Cognizioni
Quando l’emozione scappa
Il desiderio non ha mai trovato spazio nell’ordine sociale.
Da quando quest’ultimo si è esteso all’infinito attraverso modelli e standard sempre più quantitativi predisposti all’ottimizzazione e non all’invenzione creativa, la produzione ha fatto un passo al di là, in direzione di se stessa, senza altra motivazione. Il loop continuo si è sostituito all’alienazione. Goodbye Marx. |
L’emozione è stata incrinata, compromessa. La lentezza del colpo ne ha caratterizzato la robustezza dell’esito: l’emozione è diventata un’altra cosa, molto più simile allo stimolo, come quello di andare in bagno.
L’instaurarsi di questo regime d’urgenza d’emozione [quest’emozione che (mi) scappa] procura una contrazione-dilatazione del desiderio: da un lato l’aspetto evolutivo-formulativo del desiderio si comprime al minimo, diviene per lo più esteriore, meglio, di superficie; dall’altro si dilata, il desiderio diventa quantitativo e non qualitativo. Scappano le emozioni, senza filtro: arrivano come necessità al vuoto, tutto è emozione, diventa banale. La banalità non è vuota, anzi, è colma, è il pieno di leggerezza fatto nel peggior sistema possibile: il neocapitalismo nell’era della speculazione digitale. Speculazione non solo economica ma anche affettiva: quella dei soggetti sempre più individui “perso-nalizzati”. Di più, “iperpersonalizzati”, tutti quanti tendenzialmente uguali. Sembri che la globalizzazione riesca benissimo a categorizzarci attraverso la propaganda personale, la pubblicità dell’individuo. Più ci crediamo particolari più siamo simili. È un capolavoro a suo modo.
In fondo le personalizzazioni arrivano dai modelli che si articolano tra di loro, si fondono o bruscamente s’interrompono, per scivolare poi sempre nel tessuto sociale, ora pronto ad accettare queste “nuove emozioni d’urgenza”. Nell’epoca dell’indeterminazione (dalla relatività, al principio di Heisenberg, alla teoria delle stringhe) si cerca “senso”, è l’imperativo categorico. Deleuze & Guattari nell’Anti-Edipo, parlando del desiderio, l’hanno detto chiaramente, non bisogna chiederci “cosa significa?” ma “come funziona?”. Il desiderio, l’inconscio, non ha senso, ma funziona! Anche il sistema economico/commerciale non ha senso e funziona. Dagli anni in cui il design ha cominciato a prendere di mira le masse fino ad arrivare a noi, con le nostre case Ikea, funzionalissime! Noi proiettati all’interno di un mondo iperfunzionale (e indeterminato) chiediamo senso per non schizofrenizzarci. Addirittura ci affidiamo ai sondaggi (sigh!). Tutto funziona, quindi non ci chiediamo come funzioni, ma solo cosa significhi.
L’instaurarsi di questo regime d’urgenza d’emozione [quest’emozione che (mi) scappa] procura una contrazione-dilatazione del desiderio: da un lato l’aspetto evolutivo-formulativo del desiderio si comprime al minimo, diviene per lo più esteriore, meglio, di superficie; dall’altro si dilata, il desiderio diventa quantitativo e non qualitativo. Scappano le emozioni, senza filtro: arrivano come necessità al vuoto, tutto è emozione, diventa banale. La banalità non è vuota, anzi, è colma, è il pieno di leggerezza fatto nel peggior sistema possibile: il neocapitalismo nell’era della speculazione digitale. Speculazione non solo economica ma anche affettiva: quella dei soggetti sempre più individui “perso-nalizzati”. Di più, “iperpersonalizzati”, tutti quanti tendenzialmente uguali. Sembri che la globalizzazione riesca benissimo a categorizzarci attraverso la propaganda personale, la pubblicità dell’individuo. Più ci crediamo particolari più siamo simili. È un capolavoro a suo modo.
In fondo le personalizzazioni arrivano dai modelli che si articolano tra di loro, si fondono o bruscamente s’interrompono, per scivolare poi sempre nel tessuto sociale, ora pronto ad accettare queste “nuove emozioni d’urgenza”. Nell’epoca dell’indeterminazione (dalla relatività, al principio di Heisenberg, alla teoria delle stringhe) si cerca “senso”, è l’imperativo categorico. Deleuze & Guattari nell’Anti-Edipo, parlando del desiderio, l’hanno detto chiaramente, non bisogna chiederci “cosa significa?” ma “come funziona?”. Il desiderio, l’inconscio, non ha senso, ma funziona! Anche il sistema economico/commerciale non ha senso e funziona. Dagli anni in cui il design ha cominciato a prendere di mira le masse fino ad arrivare a noi, con le nostre case Ikea, funzionalissime! Noi proiettati all’interno di un mondo iperfunzionale (e indeterminato) chiediamo senso per non schizofrenizzarci. Addirittura ci affidiamo ai sondaggi (sigh!). Tutto funziona, quindi non ci chiediamo come funzioni, ma solo cosa significhi.
Uno dei caratteri fondamentali dell’emozione è la sua insita schizofrenia che ci fa chiedere: come funzioniamo realmente?
L’Io è sempre troppo distratto perché capisca, ma il corpo sente i colpi incessanti, i trasbordamenti continui, “le farfalle nello stomaco”. I nostri organi ballano e la testa frigge. Altro carattere importante è l’illusione. Quel che sentiamo è indecifrabile: sentiamo questo bisogno di dirci e dire cosa è. |
Cerchiamo di tradurlo con un linguaggio incompatibile, quello della razione e da qui nasce l’illusione, ovvero lo scarto che si viene a creare tra desiderio e descrizione: rappresentazione del desiderio (a cui segue poi la sua spettacolarizzazione).
Fa parte del gioco sempre improbabile e fittizio quanto estenuante dell’individuo alle prese con se stesso. Cuccioli deviati dalla cultura, dalla psicologia, dalla scienza, dal mercato. Cuccioli troppo abitudinari.
Questa vana ricerca ha portato a “salvaguardare” l’emozione da quello “scarto”, l’illusione. Ma l’illusione è seducente e non possiamo farne a meno, per questo la salvaguardia dell’individuo combacia all’adesione di massa, all’illusione totale: l’informazione. Illusi dall’informazione, dal sistema, più certi sul non illuderci riguardo le nostre emozioni. L’emozione ha perso il suo carattere fondamentale: il fascino della curiosità; per far posto all’osceno.
Niente più pianti. Niente più urla. Solo orgasmi tristi. Paure tagliate con la camomilla.
Sorrisi di convenienza. L’indifferenza a livello individuale, la banalità di massa. 24 ore su 24.
Abbiamo catalogato le nostre emozioni sotto etichetta e poi le abbiamo esposte per essere più sicuri di non farci troppo male: abbiamo un target, un brand delle nostre emozioni. Target, brand: l’auto-marketing nell’era della distribuzione individuale come ci sta facendo funzionare? Inutile chiedersi se ha senso, la risposta è “certo, anche tu, sì, proprio tu, puoi distribuirti, fatti furbo!”. “Fatti furbo”, ovvero, ingegnoso sulla tua pubblicità: dalla società dello spettacolo siamo passato allo spettacolo di ognuno per se stesso. Abbiamo nuclearizzato al massimo la società dello spettacolo. Come stiamo funzionando con l’auto marketing? (Non è questa la sede, ma è una riflessione che dovremmo fare).
Attenzione. C’è chi non si chiede “che significa”, c’è chi non si chiede il senso, e tuttavia nemmeno si chiede come funziona. In quella che abbiamo detto l’era incerta, (un’era più perfezionista che inventiva, altro risultato dell’incertezza: non inventare ma migliorare, potenziare all’infinitesimale), si cerca senso nelle emozioni. C’è chi non lo cerca, ma non può reggere assolutamente il peso di quell’incertezza, e cerca di attutirla con il Mito. I Miti moderni di massa e individuali. Ed ecco che anche così non mettiamo in atto l’aspetto attivo dell’emozione e cadiamo in quello passivo: vanagloria o stupida predestinazione, bisogno d’attenzione, da parte del Mito.
Fa parte del gioco sempre improbabile e fittizio quanto estenuante dell’individuo alle prese con se stesso. Cuccioli deviati dalla cultura, dalla psicologia, dalla scienza, dal mercato. Cuccioli troppo abitudinari.
Questa vana ricerca ha portato a “salvaguardare” l’emozione da quello “scarto”, l’illusione. Ma l’illusione è seducente e non possiamo farne a meno, per questo la salvaguardia dell’individuo combacia all’adesione di massa, all’illusione totale: l’informazione. Illusi dall’informazione, dal sistema, più certi sul non illuderci riguardo le nostre emozioni. L’emozione ha perso il suo carattere fondamentale: il fascino della curiosità; per far posto all’osceno.
Niente più pianti. Niente più urla. Solo orgasmi tristi. Paure tagliate con la camomilla.
Sorrisi di convenienza. L’indifferenza a livello individuale, la banalità di massa. 24 ore su 24.
Abbiamo catalogato le nostre emozioni sotto etichetta e poi le abbiamo esposte per essere più sicuri di non farci troppo male: abbiamo un target, un brand delle nostre emozioni. Target, brand: l’auto-marketing nell’era della distribuzione individuale come ci sta facendo funzionare? Inutile chiedersi se ha senso, la risposta è “certo, anche tu, sì, proprio tu, puoi distribuirti, fatti furbo!”. “Fatti furbo”, ovvero, ingegnoso sulla tua pubblicità: dalla società dello spettacolo siamo passato allo spettacolo di ognuno per se stesso. Abbiamo nuclearizzato al massimo la società dello spettacolo. Come stiamo funzionando con l’auto marketing? (Non è questa la sede, ma è una riflessione che dovremmo fare).
Attenzione. C’è chi non si chiede “che significa”, c’è chi non si chiede il senso, e tuttavia nemmeno si chiede come funziona. In quella che abbiamo detto l’era incerta, (un’era più perfezionista che inventiva, altro risultato dell’incertezza: non inventare ma migliorare, potenziare all’infinitesimale), si cerca senso nelle emozioni. C’è chi non lo cerca, ma non può reggere assolutamente il peso di quell’incertezza, e cerca di attutirla con il Mito. I Miti moderni di massa e individuali. Ed ecco che anche così non mettiamo in atto l’aspetto attivo dell’emozione e cadiamo in quello passivo: vanagloria o stupida predestinazione, bisogno d’attenzione, da parte del Mito.
L’emozione si è trasformata in un bisogno: di staccare, di tornare alla buona vecchia alienazione diretta, di non-pensare, di lasciarsi andare. Un po’. Tanto è una pausa dalla routine... scatti, flash e fluidi neoneggianti, bagliori diffusi e diffusori – passione per la distorsione, perché il sogno lo abbiamo impoverito.
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Subliminali per natura, afrodisiaci per necessità, perplessi per convenienza, disposti al nulla – nichilisti che hanno perso la voglia anche di contagiarsi.
Daniele Vergni
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