Da bambino adoravo l’estate; adesso non è che proprio la odio ma certo non è la mia stagione preferita. Oggigiorno per me la cosa più bella dell’estate (con l’eccezione di quest’anno sciupato dal Covid) è il mio viaggio a Sappada.
D’altro canto, sul finire di quest’estate 2020, mi è capitato tra le mani un libro di Ray Bradbury che mi ha catturato fin dalle prime pagine. Si tratta di un romanzo di formazione del 1957 intitolato L’estate incantata. Bradbury l’ho sempre apprezzato come autore di genere fantastico, quindi ho dovuto faticare un po’ per vederlo in un’altra veste, ma alla fine ho riconosciuto la sua vena poetica e sognatrice che traspare anche in pagine realistiche (o di “realismo magico”, come le definisce Wikipedia) e me lo sono goduto fino all’ultima pagina. Si tratta di un romanzo corale, un po’ alla Verga, anche se il protagonista è senza dubbio Douglas Spaulding, dodici anni, alter ego dello stesso autore. Doug vive l’estate del 1928 nella cittadina immaginaria di Green Town, nell’Illinois; la sua vicenda si intreccia con quella di alcuni concittadini di età e condizioni diverse, i quali formano un intreccio di racconti nel romanzo che fa pensare a una sorta di Antologia di Spoon River dedicata ai vivi (anche se diversi saranno i personaggi che passeranno “a miglior vita” prima dell’arrivo dell’autunno). Lo sguardo “incantato” di Doug, che all’inizio di questa estate americana scopre dapprima di essere “vivo” e, verso la fine, di dover prima o poi morire, è il filo conduttore delle riflessioni dell’autore sul significato del Tempo e dell’Impermanenza. Il titolo originale del romanzo è Dandelion Wine, ossia “dente di leone”: la pianta con cui il nonno di Doug prepara durante l’estate un vino che conserverà per tutto l’anno, metafora del sole e dei sapori estivi che rivivono in altri momenti dell’anno. Il personaggio del nonno, come la maggior parte degli anziani in quest’opera, rappresenta la saggezza di chi ha vissuto a lungo e ha uno sguardo sereno sul passato e sul futuro (anche se appare di pensiero piuttosto “conservatore” e non mostra di amare molto le novità). Così come un altro personaggio indimenticabile, quello della signorina Helen Loomis, novantacinquenne, che vive una sorta di amore platonico senile con un giovanotto che si era innamorato di lei vedendo una sua vecchia foto, credendo si trattasse di una ragazza del presente: una storia che mi ha commosso (e non mi succede spesso). Notevole anche il colonnello Freeleigh, più che novantenne, autentica “macchina del tempo” per i ragazzini che ascoltano incantati i suoi racconti del passato. L’arzillo vecchietto morirà infermo e la sua ultima soddisfazione sarà fare telefonate intercontinentali per sentire i rumori di città lontanissime: quando anche questo piccolo “capriccio” gli verrà negato dai parenti troppo apprensivi, morirà comunque sereno col telefono in mano e i suoni di Città del Messico nelle vecchie orecchie. La tesi più curiosa del libro è però quella secondo cui agli occhi dei ragazzini i vecchi non hanno mai avuto a loro volta un’infanzia: per loro sono sempre stati così, decrepiti, e così saranno per sempre. A fare le spese di questa curiosa idea è la signora Bentley, vedova e accumulatrice compulsiva. Non butta via nulla, conserva tutto in casa con amore, nell’illusione di poter conservare anche la sua gioventù. Quando delle ragazzine crudeli metteranno in discussione questa visione, insinuando perfino che la foto di lei da bambina, che mostra loro come prova che anche lei è stata come loro, l’abbia rubata, si scatena nell’anziana signora una profonda crisi da cui uscirà convinta che in fondo hanno ragione quelle ragazzine, che il passato non ha importanza e tutto ciò che conta è il momento presente. Decide quindi di farsi aiutare dalle stesse ragazzine a distruggere tutti i suoi ricordi in un falò che, pur diversissimo, a me ricorda sinistramente quelli di un romanzo ben più famoso di Bradbury…[1] La conclusione a cui giunge la signora Bentley rovescia in pratica il celebre aforisma di Antoine de Saint-Exupéry « Tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano)[2]»: la signora si ricorda fin troppo bene il suo passato, in modo quasi morboso, certo, e il suo cambio improvviso di atteggiamento mi ha lasciato perplesso. Se è vero che è saggio vivere il momento presente, non sono d’accordo che occorra negare le proprie radici, i giorni tristi e felici vissuti, né tanto meno quel momento magico che è l’infanzia. Sbaglia la signora Bentley a volerlo bruciare, e sbagliano le ragazzine stupide a incoraggiarla in quella direzione. Doug e suo fratello Tom fanno ragionamenti un po’ troppo profondi per la loro età; è fin troppo palese il pensiero dell’autore già maturo che parla attraverso le loro bocche infantili. A parte questo il romanzo è veramente interessante, anche per tante altre vicende su cui ho glissato (la storia della “macchina della felicità”, quella del serial killer detto “Solitario”, quella del tosaerba del nonno, quella della cucina della nonna, eccetera) che formano un mosaico affascinante. Gli adulti appaiono strani ma sorprendenti agli occhi del protagonista, il quale giungerà alla fine di questa lunga estate profondamente maturato (non a caso, come abbiamo detto, è un Bildungsroman). Leggendolo ho sentito anch’io il profumo dell’erba dove ci si rotola da bambini, quello dei dolciumi e del luna park, perfino quelli dei luoghi oscuri e selvaggi che ci facevano paura a quell’età): solo un grande narratore-poeta come Bradbury poteva riuscire a dipingere a colori così vividi quell’età incantata (anche se pure Stephen King in It se l’è cavata bene – e non a caso il “re del brivido” è un grande ammiratore del suo connazionale). Massimo Acciai Baggiani
Bibliografia:
Bradbury R., L’estate incantata, Milano, L’Unità, 1993 Note:
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