Ho avuto la possibilità di incontrare Carlotta Varrella presso la Basilica dell’Annunziata, a Napoli, davanti a un pannello con delle sue fotografie.
In occasione del progetto “Con gli occhi dei bambini: uno sguardo al passato con l’obiettivo rivolto al futuro”, la giovane fotografa è stata coinvolta per svolgere un complesso compito di traduzione in immagini dei pensieri che alcuni studenti della scuola media Bovio-Colletta sono stati chiamati a esprimere sui diritti dei bambini dalla loro insegnante di arte – e ideatrice del progetto – Maria D’Aniello.
L’intervista che è nata da questo incontro permette di comprendere non solo chi ci sia dietro gli scatti ma anche come ci si possa avvicinare oggi a una forma d’arte a portata di touch screen quale quello della fotografia.
Nel caso della Varrella, l’avvicinamento è avvenuto durante una passeggiata in una delle più belle città italiane: “Ho cominciato per caso durante un viaggio a Firenze un po’ con la voglia di conservare alcune emozioni, un po’ con la curiosità che un passante ha la prima volta che visita un nuovo posto ma soprattutto con la voglia di fermare il tempo in quel che è stato il miglior viaggio della mia vita. La foto che ritengo possa essere il mio inizio l’ho scattata sul Ponte Vecchio: in un paesaggio apparentemente banale poiché già inflazionato dalle fotografie dei turisti, mi è risultato spontaneo lasciar vedere al mio obiettivo un’angolazione nuova che fondeva lo scintillio dell’Arno con gli smalti colorati dei burattini di Pinocchio che pendevano da una bancarella”.
In tempi in cui siamo inondati di scatti praticamente da chiunque, sorge una domanda, di fronte a un lavoro fotografico ben fatto: come si distingue una fotografia buona da una che non lo è? “Per me un buono scatto non è lasciare la memoria di sé e della propria immagine ma raccontare una storia: una buona fotografia permette all’osservatore di costruire un proprio punto di vista ed estrapolarne un significato personale. Lo scatto è, probabilmente, l’unica scelta a noi concessa. Un buono scatto si concede la libertà di focalizzare l’attenzione su una realtà anziché su un’altra, avvicinando l’obiettivo su un oggetto e rimuovendone la cornice”.
Si tratta di un approccio molto sentito, che esce fuori anche quando chiedo cosa si potrebbe consigliare a una persona che intende addentrarsi con una certa attenzione nel mondo della fotografia: “Il mio consiglio è dare un valore maggiore all’azione dell’osservare ciò che ci circonda, concedersi una curiosità che spinge oltre il limite, concedersi ancora e ancora tempo e non essere, necessariamente, alla ricerca di un soggetto ma lasciarsi affascinare da ciò che, apparentemente, non ha importanza. Consiglio di essere sempre pronti a scattare, non lasciare mai un’idea sospesa aspettando la “prossima volta”.
Infatti, secondo la Varrella non serve necessariamente una macchina fotografica di un costo a due o tre zeri per riuscire a scattare una buona foto: “a volte anche un cellulare può tradurre in immagine una buona intuizione”.
Per concludere, torniamo al punto di partenza. Chiedo a Carlotta cosa vuol dire tradurre in immagini un pensiero, un’operazione che dall’esterno mi sembra davvero difficile nonostante abbia potuto osservarne la riuscita: “Premettendo che, secondo me, la fotografia è sempre l’interpretazione di una riflessione, il mio lavoro nel tradurre il pensiero altrui in scatti è consistito nella ricerca dei retroscena di vita degli autori dei pensieri. Così come nel teatro la mimica è la più efficace e sintetica manifestazione degli stati d’animo, nelle mie fotografie ho affidato alle espressioni dei volti e dei corpi in movimento i significati più profondi della loro vita”.
In occasione del progetto “Con gli occhi dei bambini: uno sguardo al passato con l’obiettivo rivolto al futuro”, la giovane fotografa è stata coinvolta per svolgere un complesso compito di traduzione in immagini dei pensieri che alcuni studenti della scuola media Bovio-Colletta sono stati chiamati a esprimere sui diritti dei bambini dalla loro insegnante di arte – e ideatrice del progetto – Maria D’Aniello.
L’intervista che è nata da questo incontro permette di comprendere non solo chi ci sia dietro gli scatti ma anche come ci si possa avvicinare oggi a una forma d’arte a portata di touch screen quale quello della fotografia.
Nel caso della Varrella, l’avvicinamento è avvenuto durante una passeggiata in una delle più belle città italiane: “Ho cominciato per caso durante un viaggio a Firenze un po’ con la voglia di conservare alcune emozioni, un po’ con la curiosità che un passante ha la prima volta che visita un nuovo posto ma soprattutto con la voglia di fermare il tempo in quel che è stato il miglior viaggio della mia vita. La foto che ritengo possa essere il mio inizio l’ho scattata sul Ponte Vecchio: in un paesaggio apparentemente banale poiché già inflazionato dalle fotografie dei turisti, mi è risultato spontaneo lasciar vedere al mio obiettivo un’angolazione nuova che fondeva lo scintillio dell’Arno con gli smalti colorati dei burattini di Pinocchio che pendevano da una bancarella”.
In tempi in cui siamo inondati di scatti praticamente da chiunque, sorge una domanda, di fronte a un lavoro fotografico ben fatto: come si distingue una fotografia buona da una che non lo è? “Per me un buono scatto non è lasciare la memoria di sé e della propria immagine ma raccontare una storia: una buona fotografia permette all’osservatore di costruire un proprio punto di vista ed estrapolarne un significato personale. Lo scatto è, probabilmente, l’unica scelta a noi concessa. Un buono scatto si concede la libertà di focalizzare l’attenzione su una realtà anziché su un’altra, avvicinando l’obiettivo su un oggetto e rimuovendone la cornice”.
Si tratta di un approccio molto sentito, che esce fuori anche quando chiedo cosa si potrebbe consigliare a una persona che intende addentrarsi con una certa attenzione nel mondo della fotografia: “Il mio consiglio è dare un valore maggiore all’azione dell’osservare ciò che ci circonda, concedersi una curiosità che spinge oltre il limite, concedersi ancora e ancora tempo e non essere, necessariamente, alla ricerca di un soggetto ma lasciarsi affascinare da ciò che, apparentemente, non ha importanza. Consiglio di essere sempre pronti a scattare, non lasciare mai un’idea sospesa aspettando la “prossima volta”.
Infatti, secondo la Varrella non serve necessariamente una macchina fotografica di un costo a due o tre zeri per riuscire a scattare una buona foto: “a volte anche un cellulare può tradurre in immagine una buona intuizione”.
Per concludere, torniamo al punto di partenza. Chiedo a Carlotta cosa vuol dire tradurre in immagini un pensiero, un’operazione che dall’esterno mi sembra davvero difficile nonostante abbia potuto osservarne la riuscita: “Premettendo che, secondo me, la fotografia è sempre l’interpretazione di una riflessione, il mio lavoro nel tradurre il pensiero altrui in scatti è consistito nella ricerca dei retroscena di vita degli autori dei pensieri. Così come nel teatro la mimica è la più efficace e sintetica manifestazione degli stati d’animo, nelle mie fotografie ho affidato alle espressioni dei volti e dei corpi in movimento i significati più profondi della loro vita”.
Ambra Benvenuto
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