Apparizioni rubrica diretta da Francesco Panizzo
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Il sintomatico, si guardi alla
sua etimologia, e il conflittuale hanno in sè un denominatore comune,
l’incontro fra due eventi o fenomeni.
Questo incontro-scontro comporta un raggiungimento di coscienza della realtà. Così come il conflitto, il quale nasce da una coincidenza (cum-incidere), permette di conoscere la diversità, il guasto; un sintomo che apre al sapere della patologia fenomenica. Stiamo parafrasando il concetto di coscienza. Che cos’è, dunque, la coscienza?
Questo incontro-scontro comporta un raggiungimento di coscienza della realtà. Così come il conflitto, il quale nasce da una coincidenza (cum-incidere), permette di conoscere la diversità, il guasto; un sintomo che apre al sapere della patologia fenomenica. Stiamo parafrasando il concetto di coscienza. Che cos’è, dunque, la coscienza?
Avere coscienza è l’avere consapevolezza del fenomeno (un ritorno alle origini visto che la filosofia non la interpreta oggi in questi termini), e diventa, così, l’atto religioso (res-ligare: legare alle ‘cos’è) che la mente fa a se stessa; una coscienza che acquisisce comprensivamente il sapere (cum-scire: sapere insieme) senza, tuttavia, il “perché” di questo, perché è priva di intenti, venendo, essa, da uno stato di incoscienza e dirigendosi verso uno di ignoranza.
È in
quel momento che il mondo entra a far parte di “me”. Sempre in riferimento alla coscienza citerei quanto segue:
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Coscienza indica, qui, Coscienza di conoscenza e non conoscenza di coscienza, visto che la conoscenza si regge, come un bimbo sul girello, su saperi che conducono alla gnoranza (conoscenza); mentre la coscienza è un salto da un niente verso qualcosa di fondamentalmente più ignoto: coscienza fatale; fatale sia dal punto di vista del fato, casuale ma causale (nemmeno gli dei si potevano sottrarre a lui), sia dal punto di vista della vita o della morte, in quanto avere coscienza ci porta al limite della sopravvivenza.
Magnifica è la coscienza di volare degli uccelli,
la giusta metafora per capire la differenza tra coscienza di conoscenza e
conoscenza di coscienza; l’uccello che sente il brivido del primo volo non avrà
mai la conoscenza del suo volo se prima non lo raggiunge attraverso la
coscienza: un conflitto interiore, quel sintomo sopra citato, che arrischia la
vita stessa per la meravigliosa coscienza di conoscenza di volare; un salto nel
vuoto, dal vuoto coscienzioso al vuoto conoscitivo..
Una vera e propria fede nella conoscenza.
Conoscenza, la figlia d’arte mai sazia di gnoscere che tutto vorrebbe possedere, ma la sua debolezza è la “Potenza” (quella della Volontà di Potenza nietzcheana), dell’uomo: è l’Intenzione che richiama la libertà dal divino per l’uomo, ma che lo imprigiona nella Realtà “fatta a sua Immagine”. Cum-gnoscere è la ricerca, è la volontaria scoperta dell’ignoto che diventa noto a frammenti, dimostrando che la somma delle singole parti non è mai il totale. Conoscere è figurativamente “spulciare”, “usare la lente d’ingrandimento”, una raccolta di particolari che tendono ad approssimarsi al Totale.
Una vera e propria fede nella conoscenza.
Conoscenza, la figlia d’arte mai sazia di gnoscere che tutto vorrebbe possedere, ma la sua debolezza è la “Potenza” (quella della Volontà di Potenza nietzcheana), dell’uomo: è l’Intenzione che richiama la libertà dal divino per l’uomo, ma che lo imprigiona nella Realtà “fatta a sua Immagine”. Cum-gnoscere è la ricerca, è la volontaria scoperta dell’ignoto che diventa noto a frammenti, dimostrando che la somma delle singole parti non è mai il totale. Conoscere è figurativamente “spulciare”, “usare la lente d’ingrandimento”, una raccolta di particolari che tendono ad approssimarsi al Totale.
La conoscenza di coscienza è puramente umana,
figlia di un’evoluzione intellettuale nota col nome di Intenzione. Per conoscere, formiamo un’immagine intenzionale della
realtà che ci si pone davanti (quelle forme
pure a priori Kantiane), abbiamo coscienza dell’Ente ed attraversando l’immagine
ne conosciamo l’entità. Ma a quale immagine facciamo riferimento?
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Le distinzioni
portate sono due: una riferita alla percezione,
quindi legata alla vista; l’altra all’immaginazione,
legata perciò alla coscienza. La percezione e l’immaginazione: pars costruens e pars destruens, l’una legata alla costruzione della realtà (il mondo è qualcosa da costruire, come disse Sartre), l’altra, di contro, distrugge la realtà per arrivare all’irreale, una dimensione che è l’atto nullifico della realtà.. Ecco che ritorna il salto dal vuoto coscienzioso al vuoto conoscitivo.
Ecco allora comparire, come un’immagine, la patologia fenomenica del fenomeno patologico dato dall’immagine: l’immagine della realtà, di me, di me nella realtà e della realtà dentro me; citando Sartre: “Il n’y a pas, il ne saurait y avoir d’images dans la conscience. Mais l’image est un certain type de conscience”.
Allora, ciò che mi separa dalla realtà non è altro che un’immagine, che può assumere le forme più disparate che conosciamo, dalla forma scritta ai profondi simboli, passando per la mia immagine e quella dell’Altro (dove, s’intenda, l’Altro è l’oggetto dell’atto conoscitivo). Il nostro rapporto con l’immagine risulta patologico, dove il mecca- nismo preveda che la patologia si manifesti come un’ingiunzione a noi stessi, di un’immagine innalzata ad oggetto di coscienza; quando invece, replicando Sartre, l’immagine è solo un atto della coscienza. Il nostro è un continuo attraversamento di niente verso Altro, di ponti conoscitivi su fiumi di immagini; il nostro è un continuo rimanere a metà strada fra intuizioni, interpretazioni e deduzioni: siamo come l’apostrofo e il nostro conoscere è un continuo apostrofare realtà a noi misconosciute, per vivere nel nostro perfetto immaginario.
Ecco allora comparire, come un’immagine, la patologia fenomenica del fenomeno patologico dato dall’immagine: l’immagine della realtà, di me, di me nella realtà e della realtà dentro me; citando Sartre: “Il n’y a pas, il ne saurait y avoir d’images dans la conscience. Mais l’image est un certain type de conscience”.
Allora, ciò che mi separa dalla realtà non è altro che un’immagine, che può assumere le forme più disparate che conosciamo, dalla forma scritta ai profondi simboli, passando per la mia immagine e quella dell’Altro (dove, s’intenda, l’Altro è l’oggetto dell’atto conoscitivo). Il nostro rapporto con l’immagine risulta patologico, dove il mecca- nismo preveda che la patologia si manifesti come un’ingiunzione a noi stessi, di un’immagine innalzata ad oggetto di coscienza; quando invece, replicando Sartre, l’immagine è solo un atto della coscienza. Il nostro è un continuo attraversamento di niente verso Altro, di ponti conoscitivi su fiumi di immagini; il nostro è un continuo rimanere a metà strada fra intuizioni, interpretazioni e deduzioni: siamo come l’apostrofo e il nostro conoscere è un continuo apostrofare realtà a noi misconosciute, per vivere nel nostro perfetto immaginario.
Mohamed Khayat
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