Psychodream Review Rubrica diretta da Viviana Vacca e Francesco Panizzo
Se dagli anni ‘50 lo star sistem holliwoodiano cessa la sua supremazia grazie anche al cinema di Visconti, lo statuto di un teatro introspettivo, nel segno shakespeariano del ruolo dell’identità messa in crisi, rivive fortemente nella proposta artistica del regista milanese.
Lo vediamo dagli scarni ed evanescenti siparietti, quanto essenziali e comunicativi bozzetti, che Piero Tosi aveva confezionato per la rappresentazione de La locandiera[1] viscontiana. Un connubio dichiaratamente omogeneo se pensiamo agli oggetti di scena, sempre così ricercati e autentici nelle scenografie di Visconti. L’imprescindibile talento e pulizia che la recitazione esprime nel teatro del regista milanese, non sono certo l’ultima garanzia della sua profonda ricerca stilistica, anzi, sono il ruolo fondamentale di una personale capacità di intendere la costruzione di uno spettacolo e la indiscutibile realizzazione della potenza rinnovatrice del suo teatro. Questo fatto, però, non è dato sempre per scontato dalla critica del suo tempo, se pensiamo alla denuncia del critico Giancarlo Vigorelli nel quotidiano Il Momento[2] nei riguardi di quello che egli definì come “una smagratura che Visconti ha operato su Goldoni [...] Luchino ha fatto bene a scrollargli di dosso il maquillage, non doveva però risolverlo tutto in testa” – rimpiangendo – “[...] l’incanto che Visconti ha tolto a Goldoni [...]. Per virilizzarlo, lo ha sterilizzato”[3].
Ma cosa aveva fatto Goldoni stesso con lo stile teatrale a lui contemporaneo? Non lo aveva forse spogliato di tutto quel barocchismo, nei limiti del possibile, che aveva fatto del teatro un’arte d’intrattenimento fine a se stessa? Non è, forse, Visconti un perpetuatore di questo approccio alla creazione?
Certo, in questo caso, non si può che rivivere Goldoni attraverso l’occhio donatoci dal sensibile sguardo di Visconti mentre rivive le ambientazioni fiorentine de La locandiera già ripercorse dall'autore nella sua Venezia. |
Non è forse la Morelli, una
perfetta interprete di una locandiera fiorentina di metà ‘700 che si
sfronda delle pompose maschere, che tanto Gozzi approvava nella sua
avversione per il teatro goldoniano? Una Mirandolina/Morelli, idi un secondo dopoguerra, idecisamente priva di coccolezzi, come li definisce lo stesso
Vigorelli nel medesimo articolo, ma non priva dell’incanto che il
periodo post bellico poteva dare. Certo, un incanto decisamente non
enfatico e speziato, ma neanche esotico come lo si vorrebbe pretendere a
priori; perché dover rendere esotico un fare teatrale che lo stesso
autore veneziano aveva combattuto, per di più, riformando da dentro
l’intera arte del suo teatro e non solo nella sua città? Giustizia
migliore non sarebbe stata quella di ripulire, ulteriormente dei
fronzoli, un teatro divenuto esteticamente pleonastico, sopratutto se
ricondotto fedelmente alla rappresentazione di un’epoca, quella della
metà del ventesimo secolo, ormai resa esausta dalle riprese storiche?
Questo ha fatto Visconti: come Goldoni ha lavorato da dentro la macchina
teatrale in tutte le sue sfaccettature, divenendo, così, più goldoniano
di Goldoni. Guardare a una Mirandolina significa vedere la Morelli con
falce e martello, meglio dire “con ferro da stiro e biancheria”, che
mette sulla ghigliottina quelle parrucche ancora in scena (nonostante il
passaggio della rivoluzione); una visione diversa e nel contempo
simile, che non impone il venire meno del senso riformatore di quella
natura politica ed estetica, percepibile nel teatro pedagogico di
Goldoni, quanto di Visconti. Ecco i presupposti estetici della
intenzione culturale messa appunto dai due geni e ben tradotta come
segue:
Una commedia scritta a vantaggio degli uomini innanzitutto e, in un
secondo momento, anche delle donne oneste, categoria ben distinta –
anche sul piano della categoria teatrale – dalle pericolose
«simulatrici». [4]
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Una netta distinzione tra la finzione più estrema, i barocchismi sopra acennati, e la realtà di un’impresa che spesso ha trovato i suoi ostacoli o cambiamenti imposti da forze maggiori: è il caso di Giuseppe Marliani, che fu l’attore primo interprete del personaggio di Fabrizio dove il testo da lui recitato rispettava il dialetto veneto, come ci ricorda la storica Teresa Megale[1]. La lingua che inseguito fu assegnata a Fabrizio fu l’italiano essendo l’opera ambientata a Firenze. Ma che ne è stato dell’aspetto, se vogliamo, proletario di Fabrizio? Dell’anima realisticamente legata alle proprie tradizioni? Non è importante ai fini della comprensione del messaggio dell’opera, certo, ma sposta una inten- zione e questo è già fallace. Simbolo di una necessità che limita la creatività espressa con scelte registiche di un certo spessore. Sia Goldoni che Visconti, però, ben sono riusciti nell’intento di mettere il vero in scena, soprattutto con La Locandiera Goldoni è così riuscito a farsi apprezzare e avvalorare culturalmente. Ed è la propria cultura che egli racconta, nata dall’esperienza che egli visse davvero. Goldoni mise spesso in scena la sua autobiografia o quanto di realmente successo lui attorno, che potesse testimoniare in prima persona. Per quanto concerne la figura di Miran-dolina, tanto per limitarci alla protagonista, “potrebbe richiamare la personalità di Cornelia Barbaro Gritti.” Così è, almeno, secondo Folena[2].
Invero, non era mai stato a Napoli, città che il commediografo
desiderava poter vivere e che forse aveva intraletto grazie ai contatti
avuti con la compagnia Medebach che dalla città del bel canto si era
spostata a Venezia. I personaggi di Ortensia e Deianira erano nomi
tipici che si davano ai caratteri degli innamorati. Le attrici, Caterina
Landi e Vittoria Falchi, erano proprio quelle della compagnia di
Girolamo Medebach. Mentre il Cavaliere di Ripafratta pare fosse stato
incontrato dallo stesso Goldoni tra il 1744 e il ‘48, quando andò in
Toscana per il suo primo soggiorno. Il veneto era stato anche a
Fornipopoli dove, molto probabilmente, gli era nata l’ispirazione o,
addirittura, fece conoscenza, con l’ispiratore del personaggio del Marchese. Ancora da Napoli la figura del Conte d’Albafiorita.
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Questo
gioco drammaturgico permise a Goldoni di instaurare un doppio gioco tra
teatro e realtà che ben si nota nella mise en abime dei vari personaggi de La locandiera, una commedia dove la meta-teatralità è giocoforza della fama di questa celeberrima commedia. Tornando a Visconti e soffermandoci sulle dinamiche interne ai gruppi o ai singoli personaggi di un’opera come La locandiera, non manca certo quell’impronta viscontiana della perversione, tratto che, molto probabilmente, permane già dall’opera originale ma che, sicuramente, è molto più marcato nel Visconti diviso e allo stesso tempo consolidato, tra teatro e cinema. È pure da notare la predilezione di Visconti, ormai palesemente dimostrata, per la rappresentazione di un inferno familiare, nel quale possano emergere elementi di perversione[7]. Questa, e altre importanti peculiarità, fanno di Visconti un autore originale e innovatore, nonostante si possa inserire a pieno diritto tra tutti i riformatori del teatro del Novecento, dallo straniamento di Bertold Brecht (messo in pratica e rivisitato da Giorgio Strehler), al rispetto portato per il teatro della crudeltà di Antonine Artaud, Visconti riformò il teatro con una procedura simile a quella di Goldoni, da dentro, non opponendosi alla tradizione ma avvalorando quelle nuove prospettive, necessarie per l’evoluzione degli stessi linguaggi teatrali.
Note:
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Fancesco Panizzo
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[1] L. Visconti, Il mio teatro, Vol. I (1936-1953), a c. di C. D’Amico de Carvalho e R. Renzi, Cappelli Editore, Bologna 1979, pp. 202-203.
[2] G. Vigorelli, La locandiera tra Goldoni e Visconti, in Il Momento, 8.11.1952, tratto da L. Visconti, Il mio teatro, ivi cit., p. 208.
[3] Ibidem.
[4] C. Goldoni, La locandiera, a c. di Sara Mammone e Teresa Megale, Marsilio editore, Venezia 2007, p. 235.
[5] C. Goldoni, La locandiera, ivi, cit., p. 234.
[6] C. Goldoni, La locandiera, ivi, cit., p. 241.
[7] R. Renzi, Visconti segreto, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 57.
[2] G. Vigorelli, La locandiera tra Goldoni e Visconti, in Il Momento, 8.11.1952, tratto da L. Visconti, Il mio teatro, ivi cit., p. 208.
[3] Ibidem.
[4] C. Goldoni, La locandiera, a c. di Sara Mammone e Teresa Megale, Marsilio editore, Venezia 2007, p. 235.
[5] C. Goldoni, La locandiera, ivi, cit., p. 234.
[6] C. Goldoni, La locandiera, ivi, cit., p. 241.
[7] R. Renzi, Visconti segreto, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 57.
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