Racconto breve Un Giorno Di Nebbia Un gelido soffio di vento mi percosse. Provai un brivido fortissimo, lo ricordo ancora come fosse successo ieri, mentre ammiravo la stesura della campagna infinita, quel verde intenso che si protendeva fino alle colline che pian piano sparivano, coperte da una fitta nebbia che avrebbe sommerso tutto. |
Era un giorno freddo, tutto era immobile come se il tempo avesse deciso di fermarsi per concedermi quegli ultimi momenti da passare con mio padre, ormai giunto innanzi alle porte dell’ignoto. Guardai l’orologio che avevo al polso, constando che le lancette giravano. Gettai il mozzicone della sigaretta a terra e lo calpestai fortemente facendo sì che le scintille che vi ardevano dentro si spegnessero, poi spostai il piede ed osservai il mozzicone schiacciato al suolo. Rientrai nella grande casa, lasciandomi alle spalle quell’enorme estesa di natura, che vi giaceva inerte a coloro che ne calpestavano il suolo. Il calore della casa fece sì che il sangue tornasse a circolare con facilità nelle mie vene. Mi tolsi il grosso cappotto appoggiandolo su una poltrona dai ricami rinascimentali, e mi avventurai per i lunghi e tetri corridoi di quella villa. Era l’alba, non importa di che giorno o di che anno, semplicemente un’alba. Io e i miei fratelli ci eravamo riuniti nella grande villa in campagna per farci forza l’un l’altro specialmente a nostra madre, mentre le ali della morte avvolgevano lentamente nostro padre. Un uomo caparbio, ricco e potente ma soprattutto malato. Da anni ormai conviveva con la forte malattia che lo affliggeva, troppi anni per una convivenza con una tale agonia, in pochi le avrebbero tenuto testa come fece lui. Il corridoio mi pareva infinito e l’assenza di finestre lungo quel tratto lo rendevo oscuro ad ogni ora. Giunsi nella sala da pranzo, dove mia sorella sedeva attorno al tavolo, leggeva un libro del quale non ricordo nulla se non la forma sostanziosa.
- Come sta?
Tolse gli occhi dal libro e lasciando il segno alla pagina lo chiuse, poi mi guardò e disse:
- Il dottore dice che sta peggiorando, manca poco.
- E tu come stai?
- Io sto! È questo ciò che importa che noi tutti stiamo, dobbiamo essere forti e aiutare la mamma.
Gli occhi le sgrondavano lacrime così la strinsi forte a me in un abbraccio. Mia sorella è troppo buona con mio padre, troppo buona con tutti, troppo buona per questo mondo troppo marcio. La liberai dal mio abbraccio e le asciugai le lacrime con i pollici, ci guardammo per poco e poi la baciai sulla fronte e le disse che avrei preparato del caffè. Mi avviai verso la cucina che neanche più ricordavo dove fosse. Cercai tra gli scaffali il caffè, lo misi nella caffettiera e lo appoggiai sul fornello che emanava fuoco caloroso.
Pensai: sarebbe comodo vivere come le fiamme di un fornello, accendersi e spegnersi, con un solo gesto. Ma forse non siamo tanto diversi da una piccola scintilla che vive e muore. Mi avvicinai alla finestra, aveva le cornici bianche e sbriciolate dal tempo, osservai attraverso il lieve vetro la campagna, milioni di ricordi di infanzia mi riaffiorarono nella mente, poi guardai verso le colline e vidi che la nebbia si stava protendendo sempre più, entro poche ore ci avrebbe sommerso. Il caffè era pronto, lo misi in due tazze e tornai da mia sorella. Le porsi la tazza e mi sedetti davanti a lei.
- Gli hai parlato?
Mi chiese ad un tratto mentre sorseggiavo dalla tazza.
- No.
- E lo farai?
Un lungo silenzio si impadronì della stanza.
- Non lo so.
La guardai ma lei evitò il mio sguardo. Sorseggiò il caffè.
- Lo sa che sei qui almeno? Sei andato a vederlo?
- L’ho visto prima, stava dormendo
- Ha chiesto molto di te in questi giorni
- Sono arrivato il prima possibile!
- Lo so non volevo dire questo
- Sai quanto è difficile per me essere qui!
- Lo so, ma ora non c’è più tempo per serbare rancore, ciò che è successo è successo, se devi dirgli qualcosa devi farlo ora, il dottore dice che molto probabilmente non vedrà l’alba di domani.
- Già.
Lasciai andare un lungo sospiro, finii il caffè con un gran sorso e poggiandole una mano sulla spalla, mi avviai nuovamente per il corridoio. Uscii dalla porta e accesi un’altra sigaretta, era almeno la ventesima oggi ed erano solo le otto e mezza, per i miei polmoni sarebbero giunti giorni inquietanti. È difficile perdonare, forse la cosa più difficile che ci sia è proprio il perdono e sapere che hai addirittura le ore contate per farlo, beh questa tensione non aiuta di certo. I miei pensieri erano tutti offuscati e confusi, aspirai profondamente fino a sentire lo scricchiolio del tabacco della sigaretta, tanto era il silenzio. Pensare che mi ritrovai proprio in quel giardino dove una volta giocavo a calcio con degli amici; una volta colpii per sbaglio con il pallone la testa del signor Wighenbann, odioso e dogmatico vicino, che si infuriò e lo disse a mio padre, il quale con voce calma lo tranquillizzò garantendogli che non sarebbe più successo. Quella sera dopo che i miei amici se ne andarono, mio padre mi convocò nel suo studio e appena chiusi la porta, senza rendermene conto mi arrivò uno schiaffo a mano ferma tanto forte che caddi a terra. Mentre mi sgridava dicendomi che mi sarei sognato il pallone da allora in poi e mi rimproverava sulle figure che gli facevo fare con i vicini, io pensavo disteso a terra asciugandomi il sangue dalla bocca. Eccolo qui, il grande Ronald Hower, bancario miliardario, che spacca il labbro al figlio undicenne.
Non scorderò mai quel giorno, come non scorderò quella volta in cui mia sorella, una piccola bambina ingenua, disse a tavola che avevo una fidanzata, ebbene, mio padre si ingegnò per risalire al suo nome, scoprendo che era quello di una ragazza semplice di famiglia, una Contadina. Questa mi passione venne amplificata da mio padre che la definì una mia “distrazione” e attraverso strani giri di pessime amicizie, fece in modo che lei con tutta la famiglia si trasferisse fuori dalla città, così dissi addio al mio unico amore.
Già, ecco che persona era mio padre, un uomo che voleva il meglio per me, arrivandoci nel peggiore dei modi: scuole private strapagate, studio ossessivo, così da farmi odiare ogni singola molecola che costituisse il mio essere, per poi, un giorno, promettermi che, in quanto primo genito, avrei preso io le redini in mano della sua società bancaria.
Se c’è una cosa che ho sempre saputo fin da piccolo è che non avrei mai fatto il lavoro di mio padre, e tanto meno sarei diventato come lui. Ho passato l’intera vita a odiarlo, per ciò che ha fatto a me, ai miei fratelli, a mia madre, e ora, appena due giorni fà, dopo dieci anni che non avevo notizie di lui, ho ricevuto una telefonata da mia sorella, la quale mi ha detto che stava morendo. In quel momento sentii l’opposto di ciò che ho sempre presupposto mi sarebbe accaduto, ho sempre immaginat, per quell momento, una liberazione, un gemito di conforto che mi avrebbe percorso tutto il corpo; finalmente libero! Invece niente. Un vuoto totale, non sentii più rancore, rabbia, passai tutta la vita a odiarlo e alla notizia attesa non provai niente.
Non c’è peggiore sensazione da provare di questa, un vuoto enorme dentro che non potrà più essere colmato.
- Come sta?
Tolse gli occhi dal libro e lasciando il segno alla pagina lo chiuse, poi mi guardò e disse:
- Il dottore dice che sta peggiorando, manca poco.
- E tu come stai?
- Io sto! È questo ciò che importa che noi tutti stiamo, dobbiamo essere forti e aiutare la mamma.
Gli occhi le sgrondavano lacrime così la strinsi forte a me in un abbraccio. Mia sorella è troppo buona con mio padre, troppo buona con tutti, troppo buona per questo mondo troppo marcio. La liberai dal mio abbraccio e le asciugai le lacrime con i pollici, ci guardammo per poco e poi la baciai sulla fronte e le disse che avrei preparato del caffè. Mi avviai verso la cucina che neanche più ricordavo dove fosse. Cercai tra gli scaffali il caffè, lo misi nella caffettiera e lo appoggiai sul fornello che emanava fuoco caloroso.
Pensai: sarebbe comodo vivere come le fiamme di un fornello, accendersi e spegnersi, con un solo gesto. Ma forse non siamo tanto diversi da una piccola scintilla che vive e muore. Mi avvicinai alla finestra, aveva le cornici bianche e sbriciolate dal tempo, osservai attraverso il lieve vetro la campagna, milioni di ricordi di infanzia mi riaffiorarono nella mente, poi guardai verso le colline e vidi che la nebbia si stava protendendo sempre più, entro poche ore ci avrebbe sommerso. Il caffè era pronto, lo misi in due tazze e tornai da mia sorella. Le porsi la tazza e mi sedetti davanti a lei.
- Gli hai parlato?
Mi chiese ad un tratto mentre sorseggiavo dalla tazza.
- No.
- E lo farai?
Un lungo silenzio si impadronì della stanza.
- Non lo so.
La guardai ma lei evitò il mio sguardo. Sorseggiò il caffè.
- Lo sa che sei qui almeno? Sei andato a vederlo?
- L’ho visto prima, stava dormendo
- Ha chiesto molto di te in questi giorni
- Sono arrivato il prima possibile!
- Lo so non volevo dire questo
- Sai quanto è difficile per me essere qui!
- Lo so, ma ora non c’è più tempo per serbare rancore, ciò che è successo è successo, se devi dirgli qualcosa devi farlo ora, il dottore dice che molto probabilmente non vedrà l’alba di domani.
- Già.
Lasciai andare un lungo sospiro, finii il caffè con un gran sorso e poggiandole una mano sulla spalla, mi avviai nuovamente per il corridoio. Uscii dalla porta e accesi un’altra sigaretta, era almeno la ventesima oggi ed erano solo le otto e mezza, per i miei polmoni sarebbero giunti giorni inquietanti. È difficile perdonare, forse la cosa più difficile che ci sia è proprio il perdono e sapere che hai addirittura le ore contate per farlo, beh questa tensione non aiuta di certo. I miei pensieri erano tutti offuscati e confusi, aspirai profondamente fino a sentire lo scricchiolio del tabacco della sigaretta, tanto era il silenzio. Pensare che mi ritrovai proprio in quel giardino dove una volta giocavo a calcio con degli amici; una volta colpii per sbaglio con il pallone la testa del signor Wighenbann, odioso e dogmatico vicino, che si infuriò e lo disse a mio padre, il quale con voce calma lo tranquillizzò garantendogli che non sarebbe più successo. Quella sera dopo che i miei amici se ne andarono, mio padre mi convocò nel suo studio e appena chiusi la porta, senza rendermene conto mi arrivò uno schiaffo a mano ferma tanto forte che caddi a terra. Mentre mi sgridava dicendomi che mi sarei sognato il pallone da allora in poi e mi rimproverava sulle figure che gli facevo fare con i vicini, io pensavo disteso a terra asciugandomi il sangue dalla bocca. Eccolo qui, il grande Ronald Hower, bancario miliardario, che spacca il labbro al figlio undicenne.
Non scorderò mai quel giorno, come non scorderò quella volta in cui mia sorella, una piccola bambina ingenua, disse a tavola che avevo una fidanzata, ebbene, mio padre si ingegnò per risalire al suo nome, scoprendo che era quello di una ragazza semplice di famiglia, una Contadina. Questa mi passione venne amplificata da mio padre che la definì una mia “distrazione” e attraverso strani giri di pessime amicizie, fece in modo che lei con tutta la famiglia si trasferisse fuori dalla città, così dissi addio al mio unico amore.
Già, ecco che persona era mio padre, un uomo che voleva il meglio per me, arrivandoci nel peggiore dei modi: scuole private strapagate, studio ossessivo, così da farmi odiare ogni singola molecola che costituisse il mio essere, per poi, un giorno, promettermi che, in quanto primo genito, avrei preso io le redini in mano della sua società bancaria.
Se c’è una cosa che ho sempre saputo fin da piccolo è che non avrei mai fatto il lavoro di mio padre, e tanto meno sarei diventato come lui. Ho passato l’intera vita a odiarlo, per ciò che ha fatto a me, ai miei fratelli, a mia madre, e ora, appena due giorni fà, dopo dieci anni che non avevo notizie di lui, ho ricevuto una telefonata da mia sorella, la quale mi ha detto che stava morendo. In quel momento sentii l’opposto di ciò che ho sempre presupposto mi sarebbe accaduto, ho sempre immaginat, per quell momento, una liberazione, un gemito di conforto che mi avrebbe percorso tutto il corpo; finalmente libero! Invece niente. Un vuoto totale, non sentii più rancore, rabbia, passai tutta la vita a odiarlo e alla notizia attesa non provai niente.
Non c’è peggiore sensazione da provare di questa, un vuoto enorme dentro che non potrà più essere colmato.
Tornai in casa e mi accucciai sul divano, pensando e pensando, quando, ecco che sentii delle voci di bambini che venivano dalla cucina. Mi alzai confuso e mi avviai verso il corridoio udendo le voci sempre più vicine, percorsi la sala da pranzo, e giunto in cucina vidi tre bambini seduti davanti al tavolo, che mi davano le spalle. Una strana sensazione si impadronì di me. Mi avvicinai furtivamente, quando vidi sbucare da una porta una donna con lunghi capelli castani, ed un viso giovanile e fresco, ornato da due grandi occhi neri.
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Portava un vestito celeste con dei fiori, quel vestito mi era molto familiare, quella donna mi era molto familiare, le guardai meglio il volto e realizzai, che era mia madre. Caddi in terra e per poco non svenni, subito vidi i bambini scendere dalle sedie e andarle in contro emanando gioa dalle corde vocali. Fu allorà che veramente mi spaventai; i bambini erano mia sorella, mio fratello e io.
Sgranai gli occhi più volte pensando d’esser pazzo, o che quella fosse un’assurda allucinazione e forse lo era, ma ero troppo confuso per concepire l’inconcepibile, dunque rimasi paralizzato a osservare. Ero io, a undici anni appena, mio fratello Joseph di nove e mia sorella Dayane di sette, almeno così realizzai in seguito, ma in quel momento vedevo solo la mia infanzia danzarmi davanti, ed era uno scenario troppo surreale. Non mi vedevano, mi avvicinai a loro cercando di toccarli, ma nulla, semplicemente non vi era contatto, li toccavo ma loro non percepivano minimamente il mio gesto, ed ecco che la porta si spalancò ed entrò mio padre. Subito vi fu silenzio, le grida e gli abbracci cessarono, i bambini si misero in fila come dei soldati, mio padre gli passò davanti e poi si fermò scrutandoli.
- Cosa diavolo è questo chiasso, eh!? Sto facendo degli importanti conti di lavoro e voi vociate come se fossimo in una locanda di balordi ignoranti!?
- Ma caro, i bambini mi sono solo venuti in contro, sono tornata ora dalla messa.
- Zitta tu, non ti permetterò di fare dei nostri figli dei maleducati, cafoni, chiassosi.
Mia madre indietreggiò soffocando le parole che avrebbe voluto dire. Mio padre si fermò davanti al me stesso di undici anni e abbassandosi alla sua altezza disse:
- Cos’era quel macello eh, Michael? Lo sai che io mi fido di te, tu sei il più grande devi tenere a bada i tuo fratelli più piccoli, non voglio sentire mai più questo baccano, sono stato chiaro? Rispondimi, sono stato chiaro o no?
- Si signore.
Poi uscì dalla stanza, e mia madre, senza neanche guardarci, andò in salotto. Quella scena non la ricordavo, ma chissà quante ne rimossi. Non feci in tempo a pensare ad altro, che mi svegliai sul divano. Mi guardai attorno, accorgendomi che era tutto abbandonato, nella villa regnava il caos, vi erano ragnatele e insetti che strisciavano e sgusciavano da ogni crepa, l’umidità aveva trapassato i muri decadenti e tutto era frantumato in quell’orribile buco che era la nostra casa. Corsi alla porta per uscire dalla casa e, una volta spalancata dinnanzi a me, non vi era più l’estesa natura che regnava prima, bensì terra devastata, lacerata da buche profonde, di verde non vi era niente, solo terra morta, un’intera distesa desolata, morte ovunque.
Non contemplai ulteriormente quella landa devastata che, di lontano, vidi un pallone scorrere tra le macerie e mio padre, vecchio e nudo, che gli correva dietro. Un atroce mal di testa mi trapassò il cranio, mi accucciai a terra chiudendo gli occhi e strizzandomi le tempie. Riaprii gli occhi ed ero in un bosco. Avevo l’ansia, mi batteva forte il cuore e non capivo cosa diavolo stesse succedendo.
Dov’ero? Cosa voleva dire tutto ciò? Cosa diavolo mi stava succedendo, ero dunque impazzito? Oddio, ero impazzito, chissà, ora, cosa mi sarebbe successo. Stavo per piangere quando vidi una ragazza in lontananza correre per il bosco, e un giovane dietro a lei, ridevano immersi in quel folto reame di alberi, illuminato dai fiochi raggi di sole che ne trapassavano le foglie. Mi passarono davanti e riconobbi Maria, il mio grande amore adolescenziale e subito dietro quel giovane. Ero io. Gli corsi dietro, i ricordi iniziavano ad affluire nella mente trovando familiarità in tutto ciò che mi circondava, certo! Quel giorno fu il primo giorno che diedi un bacio. Li rincorsi per un paio di metri, finché non si fermarono a un ruscello. Maria immerse le belle gambe lisce nell’acqua fresca e il giovane si sedette accanto a lei.
- Tu mi ami Michael?
- C’erto che ti amo Maria, lo sai.
- E prometti che non mi lascerai mai e che nessuno ci dividerà?
- Prometto!
- Neanche tuo padre?
- Neanche lui soffocherà mai l’ardore che mi brucia dentro per te.
E lei avvicinò le sue timide labbra a quelle del giovane me, congiungendole con un dolce bacio. Era un bacio vero, probabilmente l’unico bacio vero che diedi in vita. Mi avvicinai a loro, fino a sedermi accanto al me stesso adolescente e quando i due si staccarono dal bacio, lui girò la testa di scatto dandomi un’occhiata gelida, ficcandomi un coltello in gola facendo spruzzare il mio sangue su se stesso, dunque su me stesso. Tutto divenne buio.
Vidi una luce da lontano che mi veniva in contro, era una luce assai abbagliante, che mi trapassava gli occhi e diminuiva sempre di più il mio campo visivo fino ad accecarmi, allora realizzai che era un treno, mi scansai dai binari con rapidità adrenalinica, riuscendo ad evitarlo per un secondo appena. Giacevo nella melma, o qualcosa di simile, umido, appiccicoso ed estremamente puzzolente, non riuscivo ad identificarlo perché la luce era svanita con quel treno, dunque, rimasi, ovunque fossi, immerso nelle tenebre più totali. Mi alzai sentendomi mezzo di quella strana sostanza, e muovendo le braccia speravo di captare la forma di qualcosa al quale mi sarei potuto aggrappare, o, comunque, che mi desse un minimo senso d’orientamento. Sotto ai piedi sentivo strane sostanze solide, che continuavo a calpestare e a scavalcare credendo fossero tronchi. Camminai a lungo con le mani tese, immerso nella paura e la follia che mi stava divorando la ragione. In quell’istante toccai qualcosa di molliccio, che subito mi fece ritrarre il braccio mentre un brivido mi percorreva il corpo. Un’orrenda sensazione, cercai di mettere a fuoco e a un tratto tutto si illuminò. Un’enorme luce sopraggiunse sulle tenebre tanto da accecarmi la vista. Tenni chiusi gli occhi per un poco, finché li aprii lentamente fino a mettere a fuoco. Ero in una galleria, a terra giacevano migliaia di burattini in legno che mi fissavano tutti con i loro volti immobili, palpai qualcosa, era la mia testa mozzata che mi fissava. Ero pietrificato, non riuscivo a muovere un muscolo e vidi che ero pregno di sangue marcio.
Mi svegliai.
Sgranai gli occhi più volte pensando d’esser pazzo, o che quella fosse un’assurda allucinazione e forse lo era, ma ero troppo confuso per concepire l’inconcepibile, dunque rimasi paralizzato a osservare. Ero io, a undici anni appena, mio fratello Joseph di nove e mia sorella Dayane di sette, almeno così realizzai in seguito, ma in quel momento vedevo solo la mia infanzia danzarmi davanti, ed era uno scenario troppo surreale. Non mi vedevano, mi avvicinai a loro cercando di toccarli, ma nulla, semplicemente non vi era contatto, li toccavo ma loro non percepivano minimamente il mio gesto, ed ecco che la porta si spalancò ed entrò mio padre. Subito vi fu silenzio, le grida e gli abbracci cessarono, i bambini si misero in fila come dei soldati, mio padre gli passò davanti e poi si fermò scrutandoli.
- Cosa diavolo è questo chiasso, eh!? Sto facendo degli importanti conti di lavoro e voi vociate come se fossimo in una locanda di balordi ignoranti!?
- Ma caro, i bambini mi sono solo venuti in contro, sono tornata ora dalla messa.
- Zitta tu, non ti permetterò di fare dei nostri figli dei maleducati, cafoni, chiassosi.
Mia madre indietreggiò soffocando le parole che avrebbe voluto dire. Mio padre si fermò davanti al me stesso di undici anni e abbassandosi alla sua altezza disse:
- Cos’era quel macello eh, Michael? Lo sai che io mi fido di te, tu sei il più grande devi tenere a bada i tuo fratelli più piccoli, non voglio sentire mai più questo baccano, sono stato chiaro? Rispondimi, sono stato chiaro o no?
- Si signore.
Poi uscì dalla stanza, e mia madre, senza neanche guardarci, andò in salotto. Quella scena non la ricordavo, ma chissà quante ne rimossi. Non feci in tempo a pensare ad altro, che mi svegliai sul divano. Mi guardai attorno, accorgendomi che era tutto abbandonato, nella villa regnava il caos, vi erano ragnatele e insetti che strisciavano e sgusciavano da ogni crepa, l’umidità aveva trapassato i muri decadenti e tutto era frantumato in quell’orribile buco che era la nostra casa. Corsi alla porta per uscire dalla casa e, una volta spalancata dinnanzi a me, non vi era più l’estesa natura che regnava prima, bensì terra devastata, lacerata da buche profonde, di verde non vi era niente, solo terra morta, un’intera distesa desolata, morte ovunque.
Non contemplai ulteriormente quella landa devastata che, di lontano, vidi un pallone scorrere tra le macerie e mio padre, vecchio e nudo, che gli correva dietro. Un atroce mal di testa mi trapassò il cranio, mi accucciai a terra chiudendo gli occhi e strizzandomi le tempie. Riaprii gli occhi ed ero in un bosco. Avevo l’ansia, mi batteva forte il cuore e non capivo cosa diavolo stesse succedendo.
Dov’ero? Cosa voleva dire tutto ciò? Cosa diavolo mi stava succedendo, ero dunque impazzito? Oddio, ero impazzito, chissà, ora, cosa mi sarebbe successo. Stavo per piangere quando vidi una ragazza in lontananza correre per il bosco, e un giovane dietro a lei, ridevano immersi in quel folto reame di alberi, illuminato dai fiochi raggi di sole che ne trapassavano le foglie. Mi passarono davanti e riconobbi Maria, il mio grande amore adolescenziale e subito dietro quel giovane. Ero io. Gli corsi dietro, i ricordi iniziavano ad affluire nella mente trovando familiarità in tutto ciò che mi circondava, certo! Quel giorno fu il primo giorno che diedi un bacio. Li rincorsi per un paio di metri, finché non si fermarono a un ruscello. Maria immerse le belle gambe lisce nell’acqua fresca e il giovane si sedette accanto a lei.
- Tu mi ami Michael?
- C’erto che ti amo Maria, lo sai.
- E prometti che non mi lascerai mai e che nessuno ci dividerà?
- Prometto!
- Neanche tuo padre?
- Neanche lui soffocherà mai l’ardore che mi brucia dentro per te.
E lei avvicinò le sue timide labbra a quelle del giovane me, congiungendole con un dolce bacio. Era un bacio vero, probabilmente l’unico bacio vero che diedi in vita. Mi avvicinai a loro, fino a sedermi accanto al me stesso adolescente e quando i due si staccarono dal bacio, lui girò la testa di scatto dandomi un’occhiata gelida, ficcandomi un coltello in gola facendo spruzzare il mio sangue su se stesso, dunque su me stesso. Tutto divenne buio.
Vidi una luce da lontano che mi veniva in contro, era una luce assai abbagliante, che mi trapassava gli occhi e diminuiva sempre di più il mio campo visivo fino ad accecarmi, allora realizzai che era un treno, mi scansai dai binari con rapidità adrenalinica, riuscendo ad evitarlo per un secondo appena. Giacevo nella melma, o qualcosa di simile, umido, appiccicoso ed estremamente puzzolente, non riuscivo ad identificarlo perché la luce era svanita con quel treno, dunque, rimasi, ovunque fossi, immerso nelle tenebre più totali. Mi alzai sentendomi mezzo di quella strana sostanza, e muovendo le braccia speravo di captare la forma di qualcosa al quale mi sarei potuto aggrappare, o, comunque, che mi desse un minimo senso d’orientamento. Sotto ai piedi sentivo strane sostanze solide, che continuavo a calpestare e a scavalcare credendo fossero tronchi. Camminai a lungo con le mani tese, immerso nella paura e la follia che mi stava divorando la ragione. In quell’istante toccai qualcosa di molliccio, che subito mi fece ritrarre il braccio mentre un brivido mi percorreva il corpo. Un’orrenda sensazione, cercai di mettere a fuoco e a un tratto tutto si illuminò. Un’enorme luce sopraggiunse sulle tenebre tanto da accecarmi la vista. Tenni chiusi gli occhi per un poco, finché li aprii lentamente fino a mettere a fuoco. Ero in una galleria, a terra giacevano migliaia di burattini in legno che mi fissavano tutti con i loro volti immobili, palpai qualcosa, era la mia testa mozzata che mi fissava. Ero pietrificato, non riuscivo a muovere un muscolo e vidi che ero pregno di sangue marcio.
Mi svegliai.
|
Mi ritrovai sulla poltrona, mi alzai di scatto e ripresi fiato lentamente, il cuore mi balzava in petto, tanto batteva. Con le mani tra i capelli e facendo grossi respiri mi tranquillizzai lentamente. Rividi ogni scena. Mi guardai a lungo in torno, felice che tutto fosse tornato normale, era solo un sogno, pensai, un orribile sogno. Mi alzai lentamente e mi avviai in cucina, in casa vi era un silenzio spettrale. Cercai qualcuno chiamando mia sorella o mia madre, finché una voce mi spaventò.
|
- Perché gridi Michael?
- Joseph, cristo mi hai spaventato!
Mio fratello mi fissò immobile.
- Ho fatto un sogno surreale. Dissi.
Sì, pensavo fosse reale, ma era un sogno, Cristo è stato orribile! - Stai tremando e con te trema anche la tua voce, calmati Michael.
- Non puoi capire, era così reale! - Cos’è reale? In quel momento Joseph cambiò tono di voce, divenne più cupo e pesante.
- Smettila Joseph, non ho voglia di scherzare, hai capito.
- Nessuno scherza, hai detto che sembrava reale, ebbene cos’è che è reale, dunque? Iniziai a impallidire, mentre la paura mi assaliva nuovamente.
- Basta, mi fai uscire di testa, smettila non è divertente, la realtà è questa, ciò che posso vedere.
- Ma anche prima hai visto, eppure pensi che essa non fosse reale!?
- Tu non sei Joseph, chi diavolo sei, oh mio Dio non è finito, sta ancora succedendo!
- Cosa sta succedendo, Michael? Di cosa stai parlando?
- No smettila, tu non sei reale, io sto sognando, questa non è la vita vera!
- Ma la vita è un sogno, tu non sei reale come non lo sono io, oppure lo siamo a secondo della definizione che dai alla realtà.
Caddi a terra strizzandomi gli orecchi e chiudendo gli occhi, non stava succedendo davvero, non era possibile. Mio fratello iniziò ad avvicinarsi a me.
- Fermo! Tu non sei Joseph! Stai lontano da me!
- Michael ma che diavolo stai dicendo?
Scappai, corsi via da quella stanza per il corridoio, fino ad arrivare nella sala centrale dove corsi su per le scale, mi avviai velocemente mentre il cuore mi batteva fortissimo, ed entrai nella stanza dove avrebbe dovuto giacere mio padre, chiusi la porta e girandomi di scatto vidi che ero faccia a faccia con me stesso.
- Non ho finito con te Michael, non ti azzardare a darmi le spalle!
Era la voce di mio padre, in piedi dietro alla sua scrivania, io ero pietrificato alla porta, e vidi me stesso davanti a me che lanciò un lungo sospiro e si girò. Si avviò verso mio padre e a un palmo da lui gli sputò nel viso, allora un cazzotto lo gettò a terra e nuovamente giacevo su quel tappeto con il labbro spaccato. Io ero incollato alla porta, immobile, mentre osservavo la mia figura adolescenziale contorta per terra. Mio padre si pulì la bava dal volto, poi gli strappò la camicia e, sfilandosi la cintura, iniziò a frustarlo. Vedevo il suo volto gonfio di dolore che mi guardava con occhi fissi, io ero immobile alla porta, e mi sembrava che lui mi vedesse, quel giorno lo ricordavo, mi spaccò la schiena. Dopo una ventina di atroci frustate il sangue colava dalle spalle, mio padre lasciò la cinghia gettandola a terra, e trapassandomi uscì dalla porta. Rimasi fermo, a osservare il me stesso sedicenne, a terra con la schiena gonfia, colante di sangue e il volto lavato dalle lacrime. Lui mi guardò ancora e poi abbassò il volto. Mi voltai e uscii dalla porta, andando verso la stanza da letto dei miei genitori, la aprii e irrompendo nel bagno lo trovai chino nella vasca da bagno. Lui non mi poteva vedere, ma io vedevo lui, un uomo distrutto immerso in una vasca vuota che riempiva con le sue lacrime, mentre si teneva le mani tra i capelli.
Aveva gli occhi gonfi di dolore e le lacrime laceravano le gote. Per la prima volta vidi il vero volto di mio padre. Non lo avevo mai visto piangere e mai pensai che soffrisse così dopo ciò che mi faceva. Provai pietà, disprezzo, ma niente odio, niente rabbia, non avevo mai saputo di questo, nessuno, neanche mia madre pensai e chissà quante volte dopo che mi prendeva a legnate si rifugiava in quella vasca a versare lacrime acide che imploravano pietà e perdono. Non passò molto tempo, che Joseph irruppe nella stanza munito di pistola.
Guardando il mio volto stordito mi infilò del piombo tra i pensieri.
- Joseph, cristo mi hai spaventato!
Mio fratello mi fissò immobile.
- Ho fatto un sogno surreale. Dissi.
Sì, pensavo fosse reale, ma era un sogno, Cristo è stato orribile! - Stai tremando e con te trema anche la tua voce, calmati Michael.
- Non puoi capire, era così reale! - Cos’è reale? In quel momento Joseph cambiò tono di voce, divenne più cupo e pesante.
- Smettila Joseph, non ho voglia di scherzare, hai capito.
- Nessuno scherza, hai detto che sembrava reale, ebbene cos’è che è reale, dunque? Iniziai a impallidire, mentre la paura mi assaliva nuovamente.
- Basta, mi fai uscire di testa, smettila non è divertente, la realtà è questa, ciò che posso vedere.
- Ma anche prima hai visto, eppure pensi che essa non fosse reale!?
- Tu non sei Joseph, chi diavolo sei, oh mio Dio non è finito, sta ancora succedendo!
- Cosa sta succedendo, Michael? Di cosa stai parlando?
- No smettila, tu non sei reale, io sto sognando, questa non è la vita vera!
- Ma la vita è un sogno, tu non sei reale come non lo sono io, oppure lo siamo a secondo della definizione che dai alla realtà.
Caddi a terra strizzandomi gli orecchi e chiudendo gli occhi, non stava succedendo davvero, non era possibile. Mio fratello iniziò ad avvicinarsi a me.
- Fermo! Tu non sei Joseph! Stai lontano da me!
- Michael ma che diavolo stai dicendo?
Scappai, corsi via da quella stanza per il corridoio, fino ad arrivare nella sala centrale dove corsi su per le scale, mi avviai velocemente mentre il cuore mi batteva fortissimo, ed entrai nella stanza dove avrebbe dovuto giacere mio padre, chiusi la porta e girandomi di scatto vidi che ero faccia a faccia con me stesso.
- Non ho finito con te Michael, non ti azzardare a darmi le spalle!
Era la voce di mio padre, in piedi dietro alla sua scrivania, io ero pietrificato alla porta, e vidi me stesso davanti a me che lanciò un lungo sospiro e si girò. Si avviò verso mio padre e a un palmo da lui gli sputò nel viso, allora un cazzotto lo gettò a terra e nuovamente giacevo su quel tappeto con il labbro spaccato. Io ero incollato alla porta, immobile, mentre osservavo la mia figura adolescenziale contorta per terra. Mio padre si pulì la bava dal volto, poi gli strappò la camicia e, sfilandosi la cintura, iniziò a frustarlo. Vedevo il suo volto gonfio di dolore che mi guardava con occhi fissi, io ero immobile alla porta, e mi sembrava che lui mi vedesse, quel giorno lo ricordavo, mi spaccò la schiena. Dopo una ventina di atroci frustate il sangue colava dalle spalle, mio padre lasciò la cinghia gettandola a terra, e trapassandomi uscì dalla porta. Rimasi fermo, a osservare il me stesso sedicenne, a terra con la schiena gonfia, colante di sangue e il volto lavato dalle lacrime. Lui mi guardò ancora e poi abbassò il volto. Mi voltai e uscii dalla porta, andando verso la stanza da letto dei miei genitori, la aprii e irrompendo nel bagno lo trovai chino nella vasca da bagno. Lui non mi poteva vedere, ma io vedevo lui, un uomo distrutto immerso in una vasca vuota che riempiva con le sue lacrime, mentre si teneva le mani tra i capelli.
Aveva gli occhi gonfi di dolore e le lacrime laceravano le gote. Per la prima volta vidi il vero volto di mio padre. Non lo avevo mai visto piangere e mai pensai che soffrisse così dopo ciò che mi faceva. Provai pietà, disprezzo, ma niente odio, niente rabbia, non avevo mai saputo di questo, nessuno, neanche mia madre pensai e chissà quante volte dopo che mi prendeva a legnate si rifugiava in quella vasca a versare lacrime acide che imploravano pietà e perdono. Non passò molto tempo, che Joseph irruppe nella stanza munito di pistola.
Guardando il mio volto stordito mi infilò del piombo tra i pensieri.
Un gocciolio d’acqua mi trapassava i timpani. Aprii lentamente gli occhi e mi ritrovai in una stanza illuminata e totalmente bianca. Vi era un’enorme specchio, che si protendeva da una parte del muro. Mi alzai lentamente avviandomi verso questo. Vi guardai dentro e l’immagine che vi si riflesse era quella di mio padre. Indietreggiai di alcuni passi e, muovendo gli arti, constatai che ero io mio padre, o almeno ero nel suo corpo.
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Osservai a lungo la pelle marcia che mi copriva, le rughe del tempo che perorrevano il volto, quel volto che avevo odiato e ripudiato e che ora era il mio. Stavo per piangere quando si spalancò la porta. Entrai nella stanza, o almeno il mio corpo entrò nella stanza, era munito della cinghia di mio padre, e mi guardò a lungo. Io ero mio padre davanti a me stesso senza che io fossi lui, stavo per esplodere! Cos’era tutto ciò?
- Che sta succedendo?, dissi balbettando.
- Succede che ora tocca a te soffrire tanto quanto hai fatto soffrire me!, disse me stesso.
Non potei dire altro che mi si avventò contro e iniziò a frustarmi. Gridavo, piangevo, era orribile.
- Fermo io sono te, sono te in questo corpo!
Nulla, continuava ininterrottamente con frustate sempre più forti, mi lacerava la carne, la sua mente violentata era immune a qualsiasi parola e orrore visivo al quale assisteva. Mentre pezzi di carne ricoperti di sangue mi venivano strappati di dosso pensai che io anche se ne avessi avuto la possibilità, mai avrei fatto ciò a mio padre. Così pensando, tutto finì. La mia immagine vendicativa e assetata di sangue scomparve e non provai più dolore per le frustate ricevute. Mi avvicinai allo specchio ed ero di nuovo io, ero io nel mio corpo. La porta era aperta e lentamente ne oltrepassai la soglia. Dall’altra parte vi era la villa, casa mia con mia madre, mio padre, i miei fratelli ed io, tutti quanti sorridenti davanti a una macchina fotografica. Era il giorno dell’acquisto della casa, ci facemmo fotografare sorridenti con alle spalle quella villa troppo grande per una persona troppo piccola come mio padre, il suo ego però, ne compensava la grandezza. Appena venne scattata la fotografia la villa esplose, e parti della casa schizzarono addosso alla mia famiglia comprimendola sotto macerie incandescenti, me compreso. Apri gli occhi. Ero nell’Universo. Dondolavo nello spazio, ammirando stelle, pianeti e strane forme, le stesse che osservavo da piccolo con il telescopio. Era tutto così immense e io ondeggiavo in quel tutto.
- Allora Michael?!
Una voce lontana mi percosse, mi girai lentamente o meglio ondeggiai verso quel suono e vidi me stesso bambino.
- Hai capito adesso?
Non riuscivo a credere ai miei occhi, mai non ci credetti come ora, stavo ondeggiando nello spazio, faccia a faccia con me stesso di circa otto anni.
- Cosa sta succedendo, cos’è tutto questo, chi sei tu?
- La domanda l’ho fatta io a te?
- Ma chi diavolo sei? Che mi sta succedendo? Sono morto, pazzo? Cos’è tutto questo?
- Sei tu.
- Io?
- Si tu, tua sorella, tuo fratello, tua madre, tuo padre, i vicini gli amici, i conoscenti, gli abitanti del pianeta, dell’Universo.
- Ma sono nello spazio.
- Tu sei lo spazio Michael, come me come tutti!
Ma cosa vuol dire tutto ciò? Che cazzo stai dicendo? Sei reale?, e questo è reale?
Se secondo te lo è, allora si.
- Vedi Michael, noi umani non ci rendiamo conto di cosa voglia dire, vita, o morte, o spazio, o realtà, abbiamo dato dei nomi a delle cose, idee, sentimenti, per poterne parlare senza sapere che non è parlandone che li conosceremo. La vita è qualcosa di immenso, la ragione è un limite che ci siamo posti, come lo scetticismo o il nichilismo o qualsiasi cosa ci imponga di non essere tutt’uno con tutto, perché è questo che siamo. Il tutto.
Rimasi a osservarlo, mentre stelle infuocate mi passavano sotto ai piedi e ondeggiavo in assenza di gravità.
- Tutto è vita, la morte stessa è vita e la vita è morte, la felicità è tristezza ed essa è felicità, il dualismo stesso è solo l’uno, le due facce della medaglia le abbiamo scolpite noi, tutto ciò che c’è è la medaglia, ed è una. Dobbiamo cancellare i lati alla medaglia e divenire essa, perché tu sei, io sono, egli è, e noi siamo. Noi siamo, Michael, e tu sei tuo padre quanto lui è te, dunque, amalo, ama te stesso e ama tutto e tutti, e sii. In quel momento caddi.
Iniziai a sprofondare cadendo velocemente in basso, senza che vi fosse un basso o una fine. Presi sempre più velocità, iniziando a sentire dolore a ogni muscolo che si contratto, caddi nel vuoto. Mi svegliai.
Mi alzai dalla poltrona, tutto era.. non normale, in quanto non seppi più cosa fosse normale, ma tutto era come lo ricordavo. Uscii fuori in giardino e vidi solo nebbia che ricoprì tutto come avevo previsto. Rientrai velocemente in casa e corsi su per le scale, le salii rapidamente, gridando i nomi dei miei fratelli, irruppi nella stanza di mio padre e lo trovai lì, pallido mi fissò, mentre il dottore riordinò la sua borsa. Caddi ai piedi del letto, abbracciai mio padre e lui abbracciò me. Piansi e lui pianse, poi ci guardammo, con il suo debole sguardo a fatica aprì la bocca dicendo:
- Mi dispiace tanto.
Gli tappai la bocca con l’indice e mentre le lacrime sgorgavano dai miei occhi, dissi, con maggior fatica:
- Io ti perdono.
Allora lui sorrise e i suoi occhi gonfi di lacrime si chiusero, mentre, strappato da dentro, espresse un lungo sospiro, rimase immobile come me, accasciato al letto.
- Che sta succedendo?, dissi balbettando.
- Succede che ora tocca a te soffrire tanto quanto hai fatto soffrire me!, disse me stesso.
Non potei dire altro che mi si avventò contro e iniziò a frustarmi. Gridavo, piangevo, era orribile.
- Fermo io sono te, sono te in questo corpo!
Nulla, continuava ininterrottamente con frustate sempre più forti, mi lacerava la carne, la sua mente violentata era immune a qualsiasi parola e orrore visivo al quale assisteva. Mentre pezzi di carne ricoperti di sangue mi venivano strappati di dosso pensai che io anche se ne avessi avuto la possibilità, mai avrei fatto ciò a mio padre. Così pensando, tutto finì. La mia immagine vendicativa e assetata di sangue scomparve e non provai più dolore per le frustate ricevute. Mi avvicinai allo specchio ed ero di nuovo io, ero io nel mio corpo. La porta era aperta e lentamente ne oltrepassai la soglia. Dall’altra parte vi era la villa, casa mia con mia madre, mio padre, i miei fratelli ed io, tutti quanti sorridenti davanti a una macchina fotografica. Era il giorno dell’acquisto della casa, ci facemmo fotografare sorridenti con alle spalle quella villa troppo grande per una persona troppo piccola come mio padre, il suo ego però, ne compensava la grandezza. Appena venne scattata la fotografia la villa esplose, e parti della casa schizzarono addosso alla mia famiglia comprimendola sotto macerie incandescenti, me compreso. Apri gli occhi. Ero nell’Universo. Dondolavo nello spazio, ammirando stelle, pianeti e strane forme, le stesse che osservavo da piccolo con il telescopio. Era tutto così immense e io ondeggiavo in quel tutto.
- Allora Michael?!
Una voce lontana mi percosse, mi girai lentamente o meglio ondeggiai verso quel suono e vidi me stesso bambino.
- Hai capito adesso?
Non riuscivo a credere ai miei occhi, mai non ci credetti come ora, stavo ondeggiando nello spazio, faccia a faccia con me stesso di circa otto anni.
- Cosa sta succedendo, cos’è tutto questo, chi sei tu?
- La domanda l’ho fatta io a te?
- Ma chi diavolo sei? Che mi sta succedendo? Sono morto, pazzo? Cos’è tutto questo?
- Sei tu.
- Io?
- Si tu, tua sorella, tuo fratello, tua madre, tuo padre, i vicini gli amici, i conoscenti, gli abitanti del pianeta, dell’Universo.
- Ma sono nello spazio.
- Tu sei lo spazio Michael, come me come tutti!
Ma cosa vuol dire tutto ciò? Che cazzo stai dicendo? Sei reale?, e questo è reale?
Se secondo te lo è, allora si.
- Vedi Michael, noi umani non ci rendiamo conto di cosa voglia dire, vita, o morte, o spazio, o realtà, abbiamo dato dei nomi a delle cose, idee, sentimenti, per poterne parlare senza sapere che non è parlandone che li conosceremo. La vita è qualcosa di immenso, la ragione è un limite che ci siamo posti, come lo scetticismo o il nichilismo o qualsiasi cosa ci imponga di non essere tutt’uno con tutto, perché è questo che siamo. Il tutto.
Rimasi a osservarlo, mentre stelle infuocate mi passavano sotto ai piedi e ondeggiavo in assenza di gravità.
- Tutto è vita, la morte stessa è vita e la vita è morte, la felicità è tristezza ed essa è felicità, il dualismo stesso è solo l’uno, le due facce della medaglia le abbiamo scolpite noi, tutto ciò che c’è è la medaglia, ed è una. Dobbiamo cancellare i lati alla medaglia e divenire essa, perché tu sei, io sono, egli è, e noi siamo. Noi siamo, Michael, e tu sei tuo padre quanto lui è te, dunque, amalo, ama te stesso e ama tutto e tutti, e sii. In quel momento caddi.
Iniziai a sprofondare cadendo velocemente in basso, senza che vi fosse un basso o una fine. Presi sempre più velocità, iniziando a sentire dolore a ogni muscolo che si contratto, caddi nel vuoto. Mi svegliai.
Mi alzai dalla poltrona, tutto era.. non normale, in quanto non seppi più cosa fosse normale, ma tutto era come lo ricordavo. Uscii fuori in giardino e vidi solo nebbia che ricoprì tutto come avevo previsto. Rientrai velocemente in casa e corsi su per le scale, le salii rapidamente, gridando i nomi dei miei fratelli, irruppi nella stanza di mio padre e lo trovai lì, pallido mi fissò, mentre il dottore riordinò la sua borsa. Caddi ai piedi del letto, abbracciai mio padre e lui abbracciò me. Piansi e lui pianse, poi ci guardammo, con il suo debole sguardo a fatica aprì la bocca dicendo:
- Mi dispiace tanto.
Gli tappai la bocca con l’indice e mentre le lacrime sgorgavano dai miei occhi, dissi, con maggior fatica:
- Io ti perdono.
Allora lui sorrise e i suoi occhi gonfi di lacrime si chiusero, mentre, strappato da dentro, espresse un lungo sospiro, rimase immobile come me, accasciato al letto.
Nei giorni seguenti restai con i miei fratelli in quella casa, tra pianti e ricordi, amici e conoscenti e l’organizzazione del funerale. Mia madre rimase chiusa in camera, non voleva vedere nessuno. La gente veniva e andava, vecchi colleghi di lavoro, vecchi amici, falsi amici, chiunque avesse avuto a che fare con mio padre, durante la sua vita, si precipitava alla porta e riempiva me e i miei fratelli di condoglianze.
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Vi erano gli amici sinceri che soffrivano con noi e poi i falsi, gli ipocriti che si dispiacevano come ottimi attori mentre cercavano di prendere le redini della grande società e dividersela tra loro. Tutti volevano un pezzo della torta, o la torta per intero, a nessuno interessava colui che la creò. Io ero l’erede di tutto e, dopo lunghe discussioni, decisi con i miei fratelli che non un solo centesimo del capitale che mio padre racimolò durante tutta una vita sarebbe andato a quei parassiti, tanto meno a noi. Decidemmo di dare tutto, fino all’ultimo centesimo, a diversi centri di assistenza per disabili, a centri per la cura della tossicodipendenza, agli ospedali, alla ricerca, nella speranza che scopra il rimedio per combattere il cancro, alla neuropsichiatria, ai missionari e ai poveri, a coloro che non hanno denaro ma meritano di avere tanto quanto noi.
Perché meritano? Semplicemente perché sono, e chiunque è ha il diritto di essere nella sua totalità. Sicuro che fosse esattamente ciò che avrebbe voluto mio padre, mentre con quegli occhi grondanti lacrime mi sorrise, a un passo dalla morte.
Oh vita, oh amore, oh galassia, oh albero, sasso, fiore, pianta, mare, oceano, terra, luce, odio, buio, violenza, lussuria, inganno, nichilismo, fascismo, comunismo, consumismo, meccanismo, città, campagna, grattacielo, casa, legno, scaffali, scarpe, parrucche, televisioni, cimitero, termosifone, aria, acqua, vento, briciole, carne, macchina, treno, burattini, fogli, penne, stereo, pianoforte, arte, storia, matematica, filosofia, astrologia, avvocato, muratore, spazzino, dottore, caos, equilibrio, pietra, strofa, parola, documento, energia, stella, rancore, nebbia…
Sarà che noi siamo e dobbiamo voler essere.
Perché meritano? Semplicemente perché sono, e chiunque è ha il diritto di essere nella sua totalità. Sicuro che fosse esattamente ciò che avrebbe voluto mio padre, mentre con quegli occhi grondanti lacrime mi sorrise, a un passo dalla morte.
Oh vita, oh amore, oh galassia, oh albero, sasso, fiore, pianta, mare, oceano, terra, luce, odio, buio, violenza, lussuria, inganno, nichilismo, fascismo, comunismo, consumismo, meccanismo, città, campagna, grattacielo, casa, legno, scaffali, scarpe, parrucche, televisioni, cimitero, termosifone, aria, acqua, vento, briciole, carne, macchina, treno, burattini, fogli, penne, stereo, pianoforte, arte, storia, matematica, filosofia, astrologia, avvocato, muratore, spazzino, dottore, caos, equilibrio, pietra, strofa, parola, documento, energia, stella, rancore, nebbia…
Sarà che noi siamo e dobbiamo voler essere.
Tommaso Dati
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