Psychodream Review Rubrica diretta da Viviana Vacca e Francesco Panizzo
I modi di dire conoscono spesso l’abitudine: un habitus che travalica in un insieme di posture, una ballade di punti di osservazione e di marcatori di visibilità. Una ballade des gens qui sont nés quelque part. Una ballade che non somiglia alla danza, al movimento che come “un’intensificazione dell’apparenza” travolge le abitudini dopo una battaglia. In tal caso, lo spettatore attento e abituato alla decodifica e all’interpretazione di ciò che accade sulla scena conoscerà la difficoltà della bellezza. Ogni atto di creazione di Pippo Delbono è una passeggiata intorno alla bellezza.
Della vita, del teatro, del dolore. E della guerra, intesa come quotidiana partita contro l’abitudine. La voce urla la propria rabbia − esatta grazia del gesto sempre singolare − dalla platea. E racconta la storia di uno spettacolo naufragato nel mare magnum delle incomprensioni e del settarismo economico. Sparita orchestra e coro, si è trasformato in opera saettante, musicata, declamata, urlata, nell’inconfondibile linguaggio teatrale delboniano, che stavolta amplia il suo sguardo illimitato verso l’universo femminile e con furore amorevole dal buio del presente ci trasporta naufraghi verso l’amore, unica possibilità di cambiamento. Basta solo attraversare il campo di battaglia del selvaggio dolore di essere uomini, contro le esclusioni, l’emarginazione, fuggire dalle stanze del potere e dei segreti.
Della vita, del teatro, del dolore. E della guerra, intesa come quotidiana partita contro l’abitudine. La voce urla la propria rabbia − esatta grazia del gesto sempre singolare − dalla platea. E racconta la storia di uno spettacolo naufragato nel mare magnum delle incomprensioni e del settarismo economico. Sparita orchestra e coro, si è trasformato in opera saettante, musicata, declamata, urlata, nell’inconfondibile linguaggio teatrale delboniano, che stavolta amplia il suo sguardo illimitato verso l’universo femminile e con furore amorevole dal buio del presente ci trasporta naufraghi verso l’amore, unica possibilità di cambiamento. Basta solo attraversare il campo di battaglia del selvaggio dolore di essere uomini, contro le esclusioni, l’emarginazione, fuggire dalle stanze del potere e dei segreti.
Quello che resta è un detrito sonoro: la musica del Macbeth di Verdi che si appoggia sul bastone di Bobò, fanciullesco attore sordomuto al linguaggio decodificato ma sensibilissimo a quello teatrale, una ballerina precipita nel vuoto grigiore di una scena lambita dal Lago dei Cigni. Lo spazio è una zona d’ombra dalle alte pareti.
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Senza finestre, perché la luce penetra dalle porte blindate che segnano i confini di uno stanzone reclusorio animato dalle parole di Alda Merini e dall’amara profezia pasoliniana.
Ahi serva Italia, di dolore ostello – dice Delbono con le parole di Dante. Mentre il sommesso “Va, pensiero” verdiano ricorda altri asservimenti, altri aneliti di libertà, nell’evocazione di una patria bella e perduta. Il pubblico si intreccia con il privatissimo, come la danza classica di Marie-Agnès Gillot, ėtoile dell’Opéra di Parigi, incrocia (senza negarla) la diversa tradizione incarnata da Marigia Maggipinto, che viene dalla compagnia di Pina Bausch. Così non stupisce l’ap- parire, fra altre, di un’immagine domestica della madre dell’artista, con la sua lingua ligure così ferocemente materna. Dopo la battaglia – il dopo non è un effetto del tempo, somiglia piuttosto a quella “nostalgia delle cose che non hanno cominciamento” che apriva al palazzo moresco di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene − è il titolo della danza di Pippo Delbono tra Pina Baush e Verdi. Ma è anche il titolo degli scritti che l’homme de theatre di Varazze ha pubblicato con Barbés. Ci si stupisce ancora di fronte a quello che Pippo Delbono mostra in teatro. Forse per Bobò che conquista un abito bianco nel finale di uno spettacolo e di una dedica (“A questo piccolo grande uomo che mi ha ridato la vita” racconta Delbono), dopo una passeggiata di mezzo secolo in un manicomio, sordo e libero. Ogni incontro è uno scegliersi, nell’arte e nella vita. E ogni spettacolo è spettacoli di corpi e parole. L’uno marca lo spazio, le altre incidono il silenzio, con l’urgenza del bisogno di lasciare un segno duraturo. Come in una passeggiata attraverso la cenere. Starless : suonava così per i King Crimson, “cambiare il mondo con un’eclissi d’argento”. A lungo lo spettacolo sembra non voler cominciare. Bisbiglii, voci fuori campo, rumori di pesanti porte che sbattono. Gli attori immobili sul fondo, raccolti in posa davanti a una fila di poltroncine rosse. Abiti rossi e neri, borghesi e prelatizi.
Ahi serva Italia, di dolore ostello – dice Delbono con le parole di Dante. Mentre il sommesso “Va, pensiero” verdiano ricorda altri asservimenti, altri aneliti di libertà, nell’evocazione di una patria bella e perduta. Il pubblico si intreccia con il privatissimo, come la danza classica di Marie-Agnès Gillot, ėtoile dell’Opéra di Parigi, incrocia (senza negarla) la diversa tradizione incarnata da Marigia Maggipinto, che viene dalla compagnia di Pina Bausch. Così non stupisce l’ap- parire, fra altre, di un’immagine domestica della madre dell’artista, con la sua lingua ligure così ferocemente materna. Dopo la battaglia – il dopo non è un effetto del tempo, somiglia piuttosto a quella “nostalgia delle cose che non hanno cominciamento” che apriva al palazzo moresco di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene − è il titolo della danza di Pippo Delbono tra Pina Baush e Verdi. Ma è anche il titolo degli scritti che l’homme de theatre di Varazze ha pubblicato con Barbés. Ci si stupisce ancora di fronte a quello che Pippo Delbono mostra in teatro. Forse per Bobò che conquista un abito bianco nel finale di uno spettacolo e di una dedica (“A questo piccolo grande uomo che mi ha ridato la vita” racconta Delbono), dopo una passeggiata di mezzo secolo in un manicomio, sordo e libero. Ogni incontro è uno scegliersi, nell’arte e nella vita. E ogni spettacolo è spettacoli di corpi e parole. L’uno marca lo spazio, le altre incidono il silenzio, con l’urgenza del bisogno di lasciare un segno duraturo. Come in una passeggiata attraverso la cenere. Starless : suonava così per i King Crimson, “cambiare il mondo con un’eclissi d’argento”. A lungo lo spettacolo sembra non voler cominciare. Bisbiglii, voci fuori campo, rumori di pesanti porte che sbattono. Gli attori immobili sul fondo, raccolti in posa davanti a una fila di poltroncine rosse. Abiti rossi e neri, borghesi e prelatizi.
Come un Balcon genettiano dentro la cornice delle Meninas di Velazquez. Basta seguire il movimento di Pippo, che usa tutti gli strumenti in suo possesso: arti visive, tecniche cinema-tografiche, musica, danza e cultura teatrale. Icone, la valenza testimoniale dell’esistere invece dell’apparire, le parole ardenti di Artaud, Pasolini, Kafka, Alejandra Pizarnik, Whitman, svettano sulla fatiscente crisi del mondo attuale.
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Soffia un vento di lacerante bellezza, il bisogno d’amore trova ricovero nel calore e nella tenerezza, quando l’anima fragile e indomita supera la paura. C’è la fisicità e la voce respirante e incisiva di Pippo, la musica malinconica e suggestiva del violino di Alexander Balanescu, la magia sulle punte e l’energia fluttuante di Marie Agnes Gillot, etoile dell’Opera di Parigi, i movimenti di memoria bauschiana di Marigia Maggipinto, la danza tribale e dilaniante di Grazia Spinella. In quel Paesaggio dopo la battaglia di Andrey Wayda, la neve del 1945 era la coltre su cui i passi dei due protagonisti lasciavano un segno, tra Cenere e diamanti. La Polonia sofferente e dolente, con i suoi vizi e i suoi compiacimenti masochistici. E quel magnifico inizio con quei corpi confusi e spauriti che si agitano nella neve, commentati dalle note di Vivaldi, di contrastante, paradossale serenità. La libertà ritrovata ma sconosciuta. Non serve dialogo, non servono parole per esprimere quell’insieme di entusiasmo e smarrimento, rabbia e debolezza. E la fame, quella fame persecutoria e invincibile.
Wayda faceva la propria battaglia di Grunwald incontrando la storia e la scarnificata prosa di Tadeusz Borowsky, sopravvissuto ai campi di sterminio. Una testimonianza estremamente diretta, la cui imbarazzante autenticità cancella ogni sentimentalismo. Non è condizionata da una cultura, da una tradizione, dalla poesia e dalla letteratura che hanno enfatizzato per due secoli il sentimento nazionale calpestato, è libera da tutti i pregiudizi polacchi. È semplice e diretta, rigorosa e spietata. Senza la minima indulgenza, senza pietismi, rifugge dal semplicismo. In lui, la distruzione dell’essere umano arriva fino in fondo, fino alla radice; impossibile distinguere schematicamente la vittima dal carnefice. I ruoli, su uno sfondo disperato e sinistro, si confondono. I vivi hanno ragione sui morti, dopo che la battaglia è finita. Intorno a Tadeusz altri personaggi. Il Professore suonatore di violino untuoso, il nazionalista tracotante; ma Tadeusz vive nel suo isolamento, da testimone sferzante, ben caratterizzato come intellettuale ma costantemente ossessionato da necessità materiali. In tutto questo giunge l’apparizione solare di Nina. È la prima presenza a muovere lo scetticismo di Tadeusz. A spiazzarlo e a sorprenderlo. A scuoterlo dal torpore e dalla sfiducia, caustica e sprezzante.
A ricordargli la vita. Lui e lei attraversano, immuni, ogni meschinità e bassezza. Sono soli in mezzo a questa folla.
Finalmente l’amore. La riscoperta della bellezza di due corpi giovani e vivi. Quindi il rientro: lei muore banalmente, stupidamente, assurdamente. Sullo sfondo insensato della recita grottesca e caricaturale, che rinnova l’illusione di grandezza e immortalità, una fierezza simulata che è solo esorcismo. Una finzione, per Tadeusz, ormai completamente insopportabile. Sembra doversi rinchiudere per sempre nel suo mutismo. In mezzo a tutto quel chiasso lui non c’è. Si suona (come in Cenere e diamanti) la Polonaise. Nell’obitorio, il prete racconta una storia (è il racconto di Borowski intitolato Cena). Lui non lo dice ma la racconta come se egli fosse stato presente: «Avevano fatto uscire degli uomini russi legati con il filo spinato, gli avevano sparato e i loro cervelli erano schizzati da tutte le parti (…) Quello è stato l’unico momento della sua vita in cui ha dubitato dell’esistenza di Dio (…) A questo punto Tadeusz si riprende il pullover e dice: “si è veramente affamati quando si guarda un altro uomo come una cosa da mangiare; io ho provato questa fame, io li capisco”. La maturazione è compiuta. Tadeusz raccoglie le sue cose, i libri, e parte, abbandona il campo. Prende la strada del ritorno, per ricordare e ricostruire. Un vecchio letterato polacco scrisse: «Non dovete sputare indignati su questa rogna, ma affondarci dentro le unghie e piangere. Come fa Wajda» (in «Cultura», n. 40, 1971). Pippo Delbono, dopo la sua battaglia, dimentica i fantasmi ammonitori di Riccardo III, smette di piangere e canta. E si danza, si danza, si danza, nel mare naufragante del Lago dei cigni, nello sguardo di Pina Bausch che rende visibile l’invisibile, nei corpi flessuosi della danza delle rose rosse.
Dopo la battaglia di e con Pippo Delbono e Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson La Riccia, Marigia Maggipinto, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella con la partecipazione di Alexander Balanescu e Marie Agnes Gillot
Scene di Claude Santerre − Costumi di Antonella Cannarozzi − Musiche originali di Alexander Balanescu − Luci di John Resteghini.
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Thèatre du Rond Point Parigi − Thèatre de la Place − Liegi.
Wayda faceva la propria battaglia di Grunwald incontrando la storia e la scarnificata prosa di Tadeusz Borowsky, sopravvissuto ai campi di sterminio. Una testimonianza estremamente diretta, la cui imbarazzante autenticità cancella ogni sentimentalismo. Non è condizionata da una cultura, da una tradizione, dalla poesia e dalla letteratura che hanno enfatizzato per due secoli il sentimento nazionale calpestato, è libera da tutti i pregiudizi polacchi. È semplice e diretta, rigorosa e spietata. Senza la minima indulgenza, senza pietismi, rifugge dal semplicismo. In lui, la distruzione dell’essere umano arriva fino in fondo, fino alla radice; impossibile distinguere schematicamente la vittima dal carnefice. I ruoli, su uno sfondo disperato e sinistro, si confondono. I vivi hanno ragione sui morti, dopo che la battaglia è finita. Intorno a Tadeusz altri personaggi. Il Professore suonatore di violino untuoso, il nazionalista tracotante; ma Tadeusz vive nel suo isolamento, da testimone sferzante, ben caratterizzato come intellettuale ma costantemente ossessionato da necessità materiali. In tutto questo giunge l’apparizione solare di Nina. È la prima presenza a muovere lo scetticismo di Tadeusz. A spiazzarlo e a sorprenderlo. A scuoterlo dal torpore e dalla sfiducia, caustica e sprezzante.
A ricordargli la vita. Lui e lei attraversano, immuni, ogni meschinità e bassezza. Sono soli in mezzo a questa folla.
Finalmente l’amore. La riscoperta della bellezza di due corpi giovani e vivi. Quindi il rientro: lei muore banalmente, stupidamente, assurdamente. Sullo sfondo insensato della recita grottesca e caricaturale, che rinnova l’illusione di grandezza e immortalità, una fierezza simulata che è solo esorcismo. Una finzione, per Tadeusz, ormai completamente insopportabile. Sembra doversi rinchiudere per sempre nel suo mutismo. In mezzo a tutto quel chiasso lui non c’è. Si suona (come in Cenere e diamanti) la Polonaise. Nell’obitorio, il prete racconta una storia (è il racconto di Borowski intitolato Cena). Lui non lo dice ma la racconta come se egli fosse stato presente: «Avevano fatto uscire degli uomini russi legati con il filo spinato, gli avevano sparato e i loro cervelli erano schizzati da tutte le parti (…) Quello è stato l’unico momento della sua vita in cui ha dubitato dell’esistenza di Dio (…) A questo punto Tadeusz si riprende il pullover e dice: “si è veramente affamati quando si guarda un altro uomo come una cosa da mangiare; io ho provato questa fame, io li capisco”. La maturazione è compiuta. Tadeusz raccoglie le sue cose, i libri, e parte, abbandona il campo. Prende la strada del ritorno, per ricordare e ricostruire. Un vecchio letterato polacco scrisse: «Non dovete sputare indignati su questa rogna, ma affondarci dentro le unghie e piangere. Come fa Wajda» (in «Cultura», n. 40, 1971). Pippo Delbono, dopo la sua battaglia, dimentica i fantasmi ammonitori di Riccardo III, smette di piangere e canta. E si danza, si danza, si danza, nel mare naufragante del Lago dei cigni, nello sguardo di Pina Bausch che rende visibile l’invisibile, nei corpi flessuosi della danza delle rose rosse.
Dopo la battaglia di e con Pippo Delbono e Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson La Riccia, Marigia Maggipinto, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella con la partecipazione di Alexander Balanescu e Marie Agnes Gillot
Scene di Claude Santerre − Costumi di Antonella Cannarozzi − Musiche originali di Alexander Balanescu − Luci di John Resteghini.
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Thèatre du Rond Point Parigi − Thèatre de la Place − Liegi.
Viviana Vacca
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