Siamo sulla strada diretta a New Delhi che parte dall’aeroporto internazionale Indira Gandhi. Superato il caos aeroportuale, il mio sguardo si posa sul panorama esterno, offertomi dal finestrino abbassato del taxi in cui sono a bordo. Il traffico napoletano che alberga lungo quella che suppongo sia una statale è a dir poco stupefacente. Individui mobili che in un ordinato disordine procedono il proprio percorso, senza farsi toccare da quella sensazione di stordimento che invece marchia il mio impressionarmi. I miei sensi vengono stimolati da una marea di input di diversa origine, talmente tanti da rendere la mia facoltà di “sentire” colma di novità fisiologiche. In primis l’inquinamento post-diwaliano, in grado di rendere il mio respiro difficoltoso, ma al contempo curioso; in seconda battuta, l’artificialità dell’aria si accompagna a uno scenario fatto di sentieri asfaltati, deduco, in perenne costruzione. Ciò che meraviglia il mio osservare non sono tanto il traffico, le nubi di polvere o i lavori in corso, quanto il modo in cui queste costruzioni vengono effettuate. Uomini seminudi, sporchi, dall’occhio stremato, ma forte, bambini che a piedi nudi corrono verso questi signori, magari con un sasso in mano, o un mattoncino dalla forma irregolare. Sul ciglio della via per Delhi, soprattutto all’altezza degli incroci, vi sono donne dagli abiti poveri, ma coloratissimi. I loro capelli lucidamente neri lasciano spazio all’occhio attento di chi deve cercare il passeggero ideale, in grado di fornir loro alimenti, soldi, o qualsiasi altra cosa. I panorami quotidiani della vita di strada s’incrociano col susseguirsi scorrevole degli sguardi ricambiati provenienti dai passeggeri o driver con i quali condivido il lento tragitto. La facoltà di un mezzo di contenere una quantità innumerevole di individui, ammassati l’uno contro l’altro, risulta di gran lunga superiore all’immaginazione: bagagliai aperti mutati in ampi sedili, tuktuk privi di porte e cinture di sicurezza, camion coloratissimi e decoratissimi, che, oltre a trasportare le più improbabili merci sono carichi di corpi umani, è incluso, anche sul tetto. Quella che percepisco è un’atmosfera entropica, un clima troppo caldo e soffocante, un’incredulità meravigliata e intimorita al contempo, un conflitto guerrigliero tra quello che ho sempre visto e vissuto e quel che ora vivo e vedo. Un contrasto troppo forte da digerire nel breve tempo che scorre incessante, senza permettere al cogitare di dar senso al sentire. Anomia, niente di più, niente di meno. Nulla del conosciuto è in grado di sostenere l’ignoto che prende forma al cospetto del registrare insaziabile. Tutto rimane senza nome, senza categoria, senza ragione. Semplicemente, è e non può che essere. Umanamente la reazione primaria è quella di sentirmi disorientata, impaurita, soffocata dai pregiudizi che troppe persone mi hanno ripetuto a mo’ di mantra prima della mia partenza. L’ansia, il sospetto, l’interrogazione, l’insulto. Questo cocktail variegato non può far altro che intensificarsi con il fatto che l’autista continua a fermarsi frequentemente chiedendo indicazioni ai passanti. Il non rassicurante operare non ha fatto altro che aumentare la mia voglia di arrivare il prima possibile a quella dimora che per i primi giorni indiani chiamerò rifugio, più che casa. L’attesa consumata culmina in un arrivo incerto. Incerto poiché il gentilissimo ballerino che mi ospita, è al lavoro. L’aiuto a disposizione non è altro che un messaggio nel quale mi spiega dove avrebbe nascosto le chiavi, sulla cima dell’edificio, all’interno di un piccolo contenitore di legno rovinato. Salite le interminabili scale riesco a focalizzare il mio sguardo sul quel box tanto bramato, afferro le chiavi quasi tremante e riesco ad aprire la porta. Di lì a un’ora quello che inizierà a rasserenare il mio arrivo sarà l’indelebile sguardo del tuktuk driver che mi porterà dall’abitazione alla stazione metro più vicina. Rassicurante, caldo, intenerito dal mio smarrimento, il suo sguardo sarà dolcemente contaminato da un sorriso cullante. Avrei voluto il suo numero, un suo contatto, un biglietto, qualsiasi cosa pur di tener vicina quella sensazione di serenità che l’onesto autista mi aveva regalato. La forte insicurezza e la sensazione di pericolo saranno poi ricordi sorridenti, a partire dalla settimana successiva all’arrivo. Il non comprendere assolutamente l’inglese parlato dagli indiani, lo shock culturale che ti accoltella, la non conoscenza del posto, dello stile di vita, delle persone, della cultura, insomma, l’ignoto, riservano spesso lungo i primi giorni frutti amari da assaporare. Le lacrime non si risparmiano, la voglia di tornare tantomeno, eppure la tenacia e la testardaggine non sono state altro che sintomo di quella sensazione di essere esattamente dove si sarebbe dovuti essere, di quella determinazione che ha lasciato passare inosservate lacrime e dubbi. Il perché mi è sconosciuto, eppure so che devo rimanere in India, devo lottare, so che la ragione della permanenza in India può prendere forma, anche se non nel momento in cui ci si mette piede appena. Il silenzio è la voce di quell’Anomia che, per certe persone, è pressoché inevitabile provare durante il primo periodo in un paese come questo. “This is the sound… The sound of Silence”.
Namasté
Namasté
Giulia Vencato
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