MONTAPERTI
Racconto di Carlo Menzinger
Vieri era giovane e non era certo un soldato di professione, ma di battaglie, quei suoi occhi scuri e vigili ne avevano già viste.
Tra i colli di Monteselvoli, nella piana di Montaperti, lo scontro tra guelfi e ghibellini già infuriava e Vieri era nel mezzo, là dove gli eserciti avversi andavano a cozzare l’uno contro l’altro. Una posizione buona per un eroe, ma lui non si sentiva tale, e gli pareva piuttosto sfortunata e quanto mai pericolosa. Ogni tanto lo sguardo gli correva allo stendardo fiorentino, sorretto da Jacopo de’ Pazzi, il giglio rosso su fondo bianco, come la bardatura e la cotta di Jacopo. Vieri, fiorentino, era uno dei trentamila fanti guelfi che combattevano per il papa contro i senesi ghibellini, che sostenevano l’imperatore. Oltre a scrutare la bandiera, a volte, quando la battaglia lo consentiva, Vieri lanciava uno sguardo intorno per vedere cosa facesse il loro comandante, Bocca degli Abati. Non gli piaceva quel tipo: sebbene si professasse guelfo, si mormorava avesse simpatie ghibelline. Vieri ne capiva poco. Era solo un contadino, soldato per l’occasione, ma quell’uomo non lo convinceva e non convinceva i suoi compagni, che prima della battaglia avevano mormorato in tal senso: Firenze era guelfa e guelfi di fede provata dovevano essere i suoi comandanti. Così dicevano i commilitoni e così pensava anche lui. Come poteva un buon cattolico, del resto, non parteggiare per il papa?
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I ghibellini, Vieri proprio non li capiva: parteggiare per un imperatore tedesco, forestiero, invece che per un papa italiano? Ora, però, aveva ben poco tempo per pensare, tra fendenti di spada e colpi di lancia che minacciavano di ucciderlo da un momento all’altro. I guelfi erano in soprannumero sui ghibellini, ma ugualmente Firenze e i suoi alleati non la spuntavano su Siena e le altre città ghibelline. La terra si tingeva di rosso e presto di tale colore sarebbe diventata anche l’Arbia, che scorreva lì vicino, non appena vi avessero riversato i morti, che parevano già più fiorentini che senesi.
Per difendersi, del resto, Vieri non aveva un’armatura, ma solo una lunga tunica imbottita di stracci per parare un po’ i colpi, e invece di un elmetto aveva una misera cuffia. Le gambe, poi, erano protette da semplici gambali di stoffa ripiegata. Se solo avesse potuto avere, come i soldati regolari, almeno un corpetto, magari una coracza di cuoio o una lameria di pelle e in testa una cervelliera, si sarebbe sentito un tantino più sicuro, ma probabilmente anche così c’era ben poco da star tranquilli. Almeno indossava la gorgiera di maglia di ferro attorno al collo e sulle spalle, ma c’era da esser attenti e veloci nello schivare e scegliere i punti giusti della battaglia in cui stare, e sperare nella buona sorte. Com’era finito nel mezzo di quella confusione? Doveva defilarsi, cercando zone meno accese. Qualche preghiera non avrebbe guastato, ma non c’era nemmeno il tempo per un amen. Lo scudo, pur rendendo meno agevoli i movimenti, lo aiutava a parare i colpi, e qualcun altro lo schivava con la lancia o lo frenava con gli arresti, piccole protuberanze che ne sporgevano proprio a quello scopo. L’assenza di armatura, se non altro, lo rendeva più agile nello scansare i fendenti, e saltava di qua e di là, piegandosi a destra e a sinistra e abbassandosi in continuazione. Sebbene a descriverlo così paresse quasi un balletto, visto da dentro la battaglia non lo sembrava per nulla. Pur nell’eccitazione, sentiva ormai la fatica sopraffarlo. Alla cinta teneva appeso un falcione, una corta spada a una sola lama, che non aveva ancora usato, riservandolo per le emergenze e per quando lo scontro si fosse mutato in mischia, come certo sarebbe stato di lì a poco. Del resto, già reggere il pesante scudo con un braccio e la lancia con l’altro lo impegnava a sufficienza. Solo nel caso fosse rimasto privo di uno dei due avrebbe tentato di difendersi con il falcione, o quando i nemici fossero stati troppo vicini da manovrar di lancia. Vieri era giovane e svelto, e fu certo la sua capacità di guardarsi attorno e la sua rapidità nei movimenti a farlo sopravvivere anche quando lo scontro si mutò in carneficina, nonostante fosse equipaggiato alla bell’e meglio e non indossasse panziere di maglia di ferro e corpetti di cuoio con maniche di ferro, come gli effettivi. Non furono molti i fiorentini a lasciare Montaperti vivi e a tornare a Firenze, ma Vieri ebbe la ventura di essere tra loro e di poter fare ritorno in città sulle proprie gambe, non monco o ferito, su qualche barella improvvisata o sulle spalle di un commilitone. Uno, anzi, fu proprio lui a caricarselo in spalla per un tratto. Una parte del sangue che lo imbrattava apparteneva a costui, il resto ad altri compagni e soprattutto a nemici. Di sangue suo, per fortuna, Vieri ne aveva versato poco. Solo un paio di tagli superficiali di poco conto. «Come ti chiami?» gli chiese il ferito. «Vieri. E tu?» «Gianni.» «Sei di città?» «No. Sono un contadino, lavoro dei campi nel Valdarno.» «Io in Val di Sieve,» rispose Vieri. «Mi pari Gesù sulla via crucis, amico. Mi dispiace che tu, dopo tutta la fatica della battaglia, ti debba prender cura di un povero monco come me. Sono diventato la tua croce. Mollami qui e salvati.» «Non dire scempiaggini, compare. Il peggio è passato e tu non sei la croce di nessuno. La croce ce la portiamo nel cuore. Risparmia il fiato, che con tutto il sangue che hai perso ogni parola pesa.» «Hai ragione, e anche tu hai bisogno di fiato per sostenermi. Te ne sarò sempre grato.» Dopo quel breve scambio, proseguirono in silenzio, ché il loro respiro affannato bastava a parlare per loro. Quando vennero a dargli il cambio nel portare Gianni, Vieri aveva la schiena a pezzi. Si buttò nell’erba e vi rimase per un po’ a braccia e gambe larghe a fissare le nuvole di passaggio, mentre il vorticare dello scontro gli passava davanti quasi come in un’allucinazione. Quando si seppe che Firenze e i guelfi avevano perso la battaglia, in città dilagò il terrore. I fiorentini sapevano bene cosa avrebbero tramato ora quei vermi ghibellini dei senesi. Quella sconfitta, gliel’avrebbero fatta pagare ben cara, a Firenze. Ne erano certi tutti. Siena non era amichevole e Pisa, sua alleata, non ci sarebbe certo andata più leggera. A Firenze si diceva “Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio” e temevano che presto avrebbero avuto parecchi pisani – e senesi – all’uscio, e questo avrebbe voluto dire molti altri morti in casa, come se non fossero bastati quelli di Montaperti. I guelfi più importanti della città, certi che per loro non ci fosse più speranza, se la diedero a gambe, come topi su una nave che affondi. Vieri si chiese se non avrebbe dovuto fuggir anche lui. Perché farlo? Lui non era nessuno, solo un soldato che aveva combattuto facendo il suo dovere. Era un pesce piccolo, mentre i vincitori sarebbero venuti a pescare quelli grossi. Per il popolo sarebbe cambiato qualcosa? Forse no. I contadini avrebbero continuato la loro vita, pensava, ma non era poi troppo convinto. Non erano passati neppure dieci giorni dalla battaglia, che per Firenze si rividero facce che mancavano da un bel po’: erano i ghibellini fuggiti sotto il governo guelfo e che ora erano tornati a riprendersi la città. La gente diceva che erano solo degli illusi e che Siena avrebbe messo al governo qualcuno dei suoi, non certo quei vigliacchi che avevano abbandonato la città sotto il governo guelfo per rifugiarsi a Bologna o altrove. I codardi non servono né ai vinti, né ai vincitori. “Non c’è persona peggiore di un vile con cui trattare.” “Sarà sempre pronto a darsela a gambe, anche se contavi su di lui per pararti le spalle o se speravi che prendesse parte in una disputa.” “I vili al governo non sanno prendere decisioni, se non quelle che si prendono da sole, e a volte neppur quelle.” “A comandare è meglio un ignorante che un fifone.” Queste e altre pensate passavano per la mente dei fiorentini. Però, non c’era alcun dubbio, era il loro momento: i ghibellini transfughi speravano di riprendersi la città e, all’apparenza, lo stavano proprio facendo. A Vieri la politica interessava poco, ma a questi ghibellini smidollati davvero preferiva i vecchi capi guelfi del Governo del Primo Popolo. Quando, più avanti, Siena e Pisa marciarono su Firenze, come Vieri aveva previsto, i ghibellini non furono di alcun aiuto alla città, anzi fecero di tutto per favorire gli invasori, anche se alcuni di loro facevano finta di metter la città davanti al partito. Vieri si affacciò dalle mura a Porta Isola d’Arno, vide i ghibellini accampati e gli prese male. Erano davvero troppi! Non era un esperto di guerra, ma quelli là fuori non gli parve che c’avrebbero poi messo molto a buttar giù quelle mura stentate e a entrare in massa e armi. Non passò infatti molto, e Vieri li vide sciamar dentro. I senesi entrarono da Porta San Simone e poco dopo i Pisani superavano le difese sul ponte che attraversava l’Arno e si infilavano per Porta di Santa Maria, dando subito l’assalto al Castello di Altofronte, dove si ricongiunsero con le truppe senesi. Vieri era dinnanzi al Bargello, quel nuovo edificio che aveva inglobato il vecchio Palagio e la torre dei Boscoli, quando i senesi passarono di là, inseguendo e ammazzando chiunque vedessero. Di fiorentini ne vide cadere quanti bastano, persino il buon Aleghiero Alagherii, il cambiavalute figlio di Bellincione, che se non fosse morto lì qualche anno appresso avrebbe potuto avere un figlio che avrebbe chiamato Durante - in breve Dante - e che avrebbe potuto scriver versi. Questo, Vieri non poteva certo saperlo, né che, così morendo Alighiero e con lui la possibilità di quella nascita, nessuno avrebbe mai scritto di Montaperti versi come: «Lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio.» Quel Dante non sarebbe mai nato, giacché questo di cui parliamo non è il suo tempo, ma un altro che ha già preso una strada diversa e sempre più divergente. Vieri vide cadere Giambuono Medici, che valorosamente aveva combattuto a Montaperti come ufficiale, e con lui Cavalcante Cavalcanti con tutta la sua famiglia, mentre poco lontano veniva assalita e depredata la casa del ricco banchiere Angioliero degli Angiolieri, trucidato assieme a tutta la famiglia, compreso il neonato Cecco, un altro che in un tempo divergente sarebbe magari potuto diventar poeta. Vieri si considerava un patriota e la sua città l’aveva difesa con le armi in pugno, ma sarebbe servito combattere in quella situazione? Firenze era nel caos e non poteva certo essere lui a riportarla all’ordine. Non gli restava che una cosa da fare: fuggire. Semplice a dirsi, ma assai più complicato a farsi. La città era cinta di mura e tutte le porte erano serrate. Le sole brecce erano quelle da cui entravano i nemici. Tentare di passar di lì sarebbe stato un suicidio. Non gli restava che nascondersi e aspettare il momento buono. Beatrice lo vide correre in giro e lo chiamò, cercando di non alzar troppo la voce. Vieri si voltò e la riconobbe. La ragazza gli fece un cenno e il giovane la raggiunse nella cantina in cui lei già si nascondeva, e lì aspettarono. La paura era tanta, ma Beatrice era una gran bella figliola e Vieri non poté non emozionarsi un po’ a sentirla respirare piano accanto a sé, a percepirne il battito accelerato del cuore terrorizzato. Se anche lui non fosse stato così spaventato, chissà, magari le si sarebbe fatto più vicino. Quella cantina, del resto, non era certo il posto più sicuro al mondo. Non gli ci volle, infatti, molto a capire di non aver fatto una gran scelta a rintanarcisi. Dall’odore di fumo, dal crepitio e dalle urla che arrivavano fino a lui, gli fu subito chiaro che Firenze bruciava, la casa in cui s’era rinchiuso bruciava. Anche Beatrice se ne rese conto e mandò un leggero grido soffocato, quasi un singhiozzo, e nascose la testa nel petto dell’amico. Vieri la abbracciò confuso. Quella situazione lo stava eccitando, ma la consapevolezza del pericolo incombente gli faceva roteare gli occhi attorno alla ricerca di una via di fuga o di un’idea. Il pavimento, che per loro era un soffitto, crollò. Cercò di far scudo con il suo corpo alla graziosa Beatrice, ma rimasero entrambi imprigionati, mentre il fumo e le fiamme riempivano la cantina. Tossirono, gridarono finché ne ebbero le forze. Vieri imprecò e non ebbe il tempo di pentirsene. Poi le fiamme li raggiunsero e presero a divorarli. Erano bloccati e non riuscivano più a muoversi. Vieri strinse la ragazza a sé e con le ultime forze la baciò sulle labbra tenere. La fanciulla, in pianto, con il volto rigato dal fumo e le mani insanguinate, ricambiò quel bacio, poi svenne e un attimo dopo anche Vieri perse conoscenza. Per sempre. * * * * * Cecco Gualtieri era ormai da due anni il maestro del giovane Vanni Salimbeni. Sedeva composto sulla panca sotto la finestra da cui si scorgeva uno scorcio di Camollia, la via che portava al mercato centrale di Siena, il Campo in cui si stava edificando il nuovo Palazzo Comunale, accanto a Palazzo Sansedoni. Di fronte sedeva il suo allievo. Accarezzandosi di tanto in tanto la barba grigia, l’istitutore prese a raccontare della battaglia che aveva segnato l’inizio della gloria della loro città. «Il 4 Settembre dell’Anno del Signore 1260, Siena, con altre città ghibelline fedeli a Manfredi di Svevia, sconfisse le truppe filopapali dei guelfi fiorentini nei pressi di Montaperti, a sud est della nostra città. Montaperti dovresti ricordarla. L’anno scorso andasti alle fonti termali di Acqua Borra, lì vicino.» «Sì. Mi ricordo bene. Facemmo una bella passeggiata.» «Guidava l’esercito fiorentino Bocca degli Abati, che favorì la nostra vittoria mozzando la mano di Jacopo de Pazzi, che reggeva lo stendardo fiorentino, mandando così in crisi le truppe guelfe, private di una bandiera da seguire. Jacopo de Pazzi perì poi in battaglia. Bocca degli Abati era fiorentino e guelfo, ma divenne ghibellino, come Siena. Sebbene avesse aiutato la nostra città, non ebbe alcun vantaggio dall’impresa, perché i traditori non sono mai amati, neppure da chi beneficia dei loro servigi.» «Perché? Se ci aveva aiutato ed era diventato ghibellino come noi, avremmo dovuto essergli grati.» «Ti fideresti di un comandante che ha tradito i suoi uomini? Perché non dovrebbe farlo ancora? Se ha tradito i suoi compatrioti, perché non dovrebbe tradire anche chi per lui un tempo era un nemico? Chi tradisce resta senza casa, figliolo. Questa è una lezione più importante di quelle di Storia. Ricordatene sempre. Giuda potrà anche aver fatto del bene in vita sua, ma sarà sempre ricordato per il suo tradimento. Per tradire può bastare il tempo di un bacio. Un attimo che cancella un’intera vita. Manfredi di Svevia, figlio naturale di Federico II di Hohenstaufen, dal 1259 appoggiava Siena e i suoi commerci lungo la via francigena, fornendole alcuni squadroni di cavalieri tedeschi guidati da suo cugino, il vicario regio Giordano d’Agliano. Ricordi chi era Federico II? Ne abbiamo parlato la scorsa settimana.» «Federico II di Svevia era figlio di Enrico VI, a sua volta figlio di Federico I, detto il Barbarossa, l’imperatore del Sacro Romano Impero Germanico. Federico II fu re di Sicilia e di Germania, e anche lui Imperatore del Sacro Romano Impero.» «Esatto. Manfredi offrì l’appoggio di soli cento cavalieri e Siena stava per rifiutarli sdegnosamente. Fu Farinata degli Uberti, un fiorentino ghibellino, a convincerli ad accettare, certo che la partecipazione imperiale fosse importante a prescindere dalla sua entità. Una volta coinvolto, Manfredi si sarebbe visto costretto ad aumentare il proprio impegno bellico, così come effettivamente fu. L’ironia del destino è che Farinata favorì così la nostra vittoria nella battaglia di Montaperti contro la sua stessa città, e si trovò poi a pagarne di persona le conseguenze e a nulla servirono le sue insistenze.» «In che senso?» «Lasciami andare avanti. Ci arriveremo a tempo debito. La lega guelfa che si era battura a Montaperti comprendeva varie altre città oltre a Firenze: Bologna, Lucca, Perugia, Orvieto, Prato, San Gimignano, Volterra, San Miniato e Colle Val d’Elsa. L’esercito guelfo, forte di trentamila fanti e tremila cavalieri, si mosse alla riconquista di Montepulciano e Montalcino. Si accamparono sull’Arbia, a Montaperti, consegnando un ultimatum al Consiglio dei Ventiquattro di Siena.» «Il nostro governo?» «Sì. Senesi, Pisani, Ternani, Tedeschi e gli altri ghibellini contavano solo ventimila uomini, di cui i duemila fanti e gli ottocento cavalieri di Re Manfredi, che già aveva aumentato il contingente proposto un anno prima. Il 3 settembre l’esercito senese-ghibellino guidato da Provenzano Salvani uscì da Porta Pispini, sfilando tre volte davanti ai guelfi e cambiando ogni volta le divise, così da far credere loro di essere più numerosi. Il 4 settembre i ghibellini si schierarono a battaglia. L’esito è ben noto: nonostante il vantaggio numerico iniziale dei guelfi, le loro perdite furono di diecimila morti e quindicimila prigionieri, mentre i ghibellini persero seicento uomini e contarono quattrocento feriti.» «Una disfatta per i guelfi!» «Puoi dirlo forte! I guelfi fiorentini sopravvissuti fuggirono a Bologna e Lucca, temendo di finire nelle mani dei ghibellini. Firenze era in balia di Siena. I ghibellini fiorentini rientrarono in città il 27 settembre e ne presero possesso. Tutto ciò che era appartenuto ai guelfi di Firenze fu distrutto, case e torri comprese. Eppure, i ghibellini non erano soddisfatti. A fine settembre dell’Anno del Signore 1260 fu convocata a Empoli una dieta delle città toscane. Il cosiddetto Parlamento Ghibellino si riunì nel Palazzo Ghibellino di Empoli, di fronte alla Collegiata. I rappresentanti di Siena e Pisa, non soddisfatti della distruzione delle proprietà dei guelfi, si rivolsero ai legati dell’imperatore Manfredi e chiesero che l’intera città di Firenze fosse rasa al suolo. Florentia delenda est, disse Provenzano Salvani, il comandate dell’esercito senese durante la battaglia, imitando… imitando chi?» «Marco Porcio Catone: Carthago delenda est!» Il maestro annuì e riprese. «I legati tentennarono, non vedendo la ragione di infierire su una città sconfitta, ma Provenzano Salvani e altri insistettero che la questione fosse sottoposta al voto del Concilio di Empoli. Farinata degli Uberti, fiorentino ma di parte ghibellina, si oppose alla proposta. Capisci perché dissi che aiutando Siena a vincere si era dato, come si suol dire, la zappa sui piedi? Se solo Farinata non avesse fallito durante la Dieta di Empoli, Firenze si sarebbe salvata. Avrebbe dovuto pensarci su due volte prima di portare i tedeschi dalla parte di Siena, e così non si sarebbe trovato nei guai poi, durante le trattative. Dobbiamo ringraziarlo due volte per il nostro successo.» «Se non avessimo avuto l’appoggio dei Tedeschi, magari non avremmo vinto a Montaperti e non ci sarebbe stato bisogno di discutere della distruzione di Firenze!» «Proprio così! Farinata sperava di farsi aiutare da Siena per tornare a Firenze da padrone. La sua famiglia, gli Uberti, era stata molto potente in città ai tempi di suo nonno Schiatta Uberti, e avrebbe voluto che tornasse tale. Non si aspettava che i vincitori sarebbero arrivati al punto di voler distruggere la città, tuttavia Firenze rappresentava un grave ostacolo ai commerci via terra di Siena e via mare di Pisa. Non c’era spazio nella regione per tre città di quelle dimensioni. Più che ragioni politiche, erano questioni economiche a spingere le due città a liberarsi della scomoda rivale. Farinata rappresentava sì i ghibellini fiorentini, ma questi, pur dopo la fuga dei guelfi della città, erano troppo pochi e troppo deboli per garantire un’adeguata obbedienza a Siena e Pisa. A queste due città, invece, poco importava chi governasse a Firenze: volevano togliersi di torno la città che, guelfa o ghibellina, sarebbe comunque stata di ostacolo ai loro traffici. Manfredi avrebbe mantenuto lo status quo, ma suo cugino Giordano d’Agliano, dal 1258 Conte di San Severino, era ambizioso, e aveva cominciato a capire meglio del sovrano le politiche toscane. Fu Rinaldo Salimbeni…» «Salimbeni? Come me?» «Era il fratello di tuo nonno. Fu lui a spiegare a Giordano che se Firenze non fosse stata eliminata, avrebbe potuto riorganizzarsi e creare problemi a Siena e Pisa, che ambivano a guidare la regione ed erano fedeli all’impero. Giordano si convinse, e convinse a sua volta il cugino Manfredi. Farinata, il cui vero nome era Manente di Iacopo degli Uberti, fu messo in minoranza. Si andò al voto. In una dieta di soli ghibellini avversi a Firenze l’esito fu scontato. La città nemica andava distrutta. Tra il dire e il fare, dice il proverbio, c’è di mezzo il mare. Distruggere una città come Firenze non sarebbe stata una passeggiata. Farinata si precipitò a Firenze a portare la cattiva notizia e la organizzò, chiudendo le mura e chiamando alle armi tutti i cittadini. I guelfi di Lucca e Bologna si misero in allarme. Dal 12 settembre, i ghibellini fiorentini erano tornati e il 17 avevano creato un loro governo. Siena e Pisa potevano anche essere ghibelline come loro, ma i ghibellini fiorentini non avrebbero permesso che radessero al suolo la loro città e si appropriassero di ciò che apparteneva loro. Lasciata da parte la fede politica, fecero prevalere l’amore per la città, i propri averi e il desiderio di mantenere la supremazia economica sulla Toscana, e si asserragliarono in difesa.» «Firenze non poteva arrendersi a Siena? E Siena non avrebbe potuto evitare di distruggerla?» «Ragazzo mio, tutto è possibile, ma per una serie di piccole coincidenze la Storia finisce per prendere un corso e diventa difficile far cambiare letto a un simile fiume. Una battaglia è fonte di odio tra due popoli e l’odio è un incendio che non è facile spegnere. Siena, fiera della temporanea supremazia, ne capiva la fragilità e voleva consolidarla. Quello di cui aveva bisogno era un vero appoggio tedesco. L’assedio poteva rivelarsi lungo, insidioso e incerto. Solo con un forte contributo di Manfredi potevamo sperare di sfruttare il momento di sbandamento della città del giglio. Giordano D’Agliano non perse tempo e guidò gli alleati ghibellini a stringere d’assedio Firenze, mentre i legati di Manfredi chiedevano al sovrano immediato e consistente appoggio. Manfredi e Giordano ambivano a controllare così l’intera Toscana, mentre Pisa e Siena volevano ridurre in cenere Firenze e Lucca e aver via libera per i propri commerci. Questa volta Manfredi non si dimostrò avaro di mezzi. Consapevole della fugacità del momento e dell’occasione propizia per allargare i suoi domini, inviò duemila cavalieri e ottomila fanti. Uniti alle forze ancora quasi intatte delle città toscane filoimperiali, avrebbero dato del filo da torcere agli sfiancati fiorentini. Il secondo passo sarebbe stata Lucca. I lucchesi e le altre città guelfe, consapevoli del rischio, compresero che la loro sola speranza di salvezza consisteva nell’arginare l’avanzata ghibellina a Firenze, e fecero convergere sull’Arno le loro truppe. Si mossero troppo tardi, solo quando videro arrivare i tedeschi. Siena, invece, aveva già forzato le difese fiorentine prima ancora dell’arrivo dei rinforzi. Firenze aveva schierato le truppe lungo la strada, all’altezza di Colle Val d’Elsa, per arginare l’avanzata nemica, ma Siena sbaragliò le linee difensive, costringendo le truppe fiorentine a ripiegare precipitosamente dentro le mura. Nel frattempo Pisa risaliva l’Arno, trovando ben poca resistenza. All’arrivo degli uomini di Manfredi, Firenze era ridotta all’interno delle mura edificate nel 1172 con pietre di fiume e materiali di recupero: non avrebbero offerto una gran resistenza. I ghibellini si asserragliarono tutto intorno. Gli assedianti posero il proprio quartier generale a Porta d’Isola d’Arno. Quando arrivarono i lucchesi con i perugini e i pratesi, non riuscirono a ricongiungersi ai fiorentini. Si posero in assedio agli assedianti, ma il subitaneo arrivo dei tedeschi li costrinse a sloggiare per non trovarsi schiacciati tra due fuochi. Bologna, Volterra e San Miniato, vista la mala parata, bloccarono gli eserciti in cammino verso Firenze e li rispedirono a presidiare le proprie città senza tentar battaglia. Firenze si ritrovò sola. Creare una breccia nelle fragili mura non fu troppo complesso. I ghibellini sciamarono all’interno, passando ogni cosa a ferro e fuoco.» «Distrussero Firenze?» «Sì. Rasero al suolo la città nemica e consolidarono così la supremazia di Siena.» «E che cosa ci faceva Siena di una città distrutta?» «Non era Firenze che volevano conquistare, ma il potere della città sulla regione. Per oggi la lezione di Storia può interrompersi. Domani ti racconterò di come furono conquistate anche Lucca, Perugia e Bologna. In questo Anno del Signore 1300, a seguito della sottomissione di Pisa, Siena governa su Toscana, Umbria ed Emilia, avendo assoggettato tutte le città che si opposero a lei nella grande battaglia di Montaperti, mentre Firenze è ormai solo un piccolo borgo di poche anime, di assai meno rilievo, per esempio, di Poggiboinizio, che era in battaglia con la nostra parte e che da allora è cresciuta in importanza.» Carlo Menzinger
Nota:
La storia narrata corrisponde a realtà fino alla Dieta di Empoli. In tale occasione, Farinata riuscì a opporsi a chi voleva distruggere la città, consentendole negli anni venturi, di riprendersi e conquistare il ruolo che conosciamo nel Rinascimento italiano. Qui si immagina (divergenza ucronica) che Farinata fallisca e ne consegua la distruzione di Firenze, con la morte di Alighiero (padre di Dante Alighieri), Guido Cavalcanti, Cecco Angiolieri e uno dei capostipiti della famiglia Medici. Il racconto fa parte dell’antologia “Apocalissi fiorentine” (Tabula Fati, 2019).
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Maurizio Oliviero, Francis kay, Bruna Monaco, Laureano Lopez Martinez, Nicola Bianchi, Caterina Perrone, Francesco Panizzo. |
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