Revue Cinema rubrica diretta da Daniel Montigiani
Un giorno devi andare,
di Giorgio Diritti
di Giorgio Diritti
All’età di trenta anni, Augusta (Jasmine Trinca), trovandosi incastrata in una sorta di forte crisi esistenziale, decide di lasciare la famiglia, la casa e l’Italia per partire per il Brasile, con il fine di riuscire a scovare un “fondamentale, luminoso qualcosa” che possa donare un nuovo, ricco significato alla sua esistenza. La prima, suggestiva e sorprendente inquadratura – l’immagine ecografica di un bambino sovrapposta a una luna in mezzo alle nuvole – sembra mettere subito in campo in maniera delicatamente espressiva e misteriosa questa vasta necessità della protagonista di, appunto, immergersi in un qualcosa che possa dare un nuovo significato alla sua vita, di dare il via a un nuovo e rigenerante inizio. Si tratta di un’immagine che esprime con triste calma quello che potremmo definire la “necessità di primordialità” della protagonista, il suo bisogno, insomma, di provare ad allontanarsi dal caos di quello che ha fatto finora e dai suoi luoghi abituali per cercare di ritornare all’origine, di ricominciare, di rifondare un nuovo inizio: e, in particolare, sembra essere proprio la figura quasi fantasmagorica del bambino (che può metaforicamente rappresentare, appunto, l’origine, l’inizio) a trasmettere questo desiderio di senso di nuovo, di necessità di una nuova vita. Ma anche il resto della breve ma interessante scena, grazie alla sua atmosfera e ad alcuni elementi del visivo e del sonoro (la calma del luogo naturale privo di voci umane, il rumore meccanico ma non sgradevole delle cicale e quello più fluido dell’acqua) prosegue e intensifica con altrettanta delicatezza questo forte e fastidioso bisogno di nuovo, di cambiamento, di sorta di necessità di tornare alla quiete che pervade la protagonista.
Subito dopo, infatti, verso il termine di questa scena, vediamo in mezzo primo piano per la prima volta proprio la protagonista, sofferente, incastrata in mezzo alle proprie lacrime, mentre guarda fuori campo verso l’alto, verso l’affascinante immagine mostrata poco prima, come se piangesse perché anela a raggiungere proprio il senso di origine e di nuovo inizio sprigionato dall’immagine ecografica del bambino. Tuttavia, una volta portata a termine questa bella scena, quasi tutto il resto del film, talvolta pro- gressivamente, si mostra in maniera decisamente meno interessante, rinuncia a questa sorta di senso di visionarietà racchiuso nella prima inquadratura della pellicola e diviene vaga e goffa imitazione della già discussa atmosfera di questo bell’incipit. Sembra infatti davvero poco riuscito da parte del regista non solo il tentativo di focalizzarsi, specialmente nella prima parte, sulla talvolta silenziosa e meditabonda presenza della protagonista ma anche quello di stabilire un rapporto fra Augusta e il maestoso paesaggio della foresta amazzonica che attraversa, con la missionaria Franca, a bordo di una piccola imbarcazione. L’aspetto di tale imponente paesaggio sembra rimanere indifferente di fronte al passaggio un po’ pretenzioso della macchina da presa di Diritti, che talvolta si esprime con volanti, improvvisi e risaputi campi lunghi e lunghissimi, movimenti di apparente virtuosismo che paiono avere anche il fine di mostrare la piccolezza della figura della protagonista rispetto all’ambiente dalla vastità misteriosa in cui si trova (un rapporto fra Augusta e il paesaggio che, di conseguenza, vorrebbe far ulteriormente risaltare la crisi di questa). In più di un’occasione, i momenti ad alto tasso di anonimità vanno avanti e vengono resi, purtroppo, più forti a causa dei vari aspetti della dimensione sonora. Si pensi, ad esempio, a quando, sempre nel mezzo della foresta amazzonica, Augusta, tramite voce over, riflette su se stessa e sulla sua nuova avventura con frasi sinceramente di una banalità quasi imbarazzante come «sono qui per scoprire altri valori», o «ti senti piccolo rispetto alla grandezza maestosa del luogo» (il tutto, tra l’altro, enunciato con un tono di voce che sembra esprimere una pretesa di profondità impacciata).
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Anonimità, sempre in scene come queste, nutrita anche dall’accompagnamento della musica extra-diegetica a base di una serie di risentite note di pianoforte che vorrebbero far quasi toccare allo spettatore il delicato dolore della protagonista e il materiale sensibile delle sue riflessioni. Se, in questa prima parte, oltre all’ottimo incipit, c’era almeno stato un tentativo di stabilire un rapporto fra la protagonista e l’ambiente in maniera inusuale, da quando invece Augusta decide di abbandonare la foresta amazzonica e unirsi agli indios del posto e iniziare a lavorare con loro, il film, che comincia a caricarsi di molte, troppe parole, si fa ancora meno interessante. |
Insomma, una pellicola questa di Diritti che, con un incipit per certi aspetti simile ad alcune atmosfere dell’ultimo Malick, illude lo spettatore facendogli credere di trovarsi davanti all’autore di una concezione potente dell’immagine, per poi scaraventarlo (e scaraventare se stesso) in una serie di immagini che, per quanti tentativi possano essere fatti, risultano spesso di matrice tristemente televisiva, e dunque anonima.
Daniel Montigiani
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