade che poi esso si connetta al piano degli oggetti immagini che si vedono? Aristotele – fa notare Carlo Serra in un suo acuto articolo dal titolo “Relazioni narratologiche tra suono e immagine”[2] – ha una sua risposta sorprendente, in grado di mettere in sofferenza la distinzione che abbiamo appena sottolineato con una certa necessità.
Parlando della dimensione acustica dei suoni, Aristotele, nel Secondo Libro del De Anima, precisa per metafora che quanto alle differenze tra i corpi sonori esse si manifestano nel suono in atto. “Come infatti senza luce non si vedono i colori, così senza il suono non si distinguono l’acuto e il grave. Questi termini sono assunti per metafora dagli oggetti del tatto, giacché l’acuto muove il senso molto in poco tempo e il grave molto in poco tempo. […] Tali qualità del suono sembrano avere un’analogia con l’acuto e l’ottuso percepiti dal tatto. L’acuto, infatti, per così dire, punge, mentre l’ottuso spinge, poiché l’uno muove il senso in poco tempo e l’altro in molto, sicché ne consegue che l’uno è veloce e l’altro è lento”[3]. Il visibile e l’udibile sono una dimensione ontologica. E lo sono se presi in considerazione non dal punto di vista storiografico e cronologico, ma dal punto di vista epocale in cui si forma e si struttura la loro esemplarità in riferimento al rapporto tra il vedere e lo sguardo e tra l’udire e l’ascolto. Platone è il filosofo che prima di tutti ha istituito un rapporto stretto tra occhio e verità. Un rapporto non privo di ambiguità, sebbene, poiché come insegna il mito della caverna, è necessario un atto di violenza per destare l’occhio dalla sua pigrizia che lo induce a soffermarsi solo presso il singolo oggetto o presso le immagini in cui si illude di soddisfarsi e di conoscere. Ma anche l’orecchio, diciamo noi, se vuole conoscere se stesso deve ascoltare nell’anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la virtù, cioè la sapienza. Si pensi, a tal proposito, a un’opera musicale come il Prometeo di Luigi Nono.
Nel Prometeo ritroviamo esattamente la proposta di una
sos- pensione di una struttura cronologico-narrativa, per avviare un
rapporto con il luogo, ovvero una relazione fatta di durata. Il flusso
sonoro genera una serie di eventi che non solo esistono nel tempo
ordinario, ma modellano quello soggettivo. La differenza fra tempo
assoluto e tempo musicale è appunto la differenza tra il tempo che un
brano occupa e il tempo che esso è in grado di evocare. È una metafora,
quest’ultima, che regge anche quando si tratti di una composizione di
oggetti sonori e oggetti visivi aniconici generati da un calcolatore? È decisamente interessante verificare se e come i linguaggi diversi che producono questi og- getti (solo apparentemente concorrenti) riescano a tenersi in- sieme in una struttura complessa non condizionata da conven- zioni linguistiche e alcuna referenzialità (esattamente come avvi- ene per quanto concerne l’ascolto ridotto teorizzato da Schaef-fer)[4].
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Se ciascuno dei linguaggi sta insieme, allora sta insieme anche la struttura (l’equilibratura sintattica) dove essi si trovano giocati, lasciando che siano i linguaggi a decidere infine della posta in gioco. Che è poi, per certi versi, quanto afferma chi ancora oggi fa ricorso alle leggi della pregnanza. Vale a dire chi sostiene che per comprendere il fenomeno percettivo non è sufficiente partire dalla descrizione dei singoli elementi sensoriali ma dalla situazione percettiva globale perché la forma non è data dalla semplice somma dei suoi elementi ma è qualcosa di diverso e di più. Il tutto, però, se la questione resta aperta a una prospettiva più fluida ed elastica, nel senso che nel corso di una composizione audio-video aniconica si possa scoprire, per esempio, dopo cinque minuti, una relazione con un avvenimento occorso due minuti prima e così via in una rete incessante di rimandi che avanzano, arretrano, s’incrociano, si sovrappongono gettando improvvisamente dei ponti in varie direzioni.
Durante l’ascolto-visione percepiamo una successione di eventi immagini ed eventi sonori, qualitativamente distinti tra loro. I rapporti che si definiscono tra questi eventi, le rotture, i contrasti, determinano la maggiore o minore continuità all’interno della struttura dell’opera. Ogni cambiamento crea un prima e un dopo, tra i quali oc- corre gettare un ponte. Ciascun episodio subentra a un altro e, nella maggior parte dei casi, si ha la sensazione che il precedente implichi il successivo. Il rapporto allora potrà essere di tensione o di distensione a seconda della qualità del susseguirsi degli episodi. Se quest’ultimi saranno più stabili dei precedenti, allora si concretizzerà l’idea di dis- tensione, in caso contrario avremo un’idea di tensione. Naturalmente, giustificare l’attrazione esercitata da suoni e immagini e la tensione o distensione che essi producono all’ascolto e alla visione in termini strettamente temporali, di durata[5], può essere contestato come riduttivo. Eppure, credo che seguendo questa direzione bergsoniana la ques- tione possa essere ripresa a un livello problematico assai valido. Poiché l’oggetto sonoro e l’oggetto visivo con le loro differenze qualitative aprono alla dimensione del ricercare. Il che sta a significare che nella stessa strutturazione dell’opera da parte del compositore è presente specificamente un’intenzione conoscitiva. Un’intenzione che va intesa deleuzianamente come creazione di un effetto di superficie al reale nel suo farsi, all’evento del senso in divenire[6]. In maniera tale che suoni e immagini non vadano tenuti fermi come soggiacenti alle loro determinazioni quantitative, ma rappresentino un possibile punto di innesto per le operazioni virtuose dell’immaginazione. Suoni e immagini, dunque, intesi in ogni loro determinazione come vettori dell’immaginazione.
Durante l’ascolto-visione percepiamo una successione di eventi immagini ed eventi sonori, qualitativamente distinti tra loro. I rapporti che si definiscono tra questi eventi, le rotture, i contrasti, determinano la maggiore o minore continuità all’interno della struttura dell’opera. Ogni cambiamento crea un prima e un dopo, tra i quali oc- corre gettare un ponte. Ciascun episodio subentra a un altro e, nella maggior parte dei casi, si ha la sensazione che il precedente implichi il successivo. Il rapporto allora potrà essere di tensione o di distensione a seconda della qualità del susseguirsi degli episodi. Se quest’ultimi saranno più stabili dei precedenti, allora si concretizzerà l’idea di dis- tensione, in caso contrario avremo un’idea di tensione. Naturalmente, giustificare l’attrazione esercitata da suoni e immagini e la tensione o distensione che essi producono all’ascolto e alla visione in termini strettamente temporali, di durata[5], può essere contestato come riduttivo. Eppure, credo che seguendo questa direzione bergsoniana la ques- tione possa essere ripresa a un livello problematico assai valido. Poiché l’oggetto sonoro e l’oggetto visivo con le loro differenze qualitative aprono alla dimensione del ricercare. Il che sta a significare che nella stessa strutturazione dell’opera da parte del compositore è presente specificamente un’intenzione conoscitiva. Un’intenzione che va intesa deleuzianamente come creazione di un effetto di superficie al reale nel suo farsi, all’evento del senso in divenire[6]. In maniera tale che suoni e immagini non vadano tenuti fermi come soggiacenti alle loro determinazioni quantitative, ma rappresentino un possibile punto di innesto per le operazioni virtuose dell’immaginazione. Suoni e immagini, dunque, intesi in ogni loro determinazione come vettori dell’immaginazione.
[1] Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 2001, pp.13-14.
[2] http://www.scribd.com/doc/50212448/Relazioni-Narratologiche-fra-Suono-e-Immagine.
[3] Aristotele, De Anima, a cura di Giancarlo Movia, Rusconi, 1996, pp. 160-161.
[4] L’ascolto ridotto è l’attitudine di ascolto che consiste nell’ascoltare il suono per se stesso, come oggetto sonoro, facendo astrazione dalla sua provenienza, reale o supposta, e dal senso di cui può essere portatore. Più precisamente, consiste nell’invertire questa doppia curiosità per le cause e il senso (che tratta il suono come un intermediario verso altri oggetti considerati attraverso di lui) per rigirarla sul suono stesso. È l’avvenimento che l’oggetto sonoro è per se stesso (e non a cui rinvia), sono i valori che porta in se stesso (e non di cui è il supporto) a cui punta, nell’ascolto ridotto, la nostra intenzione d’ascolto. In un ascolto “normale”, il suono è sempre trattato come veicolo. L’ascolto ridotto si pone quindi come “anti-naturale”, contro tutti i condizionamenti. Serve uno sforzo anti-naturale per accorgersi di ciò che, precedentemente, determinava la coscienza alla sua insaputa. L’atto di fare astrazione dalle nostre abitudini di ascolto è un atto volontaristico e artificiale che ci permette di spiegare molti fenomeni impliciti della nostra percezione.
[5] La durata è il concetto fondamentale della filosofia di Bergson. Il tempo misurabile dalla scienza è il tempo della meccanica, cioè un tempo spazializzato, come il tempo dell’orologio, che è un insieme di posizioni delle lancette sul quadrante; questo è un tempo reversibile, nel senso che in un fenomeno meccanico è possibile tornare indietro e ripartire da capo; nel tempo della meccanica ogni momento è esterno all’altro, è uguale all’altro: un istante segue l’altro e nessun istante è diverso dall’altro; nessun istante è diverso, più intenso o più importante dell’altro. Il tempo dell’esperienza concreta è cosa ben diversa dal tempo della meccanica. E ciò perché il tempo concreto è una durata vissuta, irreversibile, nuova ad ogni istante. La coscienza coglie immediatamente il tempo come durata. E durata vuol dire che l’io vive il presente con la memoria del passato e l’anticipazione del futuro. L’immagine adatta del tempo concreto della coscienza è quella di un gomitolo di filo che cresce conservando se stesso nella vita della coscienza.
[6] G.Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989
[2] http://www.scribd.com/doc/50212448/Relazioni-Narratologiche-fra-Suono-e-Immagine.
[3] Aristotele, De Anima, a cura di Giancarlo Movia, Rusconi, 1996, pp. 160-161.
[4] L’ascolto ridotto è l’attitudine di ascolto che consiste nell’ascoltare il suono per se stesso, come oggetto sonoro, facendo astrazione dalla sua provenienza, reale o supposta, e dal senso di cui può essere portatore. Più precisamente, consiste nell’invertire questa doppia curiosità per le cause e il senso (che tratta il suono come un intermediario verso altri oggetti considerati attraverso di lui) per rigirarla sul suono stesso. È l’avvenimento che l’oggetto sonoro è per se stesso (e non a cui rinvia), sono i valori che porta in se stesso (e non di cui è il supporto) a cui punta, nell’ascolto ridotto, la nostra intenzione d’ascolto. In un ascolto “normale”, il suono è sempre trattato come veicolo. L’ascolto ridotto si pone quindi come “anti-naturale”, contro tutti i condizionamenti. Serve uno sforzo anti-naturale per accorgersi di ciò che, precedentemente, determinava la coscienza alla sua insaputa. L’atto di fare astrazione dalle nostre abitudini di ascolto è un atto volontaristico e artificiale che ci permette di spiegare molti fenomeni impliciti della nostra percezione.
[5] La durata è il concetto fondamentale della filosofia di Bergson. Il tempo misurabile dalla scienza è il tempo della meccanica, cioè un tempo spazializzato, come il tempo dell’orologio, che è un insieme di posizioni delle lancette sul quadrante; questo è un tempo reversibile, nel senso che in un fenomeno meccanico è possibile tornare indietro e ripartire da capo; nel tempo della meccanica ogni momento è esterno all’altro, è uguale all’altro: un istante segue l’altro e nessun istante è diverso dall’altro; nessun istante è diverso, più intenso o più importante dell’altro. Il tempo dell’esperienza concreta è cosa ben diversa dal tempo della meccanica. E ciò perché il tempo concreto è una durata vissuta, irreversibile, nuova ad ogni istante. La coscienza coglie immediatamente il tempo come durata. E durata vuol dire che l’io vive il presente con la memoria del passato e l’anticipazione del futuro. L’immagine adatta del tempo concreto della coscienza è quella di un gomitolo di filo che cresce conservando se stesso nella vita della coscienza.
[6] G.Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989
Roberto Zanata
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