Qualche giorno fa ho avuto modo di ascoltare l’intervista che Carlo Patrignani fece il 20 febbraio 1998, allo psichiatra Massimo Fagioli. Un’intervista dove Fagioli contrapponeva di continuo la felicità (scambiandola con l’euforia), alla depressione. Un dualismo dialettico che portava alla costruzione del soggetto malato da assistere e da proteggere, ma anche una cantonata clamorosa perché la felicità non è l’euforia del soggetto ma è, per esempio, la riuscita di un progetto, di un sogno o di un programma di vita. Ebbene, a partire da queste brevi notazioni si può allora intendere come Fagioli non ammetta questa cosa semplice semplice: l’altro nome della depressione è forza. E la forza, per ciascuno di noi, è la forza della parola, delle idee e dell’intelletto. Forza per Leonardo era la virtù spirituale della parola; Sigmund Freud usava invece il termine pulsione per significare la forza della parola. E per questi due autori, la forza spirituale della parola, ossia la pulsione, non si esaurisce mai. Anzi è la condizione dell’itinerario e del progetto di vita di ciascuno. Fagioli, nella sua intervista, questa condizione, per dir così materiale dell’itinerario di vita, che è la condizione della salute, non la prende mai in considerazione. Strano, vero? Occorre allora chiedersi: perché questo signore nega la pulsione della parola, la sua specificità, la sua particolarità, la sua materialità? E perché questo poliziotto della mente sacrifica le virtù della parola, la sua forza, la sua leggerezza, il suo giovamento in nome del principio di gravità e della malattia mentale? Ebbene per questo campione dell’apparato repressivo medico-psichiatrico, accettare la morte della parola comporta accettare la compressione, (il regno dello psicofarmaco e del luogo comune), e non la depressione che semmai è un eccesso di pressione. E in effetti l’eccesso di pressione è ciò che più spaventa personaggi come Fagioli. E questo succede perché questo tipo di servitori del potere e delle grandi multinazionali farmaceutiche, temono anzitutto la parola libera, il disagio intellettuale e poi la dissidenza che sono gli statuti propri di chi decide di fare della propria vita un’opera d’arte anomala e non conforme al sistema dei buoni costumi, al sistema convenzionale e all’ideologia dell’armonia sociale. Insomma, a ben guardare la depressione è un modo di formulare il disagio intellettuale, un disagio né buono né cattivo perché propone cose nuove da fare o strade nuove e inedite da intraprendere e da esplorare. Ma soprattutto il disagio intellettuale dice che la parola è libera. Ossia non è padroneggiabile né con un concetto né con un farmaco. E questo lo dico perché Fagioli, in conclusione del suo intervento, fa un’affermazione gravissima: “I giovani sono sempre stati depressi e guai se non lo fossero stati”. Certo, se i giovani non fossero depressi lui non potrebbe più prescrivere e somministrare gli psicofarmaci. Psicofarmaci che poi sono un modo di togliere o di padroneggiare la parola e di far sì che l’Altro accetti i suoi limiti. L’arte e la cultura, l’ingegno e l’industria non ammettono questa mortificazione dello spirito, non ammettono cioè la città dei morti affaccendati: la necropoli.
Enrico Ratti
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